IL MITO DELLA PRODUTTIVITA’

di Andrea Cavalleri

 

Con il termine “produttività” si intendono due concetti distinti, anche se interconnessi.

Il primo significato è quello fisico, cioè la maggiore o minore capacità di produrre merci in senso assoluto: l’impianto a pieno regime produce tot pezzi all’ora, al giorno, all’anno.

Il secondo è quello monetario: il costo orario di un dipendente diviso la produzione oraria di quello stesso lavoratore determina  il costo unitario del singolo prodotto, ovvero il risultato della produttività.

 

I fattori che accrescono la produttività fisica sono il supporto tecnologico e l’organizzazione del lavoro. Quelli che accrescono la produttività monetaria sono la produttività fisica positiva (più s’innalza e più cresce quella monetaria) e il costi di produzione, tra cui il costo del lavoro, negativi (più diminuiscono e più cresce la produttività monetaria).

Ora, per una qualunque impresa, la produttività fisica è normalmente calibrata sul proprio mercato: se l’azienda vende 1 milione di pezzi l’anno, non ha senso che si doti di un impianto capace di produrre 1 milione di pezzi al giorno. Di solito l’impresa accresce la potenza degli impianti dopo che la domanda di merci è aumentata, e solo raramente investe in tecnologia prevedendo di soddisfare una domanda accresciuta in virtù di un prezzo di vendita ribassato dalla maggior produttività dei nuovi macchinari.

Quindi, la via più battuta, perché la più sicura, scevra di rischi per l’impresa, è quella di abbassare i costi, soprattutto il costo del lavoro perché è quello più visibile e più manipolabile.

In definitiva a chi produce si chiede di farlo il più in fretta possibile e al minor costo possibile.

 

Questa la realtà vista in soggettiva da un’impresa, uno dei tanti attori del mercato.

Ma se consideriamo la realtà economica complessiva di un sistema, valgono le stesse considerazioni che valgono per la singola azienda?

 

La produttività fisica.

Cominciamo a esaminare l’aspetto fisico della questione.

Un sistema chiuso, cioè che ha la responsabilità di soddisfare tutti i bisogni della sua società, si pone innanzitutto il problema della produttività minima, quella grazie a cui le necessità vengono ottemperate. Un sistema chiuso è ad esempio una nazione sovrana dotata di moneta e politica proprie, sistema chiuso può essere una tribù aborigena, sistema chiuso per eccellenza è il mondo, dato che al momento altro non c’è e non si intravedono scambi commerciali coi marziani.

La produttività minima può essere l’esatta quantità richiesta dalla domanda complessiva della società, se la società è autosufficiente (si produce da sola tutti i generi di cui ha bisogno), oppure tale produttività minima deve eccedere la richiesta interna di una quantità/qualità tale che pareggi la quantità/qualità importata dall’esterno.

 

Cosa succede quando la produttività supera quella minima?

Ipotizziamo una comunità chiusa che vive su un’isola scollegata dal mondo. Quando la produttività sull’isola sarà tale da garantire il cibo a tutti, con scorte per fronteggiare le cattive evenienze, la casa i vestiti e tutte le prime necessità, avanzerà del tempo che potrà essere dedicato a rendere la vita degli abitanti sempre più confortevole, comoda e sicura: ci sarà del tempo per studiare, ricercare e approntare metodi di produzione sempre più efficaci, questi libereranno altro tempo che potrà essere dedicato alla religione, alle cure della persona, alla cultura allo sport e all’intrattenimento.

Se la produttività aumentasse ulteriormente resterebbe del “tempo libero” che ciascuno utilizza come preferisce.

 

Naturalmente questa situazione presuppone che tutti fossero amici e parenti e che considerassero i benefici provenienti dal progresso come un bene collettivo.

Qualcuno potrebbe  anche invocare i propri meriti per godere di una situazione speciale.

Ad esempio, coloro che tramite le opere d’ingegno avessero conseguito i risultati più vantaggiosi per la comunità potrebbero chiedere a buon diritto di essere esentati da tutti gli impegni noiosi e godere di più tempo libero degli altri. Coloro che svolgono con maggior rendimento i lavori più utili e faticosi potrebbero richiedere una disponibilità di beni un po’ superiore alla media e così, in generale, per chiunque svolgesse un ruolo difficile da adempiere con particolare perizia.

