CARO PAPA, ATTENTO ALLO STORICISMO ONTOFOBICO

di Luigi Copertino

Nel suo discorso natalizio alla Curia, Papa Bergoglio ha constatato che non siamo più nell’età della Cristianità e che pertanto la Chiesa cattolica oggi «non è più l’unica che produce cultura, né la prima, né la più ascoltata. (…) perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata».

Citando, poi, il cardinale Newman – il grande teologo ottocentesco che compresi gli errori anglicani si convertì alla fede cattolica – il Papa ha ricordato che «Qui sulla terra vivere è cambiare, e la perfezione è il risultato di molte trasformazioni». Si tratta di una espressione tratta dall’opera “Lo sviluppo della dottrina cristiana” che maggiormente segnò l’avvicinamento di Newman al Cattolicesimo. Poi, però, il Papa specifica che per Newman: «Non si tratta ovviamente di cercare il cambiamento per il cambiamento, oppure di seguire le mode, ma di avere la convinzione che lo sviluppo e la crescita sono la caratteristica della vita terrena e umana, mentre, nella prospettiva del credente, al centro di tutto c’è la stabilità di Dio. Per Newman il cambiamento era conversione, cioè una interiore trasformazione. La vita cristiana, in realtà, è un cammino, un pellegrinaggio».

A supporto, il Pontefice ha rammentato che l’intera storia biblica è un cammino, segnato da avvii e ripartenze. Questa, del resto, fu la vicenda di Abramo ma anche quella dei seguaci di Gesù i quali: «… tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc5,11). La storia della Chiesa, che è il popolo di Dio, è cammino ma, ovviamente, non puramente geografico. Esso è anzitutto simbolico ossia è un invito a scoprire il moto del cuore che, paradossalmente, ha bisogno di partire per poter rimanere, di cambiare per potere essere fedele.

Pertanto, il Papa desume dal fatto che stiamo vivendo non semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento di epoca – nel quale tutto si trasforma velocemente, il modo di vivere come quello di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza – che l’atteggiamento migliore è quello di lasciarsi interrogare dalle sfide del tempo presente e di coglierle con le virtù del discernimento, della parresia e della hypomoné. «Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica». Il cambiamento, in questo caso, diventerebbe, per Papa Bergoglio, sempre più umano ed anche cristiano. Sarebbe sempre un cambiamento esterno, ma compiuto a partire dal centro dell’uomo, da una conversione antropologica. Per questo la Chiesa, ha dovuto precisare il Papa, deve sì avviare processi ma leggendo i segni dei tempi con gli occhi della fede e nella fedeltà al depositum fidei ed alla Tradizione.

Fin qui il Papa. Sul quale da tempo si abbattono gli strali di molti che, però, non guardano tanto all’essenza teologica, di fede, dei problemi sollevati, quanto purtroppo e piuttosto alla difesa di interessi consolidati fatti passare per Tradizione laddove sono solo autoreferenzialità che si fanno scudo della Tradizione ma che se venissero meno non verrebbe certo di meno la Tradizione.

Detto questo, però, è innegabile che da decenni nella Chiesa si parla e straparla di cambiamento pastorale e liturgico che non avrebbe dovuto, non dovrebbe, toccare il depositum fidei. Come, con un’altra immagine usata da papa Bergoglio nel suo discorso, colui che cambia vestito ma resta sempre lui, non perde identità.

Purtroppo non sembra proprio che il cambiamento dell’abito non abbia anche cambiato l’identità. Forse sbagliava l’antico adagio per il quale l’abito non fa il monaco. Lo scrivente lo dice da semplice cristiano che guarda i fatti e constata la realtà senza – ripeto – nessun allineamento con i cattolici conservatori che difendono interessi non propriamente collimanti con l’unico interesse veramente cristiano ossia la difesa della Verità di Fede, compresa la Dottrina Sociale Cattolica che non è una teologia del liberismo economico come pensano influenti cattolici americani o un noto banchiere cattolico che anche di recente su un quotidiano sovranista ha accusato il Papa di un presunto anticapitalismo, dimentico però degli strali preconciliari di Pio XI contro l’“imperialismo internazionale del denaro”.

Il primo dell’anno una amica ha inviato allo scrivente, su whattapp, una fotografia con la didascalia “a Messa a Ratisbona”. Nell’immagine appariva lo scenario interno della bellissima cattedrale medioevale di quella città tedesca praticamente vuota di fedeli, salvo qualche sparuto drappello. Probabilmente costituito per lo più di turisti come l’amica mittente.

Se, dunque, questi sono i risultati di decenni di cambiamento pastorale come continuare a sostenere che non c’è stato anche alcun cambiamento di identità tale da far scappare i fedeli? Ma, tant’è, la gerarchia, quella tedesca poi in modo particolare, continua imperterrita a chiudere gli occhi di fronte alla desertificazione ed ad invocare ulteriori cambiamenti.

«Dio – ha affermato il Papa nel suo discorso natalizio – si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa».

Per sostenere questa visuale, che – si badi!, in sé, non è affatto contro la Tradizione – Papa Bergoglio ha fatto ricorso alle citazioni di Newman ed a quelle bibliche già riportate. Ma ha avuto bisogno di evidenziare che non si tratta di trasformare l’essenza ma solo l’apparenza, senza tuttavia porsi alcuna domanda circa i rapporti tra ciò che appare e ciò che è, tra esterno ed interno.

La Chiesa da sempre ha accolto l’idea dello sviluppo della fede ma “ad intra”, secondo lo stesso senso e significato rivelato. Cosa che comporta il fatto per cui anche le apparenze esterne sono soggette a sviluppo ma in coerenza con tutta la storia precedente. Perché l’albero sviluppa dal seme, dalle radici, ma non è in essenza cosa altra da ciò che in nuce, in potenza, era già contenuto nel seme. Questo era il senso profondo di quella ermeneutica della continuità alla quale si richiamava Benedetto XVI.

«Quel che Dio ha congiunto l’uomo non osi separare», ha affermato Cristo (Mt. 19, 3-6). In modo valido per tutti i secoli e in ogni circostanza storica. Se è vero che il matrimonio lungo i secoli della Cristianità non ha sempre avuto le medesime caratteristiche liturgiche come quelle che conosciamo almeno a partire dal Concilio di Trento – nel medioevo, ad esempio, esso era in pratica un atto notarile, previo accordo tra le famiglie, cui si accompagnava la benedizione sacramentale del sacerdote – è tuttavia vero che esso ha sempre avuto in nuce il proprio carattere sacramentale, successivamente messo vieppiù in evidenza desumendolo dal comando stesso di Gesù Cristo. Sicché è difficile, oggi, non avere “dubia” in ordine alla contraddizione tra la pubblica condizione di adulterio del cristiano e della cristiana divorziati e risposati o conviventi more uxorio, ossia con pratica sessuale, e la possibilità, riconosciuta da Papa Bergoglio, per gli stessi, previo “cammino di discernimento”, di essere riammessi al sacramento eucaristico senza pentimento e senza rinuncia alla copula con il nuovo coniuge o il nuovo convivente.

Allo scrivente, nella sua condizione di semplice fedele perplesso, sembra che, come ormai è costume ecclesiale da qualche decennio a questa parte, sulla base di alcune considerazioni assolutamente vere e tradizionali, come quella per cui Dio si rivela nella storia e la sua chiamata è un mettersi in cammino come Abramo, viene poi imbastito un discorso che sfocia, o perlomeno rischia di sfociare, nella riduzione storicista della fede secondo una linea idealistica infiltratasi nella teologia modernista. La fede, ci è detto, deve andare incontro ai segni dei tempi senza però dirci quali essi sono per distinguerli da quelli che non lo sono. Quali, pertanto? Anche l’aborto è segno dei tempi? Anche la finanziarizzazