Il Virus, le Italie e i capponi di Renzo.

 

di Roberto Pecchioli

Penetro in un campo minato. Il poco credito acquisito nel tempo rischia di evaporare in un attimo, come il gruzzolo dello scommettitore compulsivo che gioca tutto su un unico numero della roulette. Pure, non taccio, a sprezzo di insulti e maledizioni. La mia tesi è che tra i tanti danni inferti dal coronavirus, uno riguarda un nuovo, ulteriore sfilacciamento del senso nazionale unitario.

Il peso della tragedia è stato sopportato, in termini di vittime e di crollo del sistema produttivo, soprattutto dalle regioni settentrionali. E’ un fatto: il numero dei contagi e delle vittime attesta che l’85 per cento dei casi riguarda il Nord Italia. Metà delle vittime è in Lombardia, con la provincia martire di Bergamo. Non risulta che la mobilitazione – morale, politica, civile e umana  – dell’Italia tutta stia tenendo conto di questa verità statistica, le cui ricadute sociali, demografiche, economiche, finanziarie e produttive sull’insieme dello Stato sono enormi.

Chi meno è abituato lamentarsi ed è uso a rialzare la testa stringendo i denti e trattenendo le lacrime, da noi ha sempre torto. Bergamo, Milano, Brescia, Lodi, Piacenza – la provincia emiliana in ginocchio- non sono state degnate di una visita del presidente Mattarella, mentre il presidente del Consiglio, tanto veloce nel pavoneggiarsi a Genova per il completamento del ponte autostradale crollato (con annesso assembramento) è troppo occupato con le innumerevoli task force. Sarebbe bastata una presenza senza pompa e con tutti i dispositivi individuali di sicurezza: il re di Spagna ha visitato e visita gli ospedali e le residenze per anziani simbolo della strage. Sembra che, senza dirlo apertamente, un pezzo d’Italia si feliciti di averla ( in parte) scampata.  E che gli ostrogoti se la sbrighino da soli.

Lo ammetto: sono di parte, nel senso che, italiano di lingua, sentimenti e cultura, considero l’Italia la Patria grande, ma amo con maggiore intensità la mia “casa”, il pezzo d’Italia, il Nord, la Liguria, in cui sono nato e cresciuto e dove più mi sento a mio agio. Posso confessare di sentirmi di casa più a Trieste che a Napoli, rispettando la posizione uguale e contraria dei connazionali del sud? Immagino che sia pressoché vietato: forse è “discriminazione territoriale”, anche se non odio nessuno, non sogno padanie improbabili o comiche riedizioni della Repubblica di Genova.

Brucia la sensazione- forse sono malfidato e sospettoso – che questa parte d’ Italia, che per me rappresenta l’heimat dei tedeschi o la domovina degli slavi, la terra-casa, la patria più sentita e istintiva, serva soltanto per piegare il groppone e pagare il conto a piè di lista. I neo  sbandieratori patriottardi sono sinceri, ma non lo sono affatto i loro sospetti mandanti politici, per i quali vale la frase di Samuel Johnson: il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie.

E’ bastato che un giornalista lombardo uso alle provocazioni – Vittorio Feltri- esprimesse con modi e toni sbagliati un sentimento diffuso, perché si aprissero le cateratte dell’odio e si ricorresse alle carte bollate. Nessuno è superiore o inferiore, tanto meno se la graduatoria feltresca misura il reddito pro capite, una volgarità da texano con cappellone reduce dal rodeo, ma possiamo almeno indignarci se politici del Sud di tutti gli schieramenti avvertono, intimano, che la ripresa deve partire da loro, ovvero, se le parole significano qualcosa, che i soldoni devono soprattutto discendere la geografia dello Stivale? Possiamo essere a nostra volta infastiditi dalle sparate, un po’ per calcolo elettorale e un po’ per indole, come dire, da maschio alfa, di Vincenzo De Luca, il fiero democratico del lanciafiamme che vuol chiudere i confini campani, forse schierando sul Garigliano la guardia neo borbonica?  Ringrazi Dio, San Gennaro o Lenin, da militante comunista di tutta la vita, che il Covid 19 abbia lasciato relativamente in pace la Campania e meno male che è “de sinistra”, altrimenti sarebbe stato travolto dalle contumelie e dall’indignazione a tassametro delle maestrine dalla penna rossa.

A livello familiare, abbiamo subito un lutto proprio laggiù, una parente deceduta per Coronavirus. Possiamo, senza essere coinvolti nelle carte bollate, sdegnarci per le denunce a carico di Feltri, addirittura “per incitamento all’odio”, partite da giornalisti di ultrasinistra, politici e avvocati? Di Italie ce ne sono molte, come le infinite Sicilie “che non finiremo mai di contare “di Gesualdo Bufalino. Prendiamone atto una volta per tutte e accettiamoci come siamo. Preferisco la rotta del Nord e le Alpi, ma non stilo graduatorie territoriali. Semplicemente, constato differenze. Si direbbe che il Virus ci stia rendendo più suscettibili, permalosi. Sarà il distanziamento sociale che induce al soliloquio e impedisce il dialogo, ma risorgono timori e sospetti antichi. Scontiamo la perdita di libertà concreta: non ci si sposta, non ci si può incontrare, in compenso ci si può scontrare e rimettere mano a diatribe che sarebbe meglio lasciare alla storia o a tempi migliori. L’altro timore, più immediato, è che il futuro prossimo dell’Italia, nella speranza di una rapida vittoria sul virus, faccia pagare il conto ai soliti: piccoli e medi imprenditori, artigiani e loro dipendenti, in generale ai non garantiti. Quindi soprattutto al sistema produttivo il cui epicentro è a Nord.