Ma certamente, pur con qualche discussione e successivi aggiustamenti, si troverebbero gli accomodamenti che riconoscessero i meriti personali, nella salvaguardia degli interessi di tutti.

 

E’ chiaro che quando si parla della produttività fisica si parla della creazione di beni e servizi prodotti dal lavoro, e dal lavoro suddiviso e organizzato, ad opera di una comunità che ne vuole godere i benefici. Anche ammesso (ma è praticamente impossibile) che qualcheduno, dopo averlo inventato, volesse tenere per sé un qualche ritrovato tecnologico e goderne da solo, si condannerebbe all’isolamento relazionale, in cambio di un vantaggio materiale, di cui comunque non sarebbe privo se lo condividesse anche con gli altri: il gioco non varrebbe la candela.

Comunque in un sistema dominato dalle esigenze fisiche, materiali, l’aumento della produttività coincide con un aumento generalizzato della ricchezza.

 

Il mondo reale e la produttività monetaria.

Questa situazione che abbiamo descritto è la stessa che osserviamo nella nostra realtà in cui viviamo? Certamente no perché è evidente che il criterio che guida il mondo attuale è quello della produttività monetaria. Vorrei pertanto sottolineare le differenze ed evidenziarne le cause.

 

Partendo da una semplice descrizione dei fatti, risulta subito che il problema della produzione minima non si pone, mentre sussiste l’obbligo del guadagno minimo, che serve per pareggiare tutte le spese e generare possibilmente degli utili. Ora guadagnare significa diventare proprietari di una quota di tutti i beni e servizi esistenti, mentre produrne significa crearne di nuovi. Quindi il vincolo della produttività monetaria tende a estraniare l’impresa dalla propria missione. Ad esempio il panettiere ha la missione di sfamare il proprio quartiere, tuttavia se il fornaio trovasse tre clienti che per un panino speciale lo pagano quanto basta per farlo vivere, gli converrebbe soddisfare solo quelli, eliminando problemi produttivi, lavoro e acquisti di materie prime, ma lasciando a bocca asciutta tutto il vicinato.

 

Seconda differenza: mentre sull’isola le retribuzioni maggiori spettano a chi ha maggiori meriti reali (scienziati, tecnici, specialisti e uomini di fatica) nel mondo reale le retribuzioni maggiori vanno a chi deteneva previamente le maggiori quote di ricchezza. I brevetti sono intestati all’azienda e non sono gli inventori a goderne i maggiori benefici, ma i proprietari. Se un lavoratore produce più velocemente di prima (magari grazie all’impiego di nuove tecnologie) il suo orario di lavoro e il suo salario restano identici. Quote generalizzate del lavoro collettivo vanno in tasca a pochi privilegiati sotto forma di pagamento di interessi.

 

Una terza differenza è la presenza sensibile e abbastanza numerosa di persone miserabili, completamente escluse dal mondo del lavoro e dai benefici che ne possono seguire.

Nell’isola il sistema produttivo è stato organizzato per la sussistenza della comunità e tutti sono stati chiamati a contribuire a questo scopo nei limiti delle proprie possibilità. Il mondo che viviamo invece è organizzato per la sussistenza individuale dove le persone sono utilizzate come pedine per riempire le caselle vuote del sistema, mentre l’esclusione è utilizzata come punizione esemplare ed elemento di motivazione per indurre i singoli a lottare come i gladiatori per sopravvivere.

In teoria la competizione servirebbe proprio a promuovere la produttività (monetaria), ma lo fa in modo tale che il merito non è particolarmente premiato, mentre il demerito è sanzionato duramente.

 

In definitiva osserviamo che, in un mondo condizionato dalla produttività monetaria, il fenomeno più rilevante è la crescita del divario di ricchezza tra i più ricchi e i più poveri.

Le ragioni della differenza.

Abbiamo già sottolineato che la produttività fisica accresce la ricchezza totale, in risposta a una scala di motivazioni che insorgono nella società produttrice-consumatrice, motivazioni che in sintesi seguono un percorso di intensità (dal massimo al minimo) che parte dalla necessità vitale e si muove lungo l’asse delle utilità, legittime aspirazioni, comodità, sfizi.

