FLAT TAX, LA TASSA PIATTA. OPPORTUNITA’ O ILLUSIONE?

                                                                   di Roberto PECCHIOLI

In campagna elettorale le promesse abbondano. La gara è tra chi offre di più al perplesso elettore, un voto messo all’incanto, in entrambi i sensi della parola. Una commedia teatrale di grande successo di Pietro Garinei del 1986 aveva un titolo adatto alla cronaca di queste settimane: Se devi dire una bugia, dilla grossa. Nei panni di Johnny Dorelli, miglior attore protagonista l’immortale Silvio Berlusconi, ma i suoi avversari non sono da meno, da Giggino Di Maio a Pietro Grasso fino a Matteo Renzi. Tutti promettono molto, ma la certezza è che, chiunque finirà al governo, manterranno assai poco.

Le tasse, naturalmente, la fanno da padrone nella riffa elettorale. Più che giusto, milioni di italiani votano con il portafogli e il fisco nazionale è contemporaneamente vorace, potentissimo, sclerotizzato e inefficiente, epperò fortissimo con i deboli, mite e incline al compromesso al ribasso con i potenti. La proposta più importante viene dal centrodestra, e, come tutte le novità, ha un nome anglofono: flat tax, cioè tassa piatta e consiste nell’applicare un’unica aliquota a tutti i redditi. L’obiettivo finale è quello di tassare in maniera uniforme sia i redditi delle persone fisiche sia quelli delle persone giuridiche.

Secondo i sostenitori della proposta, nata in ambito leghista attraverso l’azione dell’economista Armando Siri, autore del libro Flat Tax la rivoluzione fiscale in Italia è possibile, successivamente accolta con distinzioni importanti da Forza Italia, l’impianto tributario così ridisegnato, oltre a diminuire il carico fiscale dei cittadini e delle imprese, consentirebbe un decisivo rilancio di tutte le attività economiche, trasformandosi nel medio termine in un beneficio per le casse erariali. I detrattori sottolineano tre aspetti: sarebbe un regalo per i ricchi senza grossi vantaggi per i poveri; provocherebbe un buco drammatico di bilancio; avrebbe profili di incostituzionalità, giacché il criterio generale cui si ispira il sistema tributario è quello di progressività, stabilito dall’art. 53 c. 2 della vigente costituzione.

Proviamo a orientarci in un dibattito molto serio che incide in modo immediato sulla nostra vita quotidiana, anticipando onestamente al lettore le nostre personali convinzioni, di cittadini ma anche di funzionari di lungo corso del Ministero delle Finanze, contrarie alla tassa piatta. La questione, tuttavia, è assai complessa e necessita una riflessione che non può esaurirsi in un semplice no.

Gli argomenti a sostegno o contro il nuovo sistema tributario, innanzitutto, trascurano senza affrontarla una questione di fondo: l’Italia si è spogliata della sovranità economica e di quella monetaria. Ogni politica fiscale si scontra pertanto con l’impossibilità dei governi di attuare misure non coincidenti con i meccanismi che abbiamo improvvidamente accettato. Il primo è quello del pareggio di bilancio previsto dalla riforma dell’art. 81 della costituzione, la cui revisione, invocata da alcune forze politiche (Lega, Fratelli d’Italia, sinistra radicale) è però scomparsa dai programmi elettorali.

Un secondo problema è il vincolo del rapporto del 3 per cento tra debito sovrano e deficit di bilancio statale, un cappio cui ci siamo impiccati con la complicità comune delle maggiori forze politiche e l’entusiastico assenso dei poteri forti. Silvio Berlusconi ne ha garantito il rispetto ai suoi patroni del Partito Popolare Europeo (si legge Angela Merkel) e al suo amicone Juncker, superburocrate dell’Unione Europa. Come non si possono servire insieme Dio e Mammona, non si possono diminuire drasticamente le tasse senza mettere in discussione il tragico dogma del 3 per cento.

L’Italia non ha margini di sovranità economica, tanto è vero che le leggi di bilancio vengono trattate in sede europea, o, per dirla chiara, sono scritte sotto dettatura della Troika. Secondo il sito ufficiale dell’UE, è chiamata troika” l’insieme dei “creditori ufficiali durante le negoziazioni con i paesi membri, costituito dalla Commissione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fondo Monetario Internazionale”. Wikipedia, pur devotissima al politicamente (e finanziariamente) corretto ammette che si tratta di un vero e proprio “organismo di controllo informale”. Guarda un po’, milioni di europei erano pervenuti alla stessa conclusione! L’ enciclopedia digitale informa che ai membri della Commissione UE, formata da un rappresentante per ogni Stato membro, è prescritta “la massima indipendenza dal governo nazionale che lo ha indicato”. Tombola.

La sovranità monetaria è in capo alla Banca Centrale Europea, un organismo estraneo agli Stati che decide quanto denaro creato dal nulla (!!!) prestarci, stabilendo insindacabilmente anche l’interesse, l’ex tasso di sconto. La BCE, che non ha alcun obbligo di sostenere o acquistare i titoli di Stato emessi nell’Eurozona, ha sempre rifiutato, spalleggiata soprattutto dall’ordoliberalismo tedesco, l’emissione dei cosiddetti Eurobond, ovvero buoni comuni dell’eurozona. Ciò significa che una politica fiscale sgradita alle centrali finanziarie – non solo europee- metterebbe nel mirino i nostri titoli di Stato. Si riattiverebbe il ricatto dello spread, il differenziale tra gli interessi sui BOT/CCT e i titoli di altri Paesi. Berlusconi dovrebbe ricordare la losca operazione del 2011 che lo estromise dal governo innescata dalla vendita di titoli di debito italiano da parte di Deutsche Bank.

Non scordiamo che nel 1981, anno del vergognoso divorzio Tesoro-  Banca d’Italia organizzato da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, con cui venimmo posti alla mercé del sistema usuraio, il debito pubblico era il 56 per cento del PIL ed era posseduto in massima parte dai risparmiatori italiani: una partita di giro tra residenti, e che oggi, al tempo del dominio dei banchieri è al 133 per cento, è  posseduto dall’arcana entità chiamata mercato finanziario e paghiamo più o meno 50 miliardi annui di interessi, qualcosa come il 12/13 per cento dell’intero gettato tributario della Stato. La spesa per interessi, da allora, secondo il sito specializzato Scenari Economici, è stata, al valore attuale, di tremila miliardi di euro, quasi sei milioni di miliardi delle vecchie lirette.

Secondo l’Osservatorio di Carlo Cottarelli il debito potrebbe caricarsi nei prossimi anni di ulteriori 55 miliardi legati all’acquisto, da parte del Tesoro, di prodotti finanziari derivati. L’economista bocconiano tacque accuratamente durante il suo incarico di commissario alla spesa dei governi PD, ma, se le sue rivelazioni fossero confermati, sarebbe un guaio in più; il giudizio sui comportamenti governativi sfiorerebbe la categoria dell’alto tradimento.

Berlusconi rilancia ora l’ipotesi di svendita del patrimonio pubblico – un’operazione che per avere successo dovrebbe attestarsi su almeno 400 miliardi di euro – finalizzata a sostenere una politica di abbattimento del debito sovrano. A chi giovi un’operazione di tale portata, che non esitiamo a definire tradimento storico del popolo italiano, è fin troppo chiaro. Dunque, nessun intervento fiscale di ampia portata è possibile senza il recupero della sovranità perduta.

Comunque, il carico fiscale italiano resta intollerabile. E’ pressoché raddoppiato in mezzo secolo sino ad arrivare al 43 per cento del 2015. Il lieve calo dell’ultimo biennio sembra più un’alchimia matematica che una realtà. Le entrate tributarie italiane hanno superato i 408 miliardi. Di questa cifra, 225 miliardi sono di imposte dirette. Stiamo quindi parlando di somme enormi, tenuto conto che l’insieme di tutte le dichiarazioni IRPEF (reddito delle persone fisiche) relative all’anno d’imposta 2015, l’ultimo di cui il MEF abbia diffuso un’analisi completa, assomma all’imponibile di 833 miliardi di euro. L’imposta media effettivamente corrisposta, al netto di deduzioni, detrazioni, bonus è stata del 19,64 per cento.

La proposta di Forza Italia di Flat Tax al 23 per cento rischia di essere un’autorete, poiché prevede un’area di non tassazione fissata a 12 mila euro , che realizzerebbe forse la progressività ( elemento non eludibile in quanto costituzionalmente prescritto) ma ridurrebbe la base imponibile a 444 miliardi , con un’entrata di 102 miliardi ed un buco di 53, poiché, il gettito IRPEF assomma a 155 miliardi, il 70 per cento delle imposte dirette ( un’altra stortura italiana a danno dei piccoli e medi contribuenti !). In più, il meccanismo della no tax area così congegnato renderebbe pressoché nullo il vantaggio fiscale per milioni di contribuenti con redditi medio bassi. Autogol alla Comunardo Niccolai.

Dunque, la tassa piatta versione in salsa berlusconiana presenta difetti e difficoltà pratiche. Più organica è la proposta leghista, che prevede un’aliquota choc del 15 per cento, ma ha il merito di operare alcune profonde distinzioni tra i contribuenti. La prima prevede una deduzione fissa di 3.000 volta a garantire la progressività dell’imposta sulla base del reddito e dei membri del nucleo familiare, sino a 50.000 euro. L’altro elemento che rende interessante l’ipotesi ideata da Armando Siri è che non si tasserebbe più il singolo contribuente, ma il nucleo familiare, privilegiando quindi, finalmente, la famiglia. Concretamente, non capiterebbe più che un contribuente celibe paghi, a parità di reddito, quanto un padre o una madre di famiglia. E’ un vecchio cavallo di battaglia cattolico e della destra sociale che diventerebbe legge.

Tuttavia, anche tale ipotesi resta assai debole su due versanti: la copertura innanzitutto e la capacità di provocare il rientro in Italia di chi ha delocalizzato all’estero. L’obiettivo è infatti quello di unificare al 15 per cento anche la tassazione delle imprese. Qui, probabilmente, cade l’intero castello della flat tax. Se infatti la tassazione italiana globale sulle imprese è spaventosamente alta, sino ad inghiottire variamente quasi i due terzi dei ricavi, contro il 35,5 per cento britannico, è tuttavia vero che in questo campo i veri eroi sono i piccoli e medi imprenditori, giacché il sistema delle elusioni fiscali ammesse è impressionante, tutto a favore dei grandi. Lo stesso Antonio Martino, liberale inflessibile e primo sostenitore, già vent’anni or sono, della tassa piatta, riconosce che la grande impresa, in Italia, paga soprattutto studi professionali specializzati che riescono a ridurre enormemente il peso delle imposte.

Dunque, è più urgente una semplificazione e un abbattimento della giungla di bonus, eccezioni, detrazioni ed altre opportunità sfruttate da chi può permettersele. Martino attribuisce a Giulio Tremonti un’affermazione relativa al suo studio di consulente tributario, secondo la quale l’ex ministro, nell’ambito della privata attività professionale, avrebbe fatto scomparire in legalissime elusioni 600 miliardi di lire di imponibile dei propri clienti. Un altro osservatore non ostile al centrodestra, il professor Alberto Quadrio Curzio, nega la possibilità di applicazione della tassa piatta per carenza di copertura certa, suggerendo piuttosto di unificare le troppe tasse “sparpagliate”.

Effettivamente, in Italia si pagano, IRPEF a parte, l’IRES e l’IRAP sulle imprese, e poi TARI, TASI, IMU, ICI e mille altri balzelli , tra i quali segnaliamo per odiosità in un mondo fondato sulla mobilità, i 73,50 euro per i passaporti , il bollo auto di oltre 500 euro , rispetto alla media UE di 291, ma dal quale sono esentati i residenti della provincia autonoma di Bolzano, oltre alla tassa sui passaggi di proprietà degli autoveicoli , calcolati in maniera tale che in taluni casi si arriva a importi più onerosi del valore del mezzo. Insomma, un labirinto da cui non si esce senza impugnare la scure di interventi davvero innovativi. Peccato che, senza fuoruscire dai vincoli europei e recuperare la sovranità nazionale, ogni misura, per quante buone intenzioni abbia il legislatore, non potrà funzionare e dovrà essere accantonata.

In più, resta il nodo formidabile della tassazione indiretta, che grava indistintamente su tutti senza riguardo per il reddito. Si tratta di oltre 183 miliardi di euro: parliamo soprattutto dell’IVA, di cui non è affatto scongiurato un devastante aumento al 25 per cento, nonché delle accise, che valgono oltre 30 miliardi nel solo comparto dei prodotti energetici e dell’energia elettrica, oltre al 22 per cento dell’IVA relativa. Sì, perché, nonostante i principi generali del diritto tributario vietino la tassazione di altre tasse, l’IVA sfugge alla regola, talché su un litro di benzina corrispondiamo circa 73 centesimi di accisa e 16 di IVA sull’accisa, oltre all’imposta sul valore del prodotto. Uguale principio vale per l’IVA all’importazione, il cui calcolo è gravato dai dazi doganali, i quali peraltro sono incassati a nome dell’UE, che riconosce agli Stati esattori solo un aggio, come ai tabaccai o ai rivenditori dei bolli.

Qui sorge un altro serio dilemma tributario, giacché l’erario nazionale, tanto inflessibile con i piccoli e medi contribuenti, quelli che non si possono permettere consulenti alla Tremonti né lunghe battaglie legali in Commissione Tributaria o davanti all’autorità giudiziaria, non riesce a raggiungere i grandi contribuenti transnazionali. Protetti da società schermo e dal prevalente carattere internazionale dei beni e dei servizi trattati, finiscono infatti per pagare solo dove più conviene, o addirittura evadere totalmente il fisco. Sappiamo della lunga battaglia dell’UE contro Apple, dell’immensa elusione realizzata da Facebook, Microsoft. Google, dalle piattaforme come Amazon, Uber, Airbnb, oltre alla difficoltà di tassare il commercio elettronico (e-commerce) ma il conto fiscale alla fine lo pagano il signor Rossi, le piccole imprese, i consumatori. La stessa mitissima web tax a carico dei giganti tecnologici è un’imposta europea, farà parte, come i dazi, delle cosiddette risorse proprie dell’Unione, di cui siamo semplici esattori e, ahimè, garanti, poiché a Bruxelles i soldi li vogliono subito e non fanno distinzione tra riscosso e accertato. Abbiamo scoperto, nell’Europa, un mostro fiscale più esoso e rapace dello Stato italiano!

Il centrodestra, specie nella sua componente liberale, insiste altresì per la totale abolizione delle imposte di successione. Aléxis Tocqueville sosteneva che la libertà di uno Stato si giudica dal sistema di tassazione delle eredità, ma non poteva conoscere i sofisticati meccanismi giuridici con cui vengono trasmessi beni, titoli, azioni, patrimoni restando sostanzialmente indenni da tributi; tuttavia anche su questo tema è lecita qualche perplessità. Qualcosa va fatto, è immorale colpire chi eredita una casa, un campo, un fondo o somme modeste, ma non si possono trattare con i guanti i grandi patrimoni. Sarebbe ingiusto non solo da un punto di vista morale, ma anche in un’ottica liberale, che dovrebbe privilegiare il merito, la capacità personale sulla fortuna e la casualità dell’appartenenza a famiglie abbienti o dell’indicazione di un testatore.

Nella flat tax, dunque, sono più le ombre che le luci, e non ha torto Matteo Renzi nell’affermare che se cinque aliquote Irpef sono troppe, una è troppo poca. Non possiamo, al di là di congegni più o meno intelligenti di deduzione, detrazione, quozienti familiari, trattare allo stesso modo la vedova pensionata di reversibilità, i precari a vita e Gonzalo Higuaìn, Valentino Rossi, Fabio Fazio. Del pari, IRES e IRAP, insieme con studi di settore, redditometro e spesometro e ogni altro infernale meccanismo inventato dal redivivo conte Dracula, non devono considerare allo stesso modo le piccole imprese, i professionisti, gli artigiani, Finmeccanica, le entità finanziarie e le multinazionali.

Probabilmente, l’obiettivo più realistico, poiché nessuna forza politica intende affrontare il nodo essenziale, ossia il debito, gli interessi passivi e la dipendenza da centrali di potere che hanno azzerato la sovranità sottraendola al popolo, è quello di semplificare, disboscare, e spostare con prudenza quote di tassazione dalle imposte dirette a quelle indirette. E poi sottrarre alla macchina impersonale del fisco una parte degli enormi poteri che ha, a cominciare da Equitalia, dal dedalo di interessi, indennità, sovrattasse, automatismi che moltiplicano le somme dovute, e rivedere il sistema che pone immediatamente a ruolo tutte le somme pretese, con l’impatto economico, psicologico ed esistenziale che produce sulla vita dei cittadini (e la morte, attenzione al dato allarmante dei suicidi per motivi economici e tributari).

L’alternativa, a voler davvero applicare la tassa piatta, è, un sicuro squilibrio di bilancio nel breve periodo che produrrebbe le pesanti reazioni del “pilota automatico “chiamato troika– l’espressione pilota automatico è di uno che sa, Mario Draghi – l’esplosione comandata dell’arma letale spread, con il risultato di consegnare anche gli ultimi spiccioli a chi sta espropriando il nostro popolo, il sistema produttivo, la nazione intera. Non a caso, si parla di nuove privatizzazioni (ma si legge svendita) che impoverirebbero ulteriormente la nostra disgraziata nazione, con il trasferimento ai soliti noti, gli strozzini globali, di quanto faticosamente costruito con il sudore e il lavoro di generazioni.

Resta da stabilire se sia vera la convinzione dei sostenitori della tassa piatta secondo la quale essa abbatterebbe l’evasione e, a regime, per il grande incremento previsto delle attività economiche, risulterebbe addirittura benefica per le casse erariali. Il caso americano, con la celebre reagonomics degli anni 80, basata sulla curva di Laffer (oltre un certo livello di tassazione diminuisce il gettito per disinteresse a creare ricchezza) dimostrerebbe il contrario, poiché l’ampio programma di tagli fiscali, di cui beneficiarono soprattutto i più ricchi e la grande impresa, ha moltiplicato il debito. Negli Usa, la potenza complessiva del dollaro, il dominio globale, politico, tecnologico e militare a stelle e strisce ha evitato disastri sociali, ma la povertà di decine di milioni di americani prova che la rivoluzione liberale è radicalmente ingiusta.

Altri esempi presentati non sono persuasivi. I buoni esiti della flat tax in area baltica celano il fatto, assai grave, che la previdenza è stata privatizzata, talché i pensionati dipendono dai risultati a breve termine dei mercati finanziari su cui è piazzato il denaro dei fondi, mentre l’esempio russo risente di troppe differenze. Si può tuttavia affermare che un risparmio fiscale mal bilanciato inevitabilmente diminuirebbe la copertura sociale, previdenziale e sanitaria, con esiti infausti per il sistema Italia che spende oltre il 16,5 per cento del PIL per pensioni e destina alla sanità circa un quarto della spesa pubblica, peraltro con squilibri clamorosi nella qualità dei servizi tra le varie regioni. Un proverbio dei contadini pugliesi spiega “se non paghi a lino, paghi a lana”.

Un’ultima osservazione riguarda le evidenze statistiche. La lotta di classe c’è stata, dopo la caduta del comunismo. L’hanno vinta gli straricchi, come ha tranquillamente ammesso uno di loro, Warren Buffet. Per limitarci all’Italia, meno del 20 per cento della popolazione possiede oltre due terzi della ricchezza; i protagonisti del Ceo capitalismo, ovvero il dominio dei manager alleati con i grandi possessori di azioni, guadagnano in un giorno quanto i loro subordinati in un anno. Se il panorama è questo, è fin troppo evidente che, pur con diverse intenzioni, la tassazione ad aliquota unica beneficerà in modo straordinario la fascia di contribuenti che può pagare, cambiando marginalmente la condizione dei più. Si può forse lavorare sulla progressività finale dell’imposizione, ma non verrà rispettato il principio del sacrificio proporzionale dei contribuenti.

Resta drammatica ed inevasa la richiesta di un sistema tributario più equo, più leggero, meno pervasivo e occhiuto, caratterizzato da un numero di regole, norme, interpretazioni, meccanismi che non riempiano manuali e massimari di migliaia di pagine come accade oggi. Un venerato maestro del modello liberale, Adam Smith, scriveva che le leggi, in particolare quelle tributarie, devono essere poche e scritte in linguaggio accessibile ai più. Una riforma orientata in tale direzione sarebbe un regalo immenso al popolo italiano, ma non accadrà.

Tutti preferiscono le promesse, le acrobazie aritmetiche, il marketing elettorale teso alla cattura dei contribuenti maltrattati. Senza uscire dal circolo vizioso del debito, del dominio della finanza, dei poteri transnazionali, qualunque soluzione sarà illusione, pannicello caldo, rinvio della resa dei conti, mera sopravvivenza per continuare a lavorare per falsi creditori e autentici mentitori.

ROBERTO PECCHIOLI