PAT BUCHANAN:SONO STATI I DAZI A FARE GRANDE L’AMERICA

L’economia USA “vola” (più 4,1% nel trimestre) e, qualunque  ne sia il  motivo, e quanto sostenibile,  Trump twitteggia esultante.  E’ l’effetto dei dazi  che Trump in realtà ha più minacciato che adottato?   Lo è in modo paradossale: molti  importatori  esteri, sembra,  hanno anticipato l’acquisto di prodotti americani prima che i loro governi ponessero, per rappresaglia, i propri dazi sulle merci Usa.

Come che sia, Pat Buchanan ne  approfitta per ricordare che – contrariamente a quel che  ci fa credere la propaganda  –  non è stato il “libero commercio” a far grande l’America.  E’ stato il protezionismo. Cattolico  irlandese,   in tempi lontani persino candidato presidenziale, paleo-conservatore  (contro i neo-con) per sua orgogliosa autodichiarazione, già nel 1998  aveva messo in guardia contro il  turbo-capitalismo con un titolo che oggi ci appare attualissimo: “Il Grande Tradimento – Come la sovranità Americana e la Giustizia Sociale sono sacrificate agli Idoli dell’economia globale”  (“The Great Betrayal: How American Sovereignty and Social Justice Are Being Sacrificed to the Gods of the Global Economy”.

Oggi, Buchanan ha buon gioco a ricordare che la rivoluzione americana (1775-1785) fu in realtà una guerra di indipendenza per uscire dal “mercato unico” dell’impero britannico e costruire  la propria industria invece che importare le merci industriali prodotte da Londra.

“Un  popolo libero deve promuovere le proprie manifatture in quanto lo rendono indipendente da altri per i prodotti essenziali, in particolare per le  forniture militari”, disse il nuovo Presidente Washington al Congresso.

Era un programma che  anche allora suonava come anatema per l’ideologia corrente; più precisamente, anti-economico, “inefficiente”  spreco di capitale nel produrre in proprio beni che potevano essere “convenientemente” comprati all’estero.  Adam Smith, che fu contemporaneo della rivoluzione americana (1723-1790),  scriveva: “La  causa del rapido progresso in ricchezza e  grandezza delle nostre colonie americane consiste in questo: che  quasi tutto il loro capitale è impiegato nell’agricoltura. Non hanno manifatture […].  La gran  parte delle esportazioni è operata col capitale dei commercianti che risiedono in Gran Bretagna. Se dovesse  accadere che gli americani, per associazione o per qualche sorta di violenza (sic) interrompessero l’importazione di manufatti europei,  dando un monopolio ai loro compatrioti sì che potessero fabbricare beni simili, essi ritarderebbero – anziché accelerare – la crescita della loro produzione annuale e ostacolerebbero – invece di promuoverlo  – il loro progresso  verso la prosperità”.

George Washington  assoggettava la razionalità economica alla politica: “Un popolo libero”, disse. Poche settimane dopo, il presidente imponeva una tassa su ogni nave straniera, in base al tonnellaggio. Così sottraendo agli inglesi il monopolio di fatto anche sul  trasporto delle merci importate. “Era nata la marina mercantile Usa”, nota Buchanan.

Di più. Londra non mancava di mantenere  i coloni obbedienti  a così ragionevoli principi  dettati da  Adam Smith, mantenendoli in deflazione permanente: rendendo scarsa la moneta fisica, battuta nel Regno Unito, in modo che i coloni non avessero capitali da impiegare in qualcosa di più che l’agricoltura.

La rivoluzione americana fu dunque anche l’uscita dalla “moneta unica”, sterlina.