La produttività monetaria invece è finalizzata ad accrescere la proprietà dell’impresa (che poi vuol dire dell’imprenditore, al di là degli eufemismi pseudo-moralistici); questa tensione tuttavia non promuove necessariamente la crescita della ricchezza totale, anzi esistono parecchi casi in cui il guadagno di un agente economico aumenta al decrescere della ricchezza totale (ad esempio durante un’epidemia i molti malati non producono né prestano servizi, quindi la ricchezza totale cala, ma la ricchezza relativa delle aziende farmaceutiche e della classe medica aumenta).

 

Questo accento sulla proprietà è dovuto alla natura del denaro, che è un titolo di proprietà in bianco, atto a sancire il possesso di un dato bene nel momento in cui viene speso (tutti i discorsi sul valore sono aria fritta e sviano dall’autentica comprensione dell’economia). Perciò “fare soldi” significa cumulare proprietà virtuali, ma ovviamente questo non dice nulla sullo stato della ricchezza totale.

 

E’ vero che normalmente i soldi si fanno lavorando (cioè le proprietà si acquisiscono creando ricchezza) tuttavia basta già questa differenza di intenti, considerando imprescindibile un fine piuttosto che l’altro, per creare un orientamento economico specifico.

 

In un sistema che attua la divisione del lavoro, fonte di ogni prosperità, esiste la concorrenza (da cum currere, correre insieme) cioè una compartecipazione all’approntamento della ricchezza totale.

Quando l’accento viene posto sulla proprietà di detta ricchezza, la concorrenza diventa competizione e la competizione belligeranza.

Questa degenerazione purtroppo è quasi inevitabile perché l’operatore economico non può pensare di accrescere le sue proprietà semplicemente producendo di più. Nei sistemi a lavoro suddiviso ciascuno fa una cosa sola, ma ha bisogno di tutto, dunque ha bisogno di quel mezzo che virtualmente rappresenta il tutto e cioè il denaro. E aver bisogno del denaro significa lottare per salvaguardare la propria quota di possesso della ricchezza totale.

 

Ecco allora che lo scambio diventa ricatto.

Dalla concezione dell’isola: “facciamo tutto quello che ci serve per vivere bene, ognuno produce una cosa e poi scambiandole tutti hanno tutto” si passa alla visione osservabile che consiste nel  “io faccio una cosa e non te la do se tu non mi dai qualcosa che mi serve”. Abbiamo già visto che “qualcosa che mi serve” in definitiva è quasi solo il denaro e questo implica che chi manovra il denaro detiene la suprema arma di ricatto, al punto che, se lo fa mancare del tutto, ammazza la gallina dalle uova d’oro, cioè la divisione del lavoro, e si torna alla miseria.

 

Questo spiega perché il massimo successo in termini di produttività monetaria ce l’abbiano coloro che creano e dirigono il corso del denaro, cioè le banche e gli enti finanziari. E logicamente questi enti (ovvero i loro padroni) detengono le maggiori quote di ricchezza al mondo.

Lo studio del 2007 dei ricercatori dell’Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo dimostra che quanto sto dicendo non sono speculazioni intellettuali, ma la realtà nuda e cruda. Infatti quella ricerca dimostrò che 147 enti finanziari (banche, fondi assicurazioni) sono proprietari delle 43.000 società multinazionali più importanti del mondo, per un totale del 40% della ricchezza globale.

 

Il massimo successo spetta a chi può dire “io fabbrico o controllo il denaro e non te lo do se… tu non fai quello che voglio”. E per la legge della domanda e dell’offerta, chi produce e fa circolare il denaro bada di offrirne meno di quanto se ne richieda per avere un vantaggio rispetto ai fornitori di ogni altra merce. Quindi la situazione attuale può essere definita come capitalismo, cioè quel sistema che facendo scarseggiare gli investimenti se ne assicura i profitti.

Le cause profonde.

A onta di coloro che pretendono che l’economia abbia le sue esigenze peculiari e tecniche, e che interventi esterni che volessero indirizzarne il corso procurerebbero solo dei danni (discorso pretestuoso e falsissimo), le ragioni originarie della situazione descritta risiedono in una dimensione pre-economica e più specificamente politica.

 

Nel raffronto tra la situazione dell’isola e quello del mondo reale, non sarà sfuggito che la prima si comporta realmente come sistema chiuso, mentre nel mondo reale tutte le economie avanzate sono dei sistemi aperti. Inizialmente abbiamo definito “chiuso” quel sistema che si assume la responsabilità di provvedere tutto ciò che serve alle persone che lo compongono. Aperto, per converso implica la rinuncia a questa responsabilità, è l’individuo stesso che deve provvedere ai suoi bisogni, pur con l’ausilio di un’organizzazione funzionale previa.

Il soggetto dell’isola è un noi ampio come tutta la società, mentre nell’economia fluida il soggetto è l’io e gli altri diventano una parte puramente strumentale della sua azione. Il noi salvaguarda tutti i suoi componenti come beneficiari a cui è finalizzata l’economia, l’io cerca il proprio vantaggio in contrapposizione agli altri, che sono coloro di cui approfittarsi, da imbrogliare, sfruttare e su cui scaricare i propri problemi.

 

Affinché un sistema possa essere chiuso, deve essere politicamente coeso. Cioè nella dinamica Schmittiana delle categorie politiche (amico-nemico), i membri della società devono percepirsi in relazione di “amico”. Ciò è possibile se concepiscono una comunità di destino, cioè se ciascuno sente che il proprio futuro è legato a quello degli altri… (concittadini, compatrioti) e perciò ha il dovere e il vantaggio del sostegno reciproco.

La dimensione e l’omogeneità del sistema hanno un peso determinante nella formazione dell’identità collettiva: non possono percepire la comunità di destino persone che vivono agli antipodi e non si vedranno mai, né persone di razza diversa con lingue e culture diverse, né , infine, persone che seguono religioni fra loro inconciliabili.

Per questa ragione il mondo globalizzato non può funzionare come unità collaborante, ma le sue parti esprimono ed esprimeranno inevitabilmente antagonismi e conflitti, che coinvolgono, all’inizio o alla fine, anche l’aspetto economico.

 

La crescita della produttività è sempre un bene?

In generale se cresce la produttività fisica la risposta è sì, perché la società avrà sempre più tempo per dedicarsi a occupazioni meno legate alle necessità impellenti e più rivolte alla crescita del tenore di vita, materiale e spirituale.

Tuttavia è opportuno che i benefici dell’incremento produttivo siano condivisi da tutta la comunità, proprio per consentire l’espansione di attività che potranno accrescere il benessere generale. Ovvero le risorse liberate (in termini di persone e mezzi) potranno essere indirizzate alla ricerca, al risanamento dell’ambiente, al miglioramento delle condizioni di vita, etc. Se invece i benefici della maggior produttività restassero in mano a pochi capitalisti, ben difficilmente le risorse liberate verrebbero impiegate, e così aumenterebbero alcune fortune private, da un lato, e la disoccupazione, dall’altro.

 

Solitamente chi sostiene il punto di vista monetario, fa notare che aumentando la produttività fisica calano i prezzi delle merci fabbricate e questo diviene un vantaggio condiviso. Ma si dimentica di dire che, se la diminuzione del prezzo è perfettamente proporzionale alla crescita produttiva, allora la produttività, misurata in termini monetari, non è aumentata ma è rimasta uguale.

Invece aumentare la produttività monetaria significa abbassare il costo di produzione a parità di prezzo e quasi sempre questo viene fatto risparmiando sul costo del lavoro.

 

Quindi l’aumento della produttività monetaria all’interno di un sistema tende a coincidere con l’aumento della disoccupazione e genera la situazione paradossale (in parte già osservabile) di una classe lavoratrice spremuta e stimolata a operare più in fretta, meglio, e più prolungatamente in orari e anni di lavoro, mentre contemporaneamente una forte percentuale della popolazione viene bloccata nella disoccupazione forzata. Questo errore di prospettiva ha accecato i politici europei al punto che nel documento di programmazione economica (DEF) del 2015, il governo Renzi ha recepito le indicazioni eurocratiche impegnandosi a mantenere la disoccupazione almeno al’11%.

Continuando in questa direzione si arriverebbe allo scenario in cui un milione di italiani, lavorando come matti, producono tutti i beni e servizi e gli altri 59 milioni restano fermi senza la possibilità di impiego. Una situazione totalmente priva di senso e in più gravata dal noto risultato del crollo della domanda, visto che i disoccupati non hanno reddito.

