DIFESITALIA E I NUOVI CORSI DELLA POLITICA ECONOMICA

(Andrea Cavalleri)

 

Una mail indirizzata a tutti i maggiori media, ad alcuni esponenti delle istituzioni, conosciuti personalmente dai mittenti (compreso il Presidente della Repubblica) e giunta anche al sito di Blondet, dà la notizia di una nuova forza politica costituente, di ispirazione cattolica, nata in un gruppo di alti gradi delle forze militari.

Lasciando la parola a loro.

 

Il movimento che aspiravamo mettere in campo nelle prossime elezioni avrebbe preso il nome di “DIFESITALIA” e aveva, come “cavallo di battaglia”, una particolare strategia fiscale che consentiva all’Italia di uscire fuori dalla crisi economica con i suoi mezzi e senza pietire nulla a nessuno, pur prestando fede alle ferree regole europee.

 

Questo l’intento, poi:

 

La gravità della situazione economico-finanziaria, resa estrema dall’epidemia del coronavirus e il rischio che l’Italia GIOVEDI 23 aprile 2020 possa perdere la residua sovranità nazionale, non ci

consentono di attendere nuove elezioni politiche.

 

Questa la consapevolezza e la visione dello scenario nazionale, per cui:

 

Una strategia che abbiamo deciso di rendere di pubblico dominio affinché l’Italia se ne possa avvantaggiare subito. La potete trovare qui allegata.

 

Questo il senso di responsabilità, che impone loro di rinunciare a calcoli elettorali e a offrire a chiunque voglia utilizzarlo uno strumento di sicuro interesse, che può contribuire a salvare la barca dell’economia italiana in procinto di affondare.

 

Il documento integrale del piano fiscale si può leggere qui [DIFESITALIA-Strategia fiscale

 

Il progetto

 

Per chi non volesse leggere il documento originale cerco di riassumerne qui i punti salienti, anche se mi sfuggirà qualche imprecisione e forse qualche omissione veniale.

 

La strategia è quella di operare una manovra espansiva non basata sull’aumento della quantità della moneta, ma sull’incremento della sua circolazione, rendendo attivi i risparmi degli Italiani.

Così gli autori

La disciplina ideata (da attuare al solo interno del territorio nazionale e a favore dei soli contribuenti italiani) pone in essere una circolazione forzosa quanto virtuosa del cospicuo risparmio finanziario degli italiani, con un meccanismo che avvantaggia tutti, ivi compresi i risparmiatori che vedranno ben remunerare le proprie economie.

 

Il metodo tramite cui mettere in moto i depositi fermi è quello di offrire al mercato italiano dei buoni di sconto fiscale (BSF) dotati di “rendimento fiscale” e che funzionano così.

 

 

 

1) In base a criteri selettivi (famiglie povere con figli, imprese nevralgiche per il territorio che siano in difficoltà etc) lo Stato regala ai cittadini dei buoni di sconto fiscale validi per pagare qualunque tassa, diretta o indiretta (anche l’IVA) a partire dal 3° anno dopo l’emissione e fino al 5° anno da essa.

 

2) I buoni vengono collocati tramite apposita asta organizzata dalle istituzioni, (in caso di grave crisi lo Stato può adottare misure che sospingano fortemente l’asta a buon fine).

 

3) I nuovi acquirenti dei buoni per i 3 anni che li separano dal momento in cui potranno spenderli per pagare tasse (dirette, indirette e anche multe) li deducono dall’imponibile in misura del 15% del valore nominale (e poiché le tasse si aggirano solitamente attorno al 50% dell’imponibile, i buoni ottengono un rendimento fiscale che può essere del 7,5%).

Non solo la deduzione da buoni può risultare assai appetibile quando produce un salto di scaglione di aliquota (non è concesso più di 1 salto di scaglione).

I buoni non sono cedibili a terzi salvo alcune eccezioni da sottoporre a vaglio dell’autorità, tipo incapienza fiscale (il possessore non paga abbastanza tasse da consumarli).

 

4) Il beneficiario originario dei buoni, nel momento in cui incamera i soldi della vendita all’asta paga una cedolare secca del 20% non sottoponibile a ulteriori prelievi addizionali o regionali, che costituisce però reddito calcolabile per valutare la concessione di altri benefici del welfare.

 

5) i soldi della vendita del buono restano accreditati su un conto della Cassa Depositi e Prestiti e sono spendibile solo in Italia e possibilmente (fattibilità economica e giuridica da verificare) solo per prodotti italiani, attraverso carta che non consente prelievo di contanti.

 

Costi e benefici del piano

 

Il primo dato che balza all’occhio è che si tratta di un’operazione priva di qualunque inconveniente.

 

Le imprese e i cittadini beneficiati ringraziano.

Chi ha risparmiato sulle tasse per via degli sconti dei BSF, ringrazia, oltretutto ha investito dei soldi che avrebbe dovuto spendere comunque, facendoli confluire all’erario.

La domanda aggregata sale, perché le persone in stato di necessità i soldi li spendono e tutti, quindi l’economia reale ringrazia.

E lo Stato?

 

Lo Stato ha concesso degli sconti fiscali triennali, ma incamerando subito il 20% dell’ammontare dell’intera operazione.

La manovra espansiva creerà un aumento del PIL e conseguentemente del gettito, che farà registrare due anni di miglioramenti dei conti e potrebbe portare al pareggio il terzo anno, quando i buoni verranno scontati.

Ma facciamo anche l’ipotesi malaugurata in cui il terzo anno lo Stato veda diminuire le proprie entrate a causa del riscatto dei BSF.

Ipotizziamo una crescita del PIL che permetta di recuperare 50 a fronte di uno sconto fiscale 100, e lo confrontiamo con analoga manovra svolta con Buoni del Tesoro.

 

Con BSF

Tempo Risorse dello Stato Entità manovra Debito pubblico
pregresso 0 0 0
Ora x avvio manovra +20 +80 0
Ora x più tre anni -50 0 +30

Con Buoni del Tesoro

Tempo Risorse dello Stato Entità manovra Debito pubblico
pregresso 0 0 0
Ora x avvio manovra +20 +80 +100
Ora x più tre anni +50 0 +33

 

Il paragone è fatto in termini estremamente semplificati per renderli più evidenti.

Poniamo che lo Stato emetta il valore 100 in BSF, dato che incassa la cedolare secca del 20%, la manovra risulta essere da 80.

Per mantenere l’identità dei termini paragone, ho ipotizzato che lo Stato emetta 100 in Buoni del Tesoro, trattenga 20 e spenda 80 per la manovra, (in realtà lo Stato emette 80 in buoni e basta, ma cambia ben poco per l’esito finale).

Ebbene il primo dato che salta all’occhio è che, da subito, la manovra  coi bond governativi accresce il debito pubblico; poi se va bene, cioè se il gettito fiscale aumenta, e se lo Stato utilizza tale accresciuto gettito per ripianare il debito, allora al terzo anno, l’aumento del debito pubblico si riduce.

Invece con i BSF, per tre anni il debito pubblico non subisce alcuna influenza, poi, se va male, cioè se l’incremento del gettito non è tale da coprire il totale degli sconti dei BSF, allora si potrà decidere di aumentare il debito pubblico per coprire le necessità.

Non solo, con i Buoni del Tesoro si sono pagati tre anni di interessi (il 33 finale della tabella è fatto da 30 in conto capitale e 3 di interessi), cosa che con i BSF non accade; il tutto considerando  una perfetta parità di crescita del PIL e di gettito fiscale.

In entrambi casi migliora il rapporto Debito/PIL, a causa della crescita del PIL.

 

Inoltre non è un’ipotesi peregrina che il rientro al terzo anno possa avvenire come dimostra un ragionamento empirico così concepito: Le tasse indirette (IVA e altro) hanno una media del 10-15%

se gli 80 euro di erogazione iniziale vengono spesi dieci volte, producono un gettito che ha compensato l’erario del suo sconto finale.

 

Non sfuggirà al lettore che lo strumento, una volta usato per una manovra straordinaria, potrebbe gradualmente assumere un corso ordinario, se lo Stato collocasse in proprio una quota dei BSF, e quindi si finanziasse direttamente ipotecando i suoi futuri introiti fiscali.

Questo creerebbe uno schema Ponzi?

Sì, esattamente come adesso esiste uno schema Ponzi sul debito pubblico, ma con la piccola differenza degli interessi.

Piccola differenza?

Conti che girano da almeno 7 anni dimostrano che il totale dei soli interessi pagati dallo Stato italiano dal 1981 a oggi, supera il totale del debito pubblico; lo ripeto se dal 1981 a oggi l’Italia non avesse pagato interessi, il suo debito pubblico sarebbe zero, con un saldo attivo di due o trecento miliardi.

Qualunque strumento permetta di evitare questo latrocinio è benvenuto!

 

Dimenticavo un particolare: esiste una categoria di persone che sarebbe scontenta dell’introduzione dei BSF, e sono gli speculatori.

Quelli internazionali perché completamente tagliati fuori dall’accesso ai titoli BSF e quelli nostrani per via di una serie di norme, a partire dalla non rivendibilità del buono, che li rendono inutilizzabili ai fini speculativi.

 

Piani di ripresa economica

 

La narrativa economica, in auge sui media, si è concentrata sulle difficoltà finanziarie degli Stati moderni e in particolare della nostra Italia, per cui una grande quantità di sforzi creativi sono stati fatti per affrontare tale problema.

Tuttavia ci si dimentica troppo spesso che l’architettura finanziaria è frutto di una convenzione e che i conti vanno bene o male nei confronti di regole, che potrebbero essere cambiate o volte a proprio favore attraverso degli stratagemmi; non così la vita delle persone, che deve affrontare la dura realtà (dura nel senso che non può essere cambiata per convenzione) e che è quella che determina alla fine il successo delle imprese economiche.

 

Vorrei confrontare per sommi capi due dei maggiori sforzi nazionali fatti dopo la grande depressione del ’29 per avviare la ripresa: il new deal di Roosevelt e il piano Schacht-Hitler in Germania.

Entrambi avviati nel 1933 entrambi partiti da condizioni disastrose, giunti però a esiti abbastanza diversi.

 

La depressione negli Stati Uniti era stata innescata da una serie di eventi che avevano portato alla distruzione di un terzo dei depositi bancari; lo spiega Irving Fisher nel Chicago Plan, aggiungendo che, al fine di ripristinare tali depositi lo Zio Sam ha fatto ogni sforzo per indurre le banche a concedere prestiti alle imprese e per indurre le imprese a farsi prestare denaro dalle banche.

In questo ha fallito. Poi si è gettato nella mischia richiedendo egli stesso finanziamenti.

Il punto essenziale non è il suo prendere a prestito, ma il suo prendere in prestito dalle banche.

In tal mondo lui e loro, congiuntamente, hanno creato il “credito”, cioè la moneta bancaria che gli hanno prestato.

Questo nuovo denaro, anche se solo un sottoprodotto del debito, secondo la mia teoria è la causa principale della nostra parziale ripresa attuale.

 

Questo sotto il profilo monetario, mentre sotto il profilo macroeconomico fu data fiducia incondizionata al mercato, le cui regole restarono in vigore per tutto il new deal.

Per questa ragione (la preservazione di un libero mercato) cinque milioni di coltivatori furono espulsi dalle loro terre, pignorate per debiti dalle banche, dieci milioni di ettari coltivabili furono lasciati allo stato selvaggio perché mancavano acquirenti, raccolti furono bruciati nei campi e migliaia di tonnellate di grano furono affondate in mare; addirittura sei milioni e mezzo di maiali furono uccisi e inceneriti.

L’idea di usare questo “surplus” invenduto per sfamare i poveri venne respinta perché avrebbe “turbato il mercato” facendo scendere ulteriormente i prezzi.

 

Arrivando infine all’occupazione, l’iniziativa più vistosa fu certamente quella delle grandi opere pubbliche volute da Roosevelt che impegnarono otto milioni e mezzo di americani.

Senonché la combinazione del calo del gettito dovuta alla crisi con l’aumento del debito per finanziare le grandi opere (l’esplosione del rapporto Debito/PIL diremmo oggi) indusse il governo a esercitare una fortissima pressione fiscale su chi aveva un reddito, per cui un lavoratore dei lavori pubblici riceveva 30 dollari al mese lordi, ma 25 andavano in tasse. Restava una paga men che mediocre per svolgere un duro lavoro in territori selvaggi e malarici, che consentiva di procurarsi il cibo e ben poco altro.

 

Il risultato finale del decennio di crisi è stato scoperto dal demografo Vladimir Borisov: applicando gli stessi identici criteri usati per calcolare i morti del regime sovietico, questo studioso ha registrato la mancanza all’appello di sette milioni di Americani, che, a suo giudizio, sono deceduti per la fame e per gli stenti.

 

In Germania nel ’33 le cose non andavano molto diversamente.

Dopo l’iperinflazione di Weimar, il governo del cancelliere Brüning aveva condotto una politica restrittiva e austeritaria che aveva precipitato la Germania nella deflazione; deflazione aggravata dai fallimenti bancari dovuti al panico proveniente d’oltreoceano e dalla crisi finanziaria locale (dopo tutto il primo fallimento di una banca che aveva innescato la reazione a catena era avvenuto in Austria). Pertanto un quarto della forza-lavoro tedesca, oltre sei milioni di persone, era disoccupata e non sapeva cosa fare.

 

Diventato cancelliere del Reich a gennaio 1933, Hitler si rivolse al governatore della Reichsbank, Dr. Hans Luther nel febbraio 1933 per chiedergli quanti fondi c’erano per portare avanti il suo programma elettorale per creare posti di lavoro.

La risposta fu “150 milioni di marchi”, mentre il governo tedesco spendeva miliardi di marchi l’anno per pagare sussidi di disoccupazione ed evitare che le famiglie di milioni di disoccupati morissero di fame.

Il nuovo cancelliere sostituì Luther con Hjalmar Schacht che gli promise di trovare i soldi in accordo con il programma economico del NSDAP.

 

Il piano elaborato iniziò con l’istituzione di agenzie territoriali per il lavoro, che stilavano le liste delle cose da fare.

I Comuni commissionavano i lavori alle imprese private e li pagavano con i certificati (i famosi MEFO dotati di rendimento, che funzionavano anche come strumento di risparmio).

Le imprese infine potevano incassare i certificati (non sempre lo fecero) scontandoli alla Banca centrale che in cambio stampava moneta.

 

Nel giro di un anno la disoccupazione si dimezzò, in tre anni era scomparsa.

Il potere d’acquisto dei salari fu in crescita costante, fino a guerra inoltrata.

Lo Stato, ridotto come un pugile suonato alla fine della Grande Guerra divenne in breve una potenza a livello mondiale.

Non si vide traccia di inflazione, perché nella creazione di moneta fu seguita una semplice regola, sintetizzata in queste parole di Hitler: non eravamo così stupidi da cercare di usare una moneta basata sull’oro, di cui non ne avevamo, invece per ogni marco che emettevamo richiedevamo l’equivalente di un marco di lavoro o di beni prodotti… e ridevamo dei finanzieri che sostengono che il valore di una moneta dipende dal suo contenuto d’oro e da riserve in valuta che siedono nelle casseforti di una banca centrale…

(da un discorso del cancelliere tedesco del 1937)

 

Cosa ci insegna il raffronto

 

La prima differenza che balza all’occhio è il percorso inverso affrontato dai due piani di ripresa. Quello americano è basato su una concezione per cui tutto parte dal denaro, che crea un mercato, che consente alle persone di soddisfare i propri bisogni attraverso il lavoro.

Quello tedesco parte dai bisogni della gente residente sul territorio, che attraverso il lavoro sviluppa un mercato il quale può creare funzionalmente e di conseguenza la propria moneta.

Quale modello dei due sia risultato vincente, non c’è bisogno di sottolinearlo, tanto è evidente.

 

Il modello americano peccò di ideologia, la vita delle persone era sacrificata alla teoria dei prezzi,

le grandi opere non partivano dal miglioramento della vita dei cittadini comuni, ma andavano alla conquista di spazi disabitati.

Quello tedesco fu un piano sicuramente più ancorato alla realtà, già in partenza i disoccupati non erano abbandonati alla fame nera, ma ricevevano dei sussidi, e le opere da cui si cominciò furono quelle che servivano alla vita di tutti i giorni.

 

Anche a livello imprenditoriale, il new deal lasciò le aziende a “competere sul mercato” mentre lo Stato offriva un salvagente ai disoccupati.

In Germania lo Stato diede lavoro alle aziende, salvandone così parecchie.

E come ha scritto Joseph Stiglitz a proposito della crisi asiatica sfortunatamente è molto più facile distruggere un’azienda che crearne una nuova.

In America, dove si voleva lasciare che il mercato compisse il suo ciclo recuperando l’equilibrio, l’operazione fallì e la ripresa parziale avvenne solo ad opera degli interventi statali; in Germania, dove il governo intervenne senza remore a imporre una svolta dirigistica alla situazione di crisi, il mercato, ironicamente, riprese a funzionare.

 

Infine si registrano differenze anche sotto l’aspetto finanziario.

Negli Stati Uniti, come ha raccontato Fisher, si procedette alla reflazione attraverso i prestiti bancari. Sempre nel Chicago Plan si spiega che fu la paura dell’inflazione che trattenne il governo dallo stampare moneta, infatti 2 miliardi di dollari in nuove banconote permetterebbe a queste, in qualità di “moneta legale”, di costituire riserva al 3,5% di un possibile totale di 57 miliardi di nuova moneta bancaria!  Deve essere stata in parte questa considerazione che ha spinto il presidente Roosevelt a diventare sordo a tutte le richieste di stampare più banconote.

La riforma c’era stata, proprio nel ’33, attraverso il Glass-Steagall Act che aveva sancito la separazione bancaria e l’assicurazione degli istituti di credito al dettaglio, ma non aveva toccato la riserva frazionaria.

Quindi il governo aveva creato liquidità, ma al costo di altrettanti debiti e relativi interessi.

In Germania le riserve obbligatorie delle banche furono innalzate e lo Stato si fece meno scrupoli a creare moneta legale, producendola però quando era stata già spesa.

Nel caso Americano la moneta entrava nel mercato in modo transeunte, come prestito destinato a uscirne in compagnia degli interessi, moneta contro altra moneta.

Nel caso tedesco la moneta entrò nel mercato in modo stabile, come moneta acquistata tramite lavoro e libera di circolare senza debito e senza interessi.

 

L’ultima morale del paragone ce la fornisce il fatto che gli Stati Uniti produssero molti più soldi

(celebre la frase di Schacht, in risposta a un magnate della finanza che gli diceva dottore, lei dovrebbe venire in America Lì abbiamo un sacco di denaro ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario. A cui Schacht replicò: Lei dovrebbe venire a Berlino. Lì non abbiamo denaro. Ed è questo il vero modo di gestire un sistema bancario) e quindi ciò che qualifica maggiormente una manovra per la ripresa non è la quantità della moneta, ma la qualità della spesa.

 

Difesitalia e ultime conclusioni

 

Il piano dei BSF non è totalmente originale, in quanto può essere definito un’evoluzione e un perfezionamento della moneta fiscale, il S.I.R.E. di Marco Cattaneo.

Quest’ultimo economista appartiene all’associazione Moneta Positiva, altro gruppo di persone oneste e competenti con cui sarebbe opportuno collaborare.

 

Sulla praticabilità di questi strumenti finanziari, esistono questi riscontri.

A proposito dei primi prototipi di Cattaneo e soci Mario Draghi il 16 novembre 2015 si esprimeva così: La definizione del trattamento statistico appropriato -per quanto riguarda il disavanzo pubblico e il debito- dei certificati di credito fiscale o di qualsiasi strumento analogo non rientra nelle competenze della BCE. Pertanto, vorrei gentilmente indirizzarvi alle autorità nazionali e/o europee competenti.

E poi, nel giugno del 2018, a favore del progetto di Marco Cattaneo, si schiera il premio Nobel, Joseph Stiglitz (professore universitario presso la Columbia University e Chief Economist presso l’Istituto Roosevelt), che afferma che i TSF (Titoli di Sconto Fiscale) non generano debito né al momento dell’emissione né in quello dell’utilizzo; non possono essere neppure contabilizzati come debito (a differenza dei BOT e dei BTP) perché il governo s’impegna non a rimborsarli in euro ma soltanto a concedere sgravi sulle tasse future. E le riduzioni fiscali non sono mai, secondo i principi di contabilità, sia nel diritto pubblico che in quello privato, computabili come debito.

 

Tuttavia bisogna sottolineare che quanto meno sotto un aspetto il progetto BSF detiene un vantaggio assoluto, in quanto in nessun modo si presenta né come titolo di debito né come mezzo di pagamento, liberandosi dunque da ogni possibile pastoia dei regolamenti finanziari europei.

Un’operazione che risulterebbe fatta in casa dagli Italiani per gli Italiani.

 

Una via che vale sicuramente la pena di percorrere.

Da quanto ho scritto sopra, si capisce comunque che, pur ritenendolo un validissimo strumento per combattere la crisi, non considero il programma dei buoni fiscali come una soluzione automatica dei problemi, ma che debba essere accompagnato da un accorto piano industriale strategico.

Piano strategico che la finanza privata non ha mai fatto e mai farà, per la semplice ragione che i suoi obiettivi (i profitti individuali) divergono da quelli dello Stato (lo sviluppo economico generale).

 

Dato che nel documento di Difesitalia non ho trovato tracce di questa seconda parte di un piano di ripresa, parte che riguarda cioè il “cosa fare” e non solo il metodo per avere a possibilità di agire, mi sono offerto io stesso di collaborare col nuovo soggetto politico al fine di estendere e approfondire i programmi economici.

La proposta è sul tavolo.

Chi vuole raccoglierla si faccia avanti.