Il grande Alexander Hamilton, il segretario al Tesoro di Washington (e suo vero ispiratore nell’economia politica) creò dunque la Banca Nazionale, la prima banca centrale “di Stato” mai vista.  Non aveva tanto oro e argento, ma aveva come attivi titoli del debito pubblico. Perché “la crescita del circolante”, scrisse Hamilton,  doveva essere determinata dalla “quantità e qualità della manodopera” del paese, non già “dall’abbondanza dei metalli preziosi che possiede”,  essendo la ricchezza “intrinseca della nazione” basata non sui metalli, bensì “sulla produzione della  sua manodopera e  la sua industria”.  In altre  parole, Hamilton avrebbe creato moneta  dal nulla fino a quando  ci fossero braccia e risorse disoccupate, sapendo che non avrebbe prodotto inflazione.

Alexander Hamilton (1755-1804)

Come avrebbe potuto? C’era tutta una industria locale da costruire, per rendere il paese auto-sufficiente (autarchico). Nel 1791, il segretario Alexander Hamilton pubblicò il suo Report on Manufactures: “La ricchezza, indipendenza e  sicurezza  di una nazione sono materialmente collegate alla prosperità delle manifatture. Ogni nazione deve sforzarsi di possedere al proprio interno tutte le forniture essenziali:  mezzi di sussistenza (alimentari), abitazione, vestiario e difesa”.

Ciò portò alla guerra anglo-americana (1812-15), le cui complesse cause si riducono al conflitto commerciale. Il terzo presidente, Thomas Jefferson, aveva posto un embargo alle navi mercantili inglesi, perché la marina mercantile statunitense era stata penalizzata dall’embargo che Londra aveva decretato contro la Francia napoleonica.

Fu in quella guerra che – come Trump ha ricordato ai canadesi –   le forze imperiali incendiarono la  Casa  Bianca. Il conflitto su concluse con un nulla di  fatto, il ritorno allo “status quo ante bellum”.

Buchanan: “Quando venne la pace, flotte  di mercantili inglesi arrivarono ai porti Usa” per riprendersi i mercati che gli erano stati chiusi durante il conflitto. “Scaricarono beni  sotto-prezzo”.  James Madison, il quarto presidente,  rispose imponendo nuovi dazi nel 1816.

Essenzialmente, si trattava di tessili. I tessili dei telai britannici, con cotone cresciuto  in India, erano estremamente convenienti:  il famoso vantaggio competitivo. Ragion per cui nel 1816, prima delle Madison Tariff,  gli Stati Uniti non avevano prodotto in proprio che “840 mila yarde di tessuto. Nel 1820, al riparo dei dazi, la produzione era di 13 milioni e 874 mila yarde. L’America era divenuta autosufficiente.  Finanziare “il miglioramento interno”  con dazi sui beni esteri divenne noto all’estero come Il Sistema Americano”.

Proprio vero: nel primo ‘800, “sistema americano” indicava il contrario di ciò che intendiamo adesso”: non  libero commercio mondiale senza dazi dettato dalla speculazione finanziaria, bensì dirigismo e protezionismo, volto all’autarchia  e al pieno impiego delle risorse lavorative e intellettuali della nazione.

Proprio con questo nome lo raccomandò il tedesco Friedrich List (1789-1846) ai suoi concittadini e allo Stato germanico nascente, nel suo Sistema Nazionale di Economia Politica.  List era stato in America negli anni del grande sviluppo industriale, vi aveva partecipato, e partecipato al dibattito fra “Liberisti” e sovranisti.

Friedrich List, 1789-1846.

 

Il suo testo è il fondamento della Economia Politica, dove consapevolmente si differenzia  l’economia di uno Stato da quella dei privati, contro Adam Smith (“La più ricca delle nazioni sarà quella dove gli individui sono al più alto grado lasciati a se stessi”) perché “è forse degli individui tener conto dei bisogni de secoli futuri, come fanno gli Stati?”.   L’economia politica – che detta le ricette per suscitare le forze produttive di una nazione, anziché limitarsi a dettare le leggi dello scambio come il liberismo –  ha creato la prosperità germanica, da Bismarck ad Hitler al dopoguerra col capitalismo renano. Oggi non la si insegna più nelle università, e il liberismo globale è il Pensiero Unico.

 

 

Per il quale sono anatema  le parole del senatore Daniel Webster (1782-1852): “La protezione del nostro  lavoro contro il deprezzato, mal-pagato, malnutrito e  pauperizzato lavoro di Europa, è un dovere che il paese  deve ai  suoi cittadini”. O anche la sentenza di Abrahm Lincoln, ancora membro del Congresso,  nel 1844:  “Dateci tariffe protettive, e avremo la più grane nazione sulla terra.  L’abbandono di politiche protettive da parte del governo americano per forza produrrà sia lavoro inutile sia inoccupazione …miseria e rovina fra il nostro popolo”.

“Questo”, commenta Buchanan, “è patriottismo economico, conservatore  nel cuore.  I globalisti  cosmopoliti e per il governo mondiale raccapricciano davanti a  frasi come “Prima l’America”.   Nei tempi nostri, l’abbandono del patriottismo economico ha prodotto nell’America di mezzo quel che Lincoln  ha predetto  e che ha fatto eleggere Trump”.

Dalla Guerra Civile fino al  ventesimo secolo, ricorda  Buchanan, la politica eocnomica Usa  fu fondata sulle Tariffe Morrill, dal nome del senatore Justin  Morrill che nel 1857 dichiarò di considerare il libero commercio non meno che tradimento:

“Il free trade ripudia il patriottismo ed esalta il cosmopolitismo: considera le fatiche del nostro stesso popolo  con non maggior favore di quelle del barbaro del Danubio o del coolie del Gange. Io sono per governare l’America prima, a beneficio degli americano, e per “il resto del mondo”,  se mai dopo”.

William McKinley, il 25mo presidente, schiaffò altri dazi: la McKinley Tariff  nel 1892. Con questa motivazione: “L’aperta  competizione tra il lavoro americano ben pagato e il lavoro europeo pagato male,  o abbasserà i salari americani o farà sparire le industrie americane”. Che è proprio quello che è successo  in Occidente.

“Sostituite ‘lavoro europeo’ con  ‘lavoro asiatico’  e non vi pare che questo descriva bene ciò che è accaduto all’industria USA  negli ultimi 25 anni?”, domanda Buchanan: “12 mila miliardi e passa di deficit  commerciale, salari bloccati per i nostri lavoratori, sei milioni di occupazioni industriali perdute, 55 mila fabbriche chiuse”.

Per contro, “che cosa hanno prodotto i protezionisti?”

Risposta:

“Dal 1869 al 1900, il  prodotto interno lordo quadruplica. Attivi commerciali si susseguono per 27 anni filati. Il debito pubblico USA  fu ridotto di due terzi, al 7% del Pil. I prezzi delle materie prime calarono del 58 per cento. La popolazione Usa raddoppiò, eppure i salari reali crebbero del 53  per cento. La crescita media fu del 4% annuo”.  Anche “dal 1922 al 1927”   furono messi dazi  (Warren Harding, Cal Coolidge e Fordney-McCumber Tariff), e il Pil crebbe del 7 per cento l’anno.

Poi naturalmente, comincia quell’altra storia, quell’eccesso di euforia che portò alla Grande Depressione;  la storia della finanza, delle dattilografe e fattorini che cominciarono a giocare a Wall Street con soldi che le banche gli prestavano. Buchanan non parla di questa storia – perché bene o male la conosciamo.  E’ invece la storia che sfiora a volo d’uccello, la crescita americana sotto dazi  autosufficienza, che andrebbe scritta. E cominciare ad essere insegnata, a fianco della dogmatica  liberista-globalista. Non fosse che per completezza d’informazione: si constata la presenza di docenti, cattedratici di economia, che nulla sanno di creazione monetaria “dal nulla”, perché hanno imparato solo il pensiero unico.