 

L’aumento della produttività monetaria nei confronti dell’esterno non ha significato tra sistemi chiusi, ma laddove i sistemi siano aperti, con libera circolazione di uomini, mezzi e capitali, è semplicemente la preparazione di una conquista. Il Paese economicamente più forte colonizza il più debole, non tramite un’invasione militare, ma attraverso un’invasione di merci più concorrenziali, cosa tanto più facile se il cambio è fisso e non può svolgere la sua funzione equilibratrice sulla bilancia dei pagamenti. Anche per questo aspetto non parlo di ipotesi teoriche, ma di storia: la Germania si è preparata all’ingresso nella UE aumentando la propria produttività (con tanto di riduzione degli stipendi). E’ la stessa cosa che prepararsi a nuove “relazioni” amichevoli, aumentando l’arsenale bellico, dopo aver proclamato la volontà di unirsi ai vicini, smantellando le frontiere. In questo caso è chiaro che per “nuova unione” si intende “annessione”.

 

Anche qui lo scenario di tendenza è assurdo: la Germania che lavora a ritmo forsennato, mentre gli Stati europei deboli falliscono e le loro aziende chiudono, con i cittadini europei che devono emigrare in Germania per trovare lavoro. Altra situazione priva di senso, con debacle finale: visto che gli europei si impoveriscono, presto non potranno più permettersi le merci tedesche, che resteranno invendute.

 

In effetti esisterebbe un modo alternativo di considerare la crescita di produttività monetaria, ma occorre intaccare due tabù. Il primo è che se cresce la produttività fisica della burocrazia si abbassano le tasse. Questa è un’opinione condivisa ma raramente messa in pratica.

Il secondo è ancora più duro da scalfire, anche se è il perno dello sfruttamento del lavoro, nonché la prima causa della povertà. Semplicemente se calano gli oneri finanziari, non solo calano le tasse (in Italia del 20%, che tale è il peso degli interessi sul debito), ma si abbassano anche tutti i prezzi, provocando un arricchimento istantaneo di tutta la popolazione. Tuttavia non è mai stata fatta nessuna campagna a riguardo e in generale si trova più comodo risparmiare un euro con un milione di salariati, piuttosto che risparmiare un milione con un capitalista che ne ha già altri dieci.

E il problema non è affatto “tecnico”, è solo culturale.

 

Considerazioni finali.

Ho sottolineato gli effetti negativi di un sistema economico condizionato dalla produttività monetaria, ma è lecito chiedersi perché questa non abbia gli stessi effetti benefici della produttività fisica.

Se il denaro si limitasse a rappresentare fedelmente la ricchezza, la crescita di potenziale, che fosse misurata in termini fisici o monetari, dovrebbe essere comunque un bene.

Se osserviamo delle discrepanze tra i valori fisici e quelli valutari, le cause vanno ricercate nelle distorsioni del nostro sistema monetario che anziché “fotografare” i beni reali per facilitarne lo scambio, ha assunto un significato indipendente e svincolato dalla realtà.

 

In particolare la nostra moneta permette:

1) di accumulare denaro estorcendo vantaggi nei confronti di chi ne ha poco

2) di produrre e gestire il denaro secondo logiche di profitto privato, vantaggiose per pochissimi e dannose per la maggioranza

3) di spostarlo repentinamente in grandi quantità, secondo criteri di convenienza spicciola  gretti e ciecamente egoistici, così da impedire una sana programmazione dello sviluppo territoriale.

4) di premiare le scommesse da casinò e le truffe simil-napoletane (quali sono i derivati per il primo caso, e le cartolarizzazioni per il secondo) al posto di premiare il lavoro.

 

I rimedi a questi difetti meritano una discussione a parte e non possono essere qui citati.

Tuttavia penso che al termine di questi ragionamenti si possa almeno concludere che, di fronte alle difficoltà economiche, “aumentare la produttività” non sia una panacea universale.

E che invece il discorso vada interpretato nel suo complesso, a partire dalle scelte politiche e poi modulato secondo strategie conseguenti.

Ma mi piacerebbe, come punto fermo, celebrare un bel funerale al mito della produttività.

 

Andrea Cavalleri

Apparso   su L’Altra Voce