Ecco a chi devono andare le risorse: nessun suprematismo, ma se non riparte il lavoro autonomo e l’impresa, anche i garantiti- i molti del Nord, i moltissimi del Sud- si impoveriranno. Intanto, proprio a Napoli, un imprenditore si è suicidato perché non in grado di pagare i dipendenti.  A questo siamo, mentre c’è chi lancia insulti seriali a Feltri, chi lo denuncia e chi invoca disastri e sofferenze al “nemico” territoriale. Non ci nascondiamo dietro un dito: analoghi insulti, orde di imbecilli si sarebbero scatenate in opposta direzione. Il vero patriota si limita ad amare la sua terra: va dove lo porta il cuore ma non tifa “contro”. Il fatto stesso che parliamo in termini di punti cardinali (Nord, Sud) indica che il criterio di riferimento è unico, la comune Patria grande, l’Italia. Non a caso le bandiere alle finestre non sono borboniche o asburgiche, ma tricolori.

Pesa tuttavia che non si avverta un afflato comune, un’unità di fondo. Sembra che, al di là dell’istintivo, ragionevole sollievo per il minore pericolo a Sud, esista un pezzo di opinione pubblica che, in fondo al cuore, è contenta che sia toccata proprio a “loro”, agli ostrogoti. Si sentivano i più forti, ora si ammalano e muoiono come le mosche. E’, più o meno, lo schema dei capponi di Renzo. Ricordate I Promessi Sposi, romanzo “italiano” ambientato in Lombardia al tempo della peste e di una guerra di cui la nostra penisola era solo il teatro di scontro? I capponi che Renzo portava all’avvocato Azzeccagarbugli erano destinati alla pentola, ma nel tragitto si beccavano tra loro senza tentare di sfuggire alla sorte. Questo è tipicamente italiano, con poche o nulle distinzioni geografiche.

Ci permettiamo di citare un proverbio della bassa bergamasca, terra martire del Covid 19: la felicità dell’asino è vedere un altro andare in malora. Per questo invochiamo non solo l’aiuto del Creatore per tutta l’Italia e in particolare per chi più soffre, ma anche un sentimento “politico” più realistico. Ai rappresentanti del Sud, preoccupati di vedersi sfuggire i cordoni della borsa, diciamo che è assai meglio dare il massimo alle imprese, che sono soprattutto a Nord, affinché chi ha voglia, forza e capacità si rialzi e riprenda a tirare il carro. Se finiscono i soldi, finiscono i diritti e poco varranno polemiche territoriali o sterili suprematismi.

Ancora più grottesche sono le beccate dei capponi di Renzo in una nazione – tutta- che sta morendo di denatalità e di sostituzione etnica. E’ di questi giorni il tentativo – riuscirà, come sempre- di nuove sanatorie di immigrati. Servono, sono indispensabili, urla qualcuno. Ma hanno verificato se a Bergamo, Benevento o Chieti qualcuno vuole lavorare nei campi, nelle famiglie e nelle industrie stagionali, con paghe dignitose e diritti sociali? Nel solo comune di Genova molte centinaia di piccole aziende commerciali, artigianali e professionali non riapriranno più. Lorsignori pensano agli stranieri, i meno qualificati, a basso costo, che faranno ulteriormente crollare il mercato del lavoro da Gorizia a Siracusa. Ma noi, capponi di Renzo, attacchiamo Feltri, lo denunciamo o, al contrario lo applaudiamo, perché “gliele ha cantate chiare, a quelli della Bassa”.

Poiché le Italie sono molte e alcune sembrano incompatibili, la disputa diventa una vera e propria arma di distrazione di massa. Ingoiamo tutti il rospo, io alpino di mare, polentoni e terroni, lottiamo insieme contro chi vuole fregarci tutti, giocando sulle nostre idiosincrasie e legittime ragioni, e, per il dopo, pensiamo piuttosto a dare retta a un grande italiano che non si sentiva tale, Gianfranco Miglio. Per salvarci tutti insieme, meglio marciare (relativamente) divisi per vincere unti. Il progetto del professore comasco sull’Italia delle macroregioni aveva logica e respiro storico. Non lo capirono i nordisti della mutua in camicia verde, figuriamoci se poteva piacere agli altri. Le Italie sono tante: conviene un federalismo forte, con poche grandi aree omogenee. Le principali – non le uniche- riguardano il nord e il sud della Patria. Due heimat forti, una perchè “dal confine alpino al crinale dell’Appennino tosco-emiliano l’Italia transpadana e cispadana ha una sua specifica ragion d’essere, una sua fisionomia economica produttiva storica e perfino linguistica da richiedere per il suo pieno sviluppo, anche a beneficio dell’intera nazione, una sua posizione esatta e spiccata in seno all’Italia (…). La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l’Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare se stessa”. (Gianfranco Miglio).

Con altrettanta dignità storica, l’area corrispondente al vecchio regno di Napoli ha ogni diritto di riavere un’unità che conobbe per secoli, sino alla spuria annessione del 1860, voluta dalle potenze straniere (Francia e Inghilterra) più che dai nostri popoli. Naturalmente, un assetto di questo tipo ha bisogno di un robusto contrappeso “nazionale”, ovvero una presidenza elettiva a suffragio universale dotata di poteri politici e una camera territoriale in grado di contemperare interessi ed esigenze delle diverse macroregioni. Altrimenti, vincerà il più ricco (il modello Feltri), il maggiore peso demografico o si assisterà a una progressiva balcanizzazione. I popoli d’Italia continueranno a gioire dei guai del vicino, da Nord a Sud, a non sentire mai come propri i successi e le disgrazie nazionali.

Un abbraccio ai fratelli lombardi, esteso a chiunque stia piangendo e, dalla mia heimat, la casa-patria tra mare e alpi, l’augurio che viva l’Italia.