IL “GIARDINO DELL’EDEN” E IL “CORPO DI ABRAMO”.

(estratto dal saggio: “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi”)

DI  GIANLUCA MARLETTA ⋅ 3 FEBBRAIO 2017 ⋅

L’incomprensione per ciò che la Tradizione Biblica intende con l’immagine dell’Eden e del corpo di Adamo è il “cavallo di battaglia” d’ogni critica profana alla religione e d’ogni confusione sulla natura di ciò che chiamiamo “uomo”. Ma l’incomprensione non nasce solo a partire dallo spirito del materialismo moderno, ma anche a causa di un certo letteralismo religioso ignaro dei significati più profondi delle Scritture. Questo brano estratto dal libro “L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi” riconduce la questione sul piano metafisico tradizionale, l’unico a partire dal quale è possibile comprendere tali realtà.

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IL GIARDINO DELL’EDEN E IL “CORPO DI ADAMO”

(Da: Gianluca Marletta, L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei Viventi, Ed. Irfàn, pp. 33-39)

L’Eden, prima ancora che un “luogo”, è uno stato dell’essere: lo stare “nell’Eden” indica, innanzitutto, la condizione dell’uomo al momento della sua creazione di perfetta realizzazione delle sue possibilità individuali, non solo fisiche ma anche sottili e animiche.

Questa constatazione implica due fondamentali deduzioni:

  • la realtà dell’uomo edenico non è affatto (come immagina un certo letteralismo religioso) quella di un semplice essere umano identico anche fisicamente all’attuale. La costituzione stessa dell’Adamo primordiale, infatti, è imparagonabile a quella dell’uomo decaduto che ha perso la perfetta unità di anima e corpo e vive quasi esclusivamente nella “carnalità”.
  • L’Eden non è un qualche luogo rintracciabile su una qualsiasi cartina geografica della terra attuale, poiché esso si pone suun piano ben più alto e intangibile rispetto a quello terreno e temporale. L’Eden non è “questa terra”, bensì la Terra Vera, la Terra dei Viventi, con caratteristiche che uniscono e trascendono al tempo stesso l’aspetto fisico e quello sottile della Realtà.

L’Eden o la “Terra Vera”

Nelle preghiere del rito ebraico di sepoltura, l’officiante recita queste parole:

O antichi Patriarchi che dormite in Hebron, apritegli le porte del Giardino dell’Eden (Gan Edèn), e ditegli: sia la sua venuta in pace! Angeli della pace, andategli incontro, apritegli le porte del Giardino dell’ Eden e ditegli: sia la tua venuta in pace! O voi custodi del Giardino dell’Eden, custodi dei tesori dell’Eden, apritegli le porte del Giardino dell’Eden ed entri (nome del defunto) nel Giardino dell’Eden a godere le gioie dell’Eden.

Il contenuto della preghiera è inequivocabile: nella Tradizione Ebraica, il Giardino dell’Eden non è affatto un luogo geografico posto chissà dove nel Medio Oriente come sognavano certi ingenui viaggiatori occidentali dell’800, ma uno stato beatifico dell’essere che, dopo la caduta, è raggiungibile solo attraverso un cammino spirituale di “ritorno” alle origini e che è accessibile, almeno per la stragrande maggioranza dei credenti, solo dopo la morte fisica. (…)

Questi passaggi rendono bene il senso che le tradizioni religiose semitiche attribuiscono alla realtà dell’Eden: “luogo” dove l’Uomo Primordiale era posto in pienezza e beatitudine, ma anche mèta beata che il credente spera, con la grazia di Dio, di poter raggiungere nel post-mortem. La Resurrezione dei Morti, infatti, altro non è che un ritorno allo “stato edenico”, benché con alcune fondamentali differenze che approfondiremo in seguito.

Questa realtà dell’Eden che va inteso come “stato dell’essere”, tuttavia, non implica che esso vada relegato nel limbo dell’evanescenza, né identificato con una realtà puramente spirituale. L’Eden, al contrario, possiede una sua “fisicità”, ma sono proprio le caratteristiche peculiari di questa fisicità a renderlo del tutto diverso dalla “terra” mortale e decaduta che attualmente ci ospita.

L’Eden, in realtà, non è altro che la “creazione primordiale”, dove tutte le possibilità, siano esse corporali o sottili si ritrovano simultaneamente. Nell’Eden non c’è tempo e successione come nella terra decaduta in cui abitiamo: tutte le possibilità del mondo manifestato vi sono presenti in maniera armoniosa, per cui i corpi sono, al tempo stesso, concreti e sottili.

