FILOSOFI E STAGNINI

di Roberto PECCHIOLI

Si racconta che José Ortega y Gasset, appassionato di corrida, fu presentato a un famoso torero. Questi chiese a quale attività si dedicasse quel distinto signore. E’ un filosofo, gli dissero. Stupefatto, il torero osservò: c’è gente per tutto. Molti si sorprenderanno del fatto che per iniziativa dell’Unesco, il terzo giovedì di novembre di ogni anno si tenga la Giornata Mondiale della Filosofia.

La celebrazione conferma il momento di popolarità che sembra vivere l’ostica disciplina di Aristotele e Tommaso d’Aquino. In Italia esistono festival dedicati alla filosofia frequentati da un vasto pubblico, alla presenza di pensatori o sedicenti tali, alcuni dei quali divenuti vere e proprie attrazioni assai ricercate dai programmi televisivi di intrattenimento. Molti assessorati alla cultura fanno a gara per avere nei propri eventi almeno una serata con la presenza di filosofi, in genere ben remunerati e interessati a promuovere la pubblicazione della loro ultima prestazione intellettuale, proposta come una pietra miliare del pensiero contemporaneo. Meglio così, naturalmente, l’interesse per la filosofia è positivo anche nella forma frivola e consumista prevalente. E’ un bene che si diffonda una certa simpatia sociale per la filosofia, pur se accompagnata da idee molto vaghe sul lavoro degli studiosi o dalla completa ignoranza di quello di cui si occupano.

Qui sorge l’inevitabile domanda che deve affrontare chiunque studi o abbia passione per la materia: a che cosa serve la filosofia? E’ un quesito che nessuno avanza a proposito della pedagogia, delle scienze della comunicazione o della moda. A volte la domanda è posta con genuino interesse, più spesso nasconde un larvato discredito, l’annoiata degnazione che si riserva a una faccenda divertente, ma del tutto estranea alla vita reale. Nulla di nuovo, se ricordiamo il modo in cui Callicle rimprovera Socrate nel Gorgia di Platone: come può giocare, intrattenersi con la filosofia un uomo della sua età, invece di dedicarsi a cose più serie e profittevoli, come guadagnare denaro o fare carriera politica? Socrate farebbe meglio a lasciare simili sottigliezze a giovani oziosi.

Non ci sembra più lusinghiero il giudizio dell’Unesco, che definisce la filosofia utile per formare “buoni cittadini” e “pilastro della pace “. Non è facile essere d’accordo con tesi tanto banali. La Giornata Mondiale sembra addirittura cercare giustificazioni all’esistenza della filosofia.  Giustificarsi costringe sulla difensiva, perfino alla ricerca di alibi; normalmente, spiegare la filosofia richiede una certa iniziazione alla sua pratica, la familiarità prodotta dalla conoscenza. Quanto di più distante dalla realtà educativa e culturale contemporanea, che relega la filosofia, insieme con tutte le materie che Dilthey chiamò scienze della spirito, in un ordine inferiore alle scienze della natura, le quali, nell’idea comune, “servono” a qualcosa. Insomma, il problema della filosofia è la sua estraneità al pensiero strumentale, la ricerca della verità anziché dell’esattezza scientifica, la sua natura di indagine sulle cause. La domanda fondamentale, tanto estranea all’uomo contemporaneo, non è “come “, ma “perché”.

Messi in difficoltà per la distanza dei criteri di giudizio, si finisce per trarsi d’impaccio con definizioni pret-a-porter, dozzinali, di scarso spessore che, con il pretesto di raggiungere tutti, eludono le domande fondamentali sulle indagini e le questioni poste dalla filosofia; si danno frettolose risposte buone per tutti che non rivelano nulla della sua centralità. Così la filosofia viene ridotta dall’Unesco a disciplina che esalta la pace e contribuisce a formare “buoni cittadini”, tacendo peraltro sui criteri, sull’autorità di chi li determina e in base a quale scala di valori. Non manca l’inevitabile allusione al “pensiero critico”, altro concetto ambiguo, uno slogan efficace quanto vuoto di contenuto.

Certo non mancano filosofi che hanno collaborato con le peggiori cause. Per restare al nostro tempo e al variegato campo esistenzialista, da decenni assistiamo alla demolizione del pensiero di Martin Heidegger per le sue simpatie naziste, ma è facile ricordare la difesa appassionata del comunismo stalinista di Jean Paul Sartre o Maurice Merleau-Ponty. Del pari, dobbiamo riconoscere l’oscurità magniloquente di troppi pensatori del Novecento, che sembrano ridurre la filosofia a un gioco di parole per iniziati, fitto di neologismi, paradossi, ambiguità. Sarebbe puerile sostenere che le idee filosofiche abbiamo sempre effetti benefici, o negare la patente di filosofi a quelli che non ci piacciono, dai greci ai postmoderni, per quanto sia forte la tentazione dinanzi a brani come il seguente,  di Gayatri Chakravorty Spivak, riportato da Roger Scruton in A political philosophy: la rammemorazione del “presente” come spazio è la possibilità dell’imperativo utopico del non- (specifico) luogo, il progetto della madrepatria che può integrare lo sforzo post-coloniale volto all’impossibile cathexis della storia specificamente locale come il tempo perduto dello spettatore .

Conviene segnalare uno dei servizi più importanti che offre la filosofia, menzionato raramente: combattere con gli argomenti la cattiva filosofia e le errate interpretazioni di quella buona. La filosofia è dunque un antidoto contro i veleni che inocula essa stessa? Qualcosa del genere, tenendo conto che le pessime idee filosofiche non nascono solo nelle accademie e circolano largamente nei dibattiti pubblici, sui mezzi di comunicazione e le reti sociali. Non vi è altro mezzo di opporsi alle influenze cattive se non facendo buona filosofia. A tal fine, bisogna imparare a distinguere le buone dalle cattive ragioni in cerca della verità, sia che discutiamo della struttura ultima della realtà, della conoscenza, del giusto ordine sociale o della concezione del bene.

Forse serve ritornare alla funzione del filosofo come moscone fastidioso che viene da Socrate. La missione di chi pensa è revocare in dubbio i luoghi comuni, le formule e i cliché che gli altri accettano senza riflettere. La filosofia rende un servizio non soltanto allorché ne demitizza qualcuno, ma anche quando l’idea analizzata resiste all’esame, poiché sarà stata osservata e riconosciuta valida sotto un nuovo punto di vista.

Questo esercizio sembra più necessario che mai dopo avere preso atto di una ricerca svolta tra gli studenti di liceo e dell’università, convinti in maggioranza che tutte le opinioni siano valide o meritino identico rispetto. Il fatto più interessante è che il loro relativismo obbedisce a un impulso suppostamente morale: adottano la posizione relativista per il timore di apparire intolleranti. La sua forza di attrazione si spiegherebbe così attraverso la tolleranza, celebrata come il grande valore delle società pluraliste. Basta un esame sommario per rendersi conto che dal relativismo non discende la tolleranza, né la tolleranza richiede relativismo. Entrambe le nozioni illustrano bene la necessità di analisi e classificazione concettuale a cui risponde la buona filosofia.

Il relativismo è una specie di bersaglio mobile difficile da inquadrare. Ammettiamo di individuarlo nella tesi secondo cui tutte le opinioni hanno il medesimo valore. E’ una tesi insostenibile in quanto paradossale, poiché, rovesciata, implica che non esistano opinioni veritiere o giustificate meglio di altre. Se asserisco che non ci sono affermazioni veritiere, escludo dal giudizio la mia stessa proposizione? In caso contrario, non ci sarebbe ragione per accettarla o prenderla sul serio. Per sfuggire a tale obiezione, i sostenitori del relativismo sono soliti restringerlo all’ambito delle opinioni in campo morale. Anche così, è difficile vedere come il relativismo sarebbe un aspetto o una conseguenza della tolleranza. In fin dei conti, “la tolleranza è buona” è una proposizione morale. Se accettiamo che tutte hanno identico valore, quest’affermazione vale tanto quanto la contraria e non sussisterebbero più valide  ragioni per essere tolleranti che per essere intolleranti.

Il pensatore americano Michael Sandel ha rivelato che l’attrazione che lo ha condotto alla filosofia deriva dalla sua ineludibilità.  La filosofa inglese Mary Midgley, scomparsa di recente a quasi cent’anni di età, lo spiegò in forma più prosaica ma non meno efficace quando paragonò la professione filosofica a quella dell’idraulico: l’una e l’altra si interessano di cose necessarie ma non immediatamente visibili.  Non ci si fa caso finché le strutture non si ingorgano o non funzionano: allora serve l’intervento dell’esperto. Se alla fine, come ribatte Socrate a Callicle, non c’è questione più seria della domanda su come dobbiamo vivere, tanto vale pensarci bene, con l’aiuto di filosofi e stagnini.    

                                                                    ROBERTO PECCHIOLI