Nell’Eden non vi è la morte perché non vi è un divenire (perlomeno nel senso che intendiamo riferendoci a questo mondo). Possiamo anzi dire che il rapporto tra la Terra Vera (l’Eden) e la terra attuale è la stessa che esiste tra una realtà e la sua ombra. Nell’Eden, ogni aspetto del creato è co-presente nelle sue indefinite possibilità, sulla terra decaduta esiste, al contrario, un prima e un dopo che genera il continuo (e doloroso) susseguirsi di trasformazioni, di nascite e di morti lungo la linea temporale.

Sant’Agostino, nel suo De Genesi ad litteram, chiarisce che esiste una creazione primigenia compiuta nell’atemporalità e una creazione successiva (temporale) che avviene nel divenire:

Diversa fu l’azione di Dio quando fece le creature nella creazione primordiale, dalle quali si riposò il settimo giorno, e diversa è quella con cui le governa e per cui continua a operare tutt’ora. Allora Dio agì creando tutti gli esseri simultaneamente, senza intervalli di tempo, ora invece, seguendo gli intervalli di tempo per i quali vediamo gli astri muoversi da levante ad occidente, le condizioni atmosferiche mutare dall’estate all’inverno, i semi germogliare, crescere, verdeggiare, disseccare in determinati periodi di giorni, allo stesso modo che anche gli animali son concepiti, sono formati, nascono nei limiti e periodi di tempo stabiliti, e percorrendo le varie età giungono alla vecchiaia e alla morte, e così tutti gli altri esseri temporali.[1]

Questo passaggio, per inciso, lascia intendere quanto sia imprudente, ogniqualvolta si trovino nei testi tradizionali termini come “terra” o “mondo”, interpretarli esclusivamente nel senso materialistico che li identifica solo con questo mondo.

Quello che il linguaggio teologico occidentale chiama “creazione primigenia”, (l’Eden), ha i suoi corrispondenti anche in altre tradizioni spirituali. Nella tradizione indù, ad esempio, il “mondo ideale” dove sono contenuti tutti i “germi” e le possibilità dell’esistenza manifestata è detto Hiranyagarbha (letteralmente “L’Embrione d’Oro”, o “l’Aureo Grembo”),[2] che è il principio di tutte le forme, siano esse “sottili” o “grossolane”.  L’Hiranyagarbha è anche il “luogo” dove può giungere, dopo la morte fisica, l’essere che ha conseguito “l’immortalità virtuale” (in termini occidentali diremmo la “salvezza”) e che è identificato con il Brahma-Loka (il “luogo di Brahma”, ovvero, in termini monoteisti occidentali, il Paradiso).[3]

Il “corpo” di Adamo

Un discorso analogo a quello fatto riguardo alla “terra” dell’Eden può applicarsi alla questione del tipo di “corpo” posseduto dai nostri Progenitori edenici.

La scienza materialistica moderna, allo scopo di promuovere la sua “genesi atea”, risponde affermando che i primi uomini altro non erano che primati casualmente evolutisi in forme via via più “moderne”. A tal scopo, legioni di paleontologi hanno scavato in lungo e in largo giacimenti fossili africani nel tentativo – peraltro regolarmente frustrato – di ritrovare i resti del “primo e vero” uomo apparso sul pianeta.

Nella tradizione biblica, al contrario, il “corpo di Adamo” è una realtà ben diversa da quella che qualunque interpretazione materialistica e letteralistica può anche solo immaginare. Come riporta Gershòn Schòlem, nella Tradizione Ebraica –e soprattutto negli ambienti più vicini alle idee della Qabbalà- era largamente diffusa l’idea che “prima del peccato di Adamo, anche il corpo fosse spirituale, una sorta di indumento etereo che divenne corporeo solo dopo la sua caduta. (A sostegno di questa concezione, l’affermazione in Gen. 3:21, che Dio fece “indumenti di pelle”, Kotnot’or, per Adamo ed Eva dopo la cacciata dall’Eden, fu interpretata nel senso che essi in precedenza avevano portato “indumenti di luce”)”[4].

Per intendere meglio cosa si intenda con tale concezione, tuttavia, è necessario innanzitutto conoscere gli esatti termini ebraici che indicano la “sostanza” dalla quale, secondo il racconto biblico, il corpo del primo uomo viene tratto.

Normalmente, a partire da una lettura piuttosto riduzionistica, nel linguaggio religioso si afferma che l’uomo fu formato da Dio con la “polvere” del suolo in cui Egli soffiò nelle “narici” un alito (neshamàh) di vita (Gn 2,7). Ma in realtà, questa espressione necessita di una spiegazione. La “polvere” (עפר, ‘aphàr) da cui Adamo è tratto, indica infatti la parte più sottile e leggera di un elemento che nelle traduzioni moderne della Bibbia viene reso normalmente come “terra”, ma che il testo biblico indica come ha-adamàh (האדמה), termine assolutamente diverso da ’eretz, (ארץ) che in ebraico indica invece la “terra” nel senso più comune e mondano.

Secondo il suggerimento di Antoine Fabre d’Olivet,[5] il termine ha-adamàh non indicherebbe affatto la “terra” in senso grossolano ma, più specificatamente, “l’elemento adamico”, ovvero la “sostanza” non solo “materiale” nella comune accezione del termine, da cui l’uomo primordiale sarebbe stato tratto. L’adamàh da cui Adamo è stato tratto, dunque, sarebbe la “materia prima” primordiale, in cui sono presenti, al tempo stesso, tutte le “possibilità” sia fisiche che sottili della creazione. Non un corpo “materiale e caduco”, dunque, e nemmeno un’anima disincarnata, ma un “corpo perfetto” in cui tutte le possibilità si dispiegano armoniosamente.

Di sicuro c’è che i termini adamàh e Adàm contengono ambedue la radice dam (דָם) che indica il “sangue” e il colore “rosso”: ha-adamàh è quindi la “materia rossa” da cui è tratto l’uomo. Il riferimento al colore rosso, tuttavia, non è casuale: ad un livello più superficiale di esegesi, c’è chi ha ricollegato questo simbolo al colore dell’argilla da vasaio (che è rossa); ma il colore rosso simboleggia anche, in molte tradizioni, l’elemento animico del mondo intermedio, connesso col sangue. Da questo punto di vista, ha-adamàh sarebbe più propriamente la “materia prima”, la materia sottile dell’Eden in cui sono presenti, a livello di possibilità, tutte le potenzialità della realtà fisica e di quella sottile.

In questa prospettiva, è davvero interessante il riferimento ad un passo di San Paolo contenuto nella 1° Lettera ai Corinzi, in cui l’Apostolo spiega come il corpo del “primo uomo”, Adamo, non fosse strictu senso un corpo “carnale” o “terreno” ma (letteralmente) un “corpo psichico”:

Così sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo (Cristo, n.d.a.) è spirito vivificante. Così che non c’è prima ciò che è spirituale (pneumatikòn) ma ciò che è psichico (psychikòn).[6]

E ancora:

 Si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina un corpo psichico (sôma psychikón) e risorge un corpo spirituale (sôma pneumatikón).[7]

È significativo che San Paolo non usi, per indicare il corpo ereditato dal primo Adamo, il termine “terrestre” (che nel greco neotestamentario è epighéion), ma specificatamente il termine “psichico”. Il corpo del primo Adamo non è dunque “solo” un corpo grossolano come quello dei suoi discendenti, ma una realtà sottile, dove le possibilità fisiche esteriori sono unite alle possibilità animiche proprie all’elemento intermedio (psiché) della triade umana. Solo con la “caduta”, Adamo perde la “sottigliezza” del corpo originario per rivestirne esclusivamente l’aspetto grossolano.

La questione del “corpo di Adamo” ha suscitato aspre polemiche fin dai primi secoli del Cristianesimo tra chi sosteneva un’interpretazione estremistica e dualistica – per la quale il corpo materiale sarebbe stato in quanto tale una prigione e un “male” acquisito solo dopo la caduta – e chi, al contrario, vedeva nel corpo una realtà positiva e in ogni caso connaturata all’uomo fin dal principio.

La prima interpretazione, quella dualistica, fu sostenuta da un certo gnosticismo estremista e fu persino attribuita (benché erroneamente) ad un padre della Chiesa come Origene.[8] Tale interpretazione rimanda al versetto di Genesi 3, 21, dove si afferma che, dopo la Caduta, Dio rivesti l’uomo di “tuniche di pelle”: «E l’Eterno Iddio fece ad Adamo e alla sua moglie delle tuniche di pelle, e li rivestì»Tali “tuniche di pelle” furono interpretate da alcuni gnostici in chiave dualista come il corpo umano stesso che Adamo non avrebbe posseduto nella condizione edenica[9]; ma contro tale tesi si posero, di fatto, tutti i Padri della Chiesa che, conformemente all’insegnamento ortodosso, identificarono nelle “tuniche” non tanto il corpo in sé, quanto la sua degenerazione e animalizzazione.

Già Clemente Alessandrino, gnostico “ortodosso” e fedele alla Chiesa, afferma che è un errore identificare le “tuniche di pelle” con il corpo (Stromati, 3, 14); ma sarà soprattutto San Gregorio di Nissa, grande maestro del Cristianesimo orientale dei primi secoli, a definire con maggiore chiarezza la questione. Secondo il Nisseno, il corpo umano, pur essendo presente anche prima della caduta, ha subito un processo di degenerazione passando ad uno stato in cui è stato reso schiavo – al pari degli esseri irragionevoli – delle necessità biologiche e del divenire. Il corpo umano è divenuto in tal modo «di grassa e pe­sante costituzione»;[10] e tuttavia, afferma il Nisseno, all’atto della risurrezione, esso riacquisterà la sua natura anteriore alla caduta e sarà «di nuovo tessuto di qualcosa di più sottile ed etereo».[11]

L’uomo primordiale, dunque, non era un essere puramente spirituale e incorporeo (come pretende un certo dualismo esasperato), eppure il suo corpo non aveva nulla della pesantezza e dalla “carnalità” di quello attuale.

Per guardare a ciò che l’uomo fu, ancora una volta, bisogna quindi guardare a ciò che l’uomo sarà chiamato ad essere: il corpo dei risorti, infatti, può essere ben paragonato al corpo primordiale dell’Adamo edenico, così che l’Origine e il Fine dell’uomo si illuminano vicendevolmente.

 

1 De Genesi ad litteram, 11, 27.

[2] Cfr. R. Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, pp. 92-93.

[3] Ibidem, p.143.

[4] G.Schòlem, La Cabala, Ed. Mediterranee, Roma 2010, p. 157

[5] A. F. D’Olivet, La lingua ebraica restituita, Arché-PiZeta, Milano 2002, p. 413.

[6] 1 Corinzi, 15, 46.

[7] 1 Corinzi, 15, 42-44.

[8] Origine, in effetti, mai affermò che il corpo umano in sé fosse il risultato della caduta, bensì la sua degradazione: «Che bisogna inten­dere con l’espressione “tuniche di pelle”? Sostenere che Dio, dopo aver tolto la pelle da alcuni animali… si mise a fare delle tuniche […] come se fosse lavo­ratore di cuoio, è da stolti e rimbambiti, perché si afferma una cosa che non si addice a Dio. Identificare poi le tuniche di pelle con i corpi, questa interpretazione è più probabile e suggestiva, ma non può considerarsi né veritiera né certa: se infatti le tuniche di pelle corrispondono con la carne e con le ossa, come ha fatto allora Adamo a dire, prima ancora che esse esistessero: «Questa Eva, sì, è osso delle mie ossa e carne della mia carne”?» (Origene, Omelie sulla Genesi, 3, 2, PG 12, 101°).

[9] Filone d’Alessandria, esegeta israelita delle Scritture vissuto poco prima di Cristo, è forse il primo a intendere la creazione delle “tuniche di pelli” nel senso della formazione del “corpo umano” che, pertanto, non sarebbe esistito nello stato edenico (Quaest. Gen., I, 53). Anche gli gnostici valentiniani, secondo la testimonianza di Tertulliano (Adv. Val. 24), leggevano Gen 3, 21, come se le “tuniche di pelli” significassero il corpo dell’uomo. Anche San Ireneo riferisce che «[gli gnostici] sostengono che la tunica di pelle sia la carne sensibile» (Adv. Haer., I, 5 , 5). Le medesimi convinzioni erano proprie anche degli encratiti e dei messaliani, che definivano il corpo umano “vestito di vergogna”. Secondo tutte queste interpretazioni, pertanto, il corpo umano in quanto tale sarebbe estraneo alla natura umana primordiale e la salvezza consisterebbe nel liberarsene.

[10] Gregorio di Nissa, Omelia per i defunti, PG46,532C.

[11] Gregorio di Nissa, L’anima e la Resurrezione, PG 46, 108 A.

 

(Segue  una recensione del libro di Marletta dalla redazione di Azione Tradizionale)

 

“Nei tempi ultimi, ed in particolare in Occidente, il venir meno della Conoscenza spirituale ed una sempre più spinta materializzazione e dissoluzione della vita hanno reso sempre meno accessibile la comprensione autentica dei simboli e delle Verità tradizionali: le ultime vestigia delle grandi tradizioni, arenate in un letteralismo grottesco ed in un moralismo sempre più esasperato, se da una parte cercano di “salvare il salvabile”, dall’altra prestano ben volentieri il fianco agli attacchi della delle forze sovvertitrici. Non c’è più comprensione.

Parlando poi del Cattolicesimo, è ormai evidente come l’incomprensione profonda dei suoi simboli dilaga soprattutto all’interno della Chiesa contemporanea, tanto preoccupata a farsi bella di fronte alle masse ed alla cultura progressista, con risultati tanto evidenti quanto aberranti in fatto di cura delle anime.

Con il libro L’Eden, la Resurrezione e la Terra dei viventi Gianluca Marletta prende il toro per le corna e ci mette a disposizione il risultato di anni di studi per aiutarci a ri-scoprire il tesoro simbolico, intatto ma ormai quasi indecifrabile, della Tradizione in Occidente. È la semplicità che caratterizza le sue parole: l’Eden, il Purgatorio, l’Inferno, atemporalità, eternità, seconda morte, salvezza, realizzazione spirituale… tutto diventa facile alla lettura ed alla comprensione.

L’Autore interpreta i simboli contenuti nella Bibbia, svelando la profonda Conoscenza che ne anima la voce, alla luce della Dottrina metafisica come esposta da grandi interpreti della Tradizione, quali Guénon e Coomaraswamy, ma anche della teologia cattolica ed ortodossa, con frequenti paragoni e rimandi alla Dottrina del Vedanta. L’Eden e AdamoUomo primordiale, tornano ad essere, ai nostri occhi, Verità eterne e simboli da vivificare, la Caduta ed il Peccato originale chiavi di lettura della nostra condizione umana, sinonimi di ignoranza metafisica e non bacchettate moraliste. Paradiso, Purgatorio ed Inferno non vengono presentate come immaginette o metafore ma, sciolta la trama dei loro simboli, condizioni a cui andrà incontro il nostro Io, che nel suo transito terreno sceglierà se realizzarsi e sublimarsi, con un’intensa rettificazione, o andare incontro a dissoluzione certa.

Per cominciare, Marletta ci dà le chiavi di lettura, definendo i concetti di simbolo, cosmologia e Metafisica. Definisce poi la composizione dell’uomo partendo dalla tripartizione tradizionale in Spirito, anima e corpo, delineandone la struttura: è da qui che si deve partire per conoscerne l’origine ed il destino.

La nostra condizione corporea ed animica viene messa in relazione all’Uomo primordiale: quello dell’età dell’oro, l’Adamo biblico; di cui siamo un riflesso imperfetto come la nostra Terra lo è dell’Eden, che viene definito quale luogo metafisico, eternamente reale.

Proseguendo, viene sviscerato il significato simbolico delle fiamme dell’inferno e delle pene del Purgatorio: cos’è che alla morte perdiamo e ciò che invece ci rimane acquisito, cosa dell’anima è destinato a dissolversi dolorosamente od a sublimarsi e reintegrarsi con Gloria nel Paradiso, o ad ascendere ancor più in alto. Con una precisione matematica viene dato un taglio agli errori reincarnazionisti ed alle fantasmagorie che vedrebbero l’individuo, dopo la sua morte, imprigionato sottoterra entro un lago di fuoco, così come anche quelle che vedono l’uomo passeggiare beato per un giardino di chissà quale luogo in oriente, coperto solo da una foglia di fico.

Gli argomenti trattati sono tanti e fortunatamente per noi il dono della sintesi e la semplicità di Gianluca Marletta sono doti innate. Forse a questo punto è meglio rimandare i nostri lettori alla sua opera agile e completa e lo facciamo dandovi, fra i tanti, il motivo principale per cui ci sentiamo di consigliarla: chiunque con ambizione voglia lanciare la propria sfida a se stesso ed al mondo moderno, chiunque voglia mettersi su un cammino di Conoscenza, non può ignorare quanto in queste pagine è contenuto. In un mondo ove ormai ogni diga ha ceduto, ogni baluardo è crollato sotto gli attacchi feroci di un nemico che è pronto a sferrare il suo colpo decisivo e finale, non si possono ignorare strumenti, validi come questo libro, per conoscere se stessi, la propria origine ed il proprio destino. Per tenersi in piedi tra le rovine!

Affinché questo scritto sia una spada ben affilata contro tutti i draghi e non un sollazzo per le proprie ore d’ozio. A quel punto diventerebbe inutile.

A completamento dell’opera sono due saggi: dello stesso autore La Resurrezione dei corpi e il mondo intermedio della tradizione sciita iranica e, di Mario PoliaMorte e resurrezione divina: differenze tra mondo mediterraneo, greco-romano e Cristianesimo. In questa maniera si dà la possibilità di leggere la stessa Dottrina anche agli autori più avvezzi al mondo ario o a quello classico e mediterraneo, compiendo quel mosaico in cui la diversità di ogni tessera dà Vita all’Opera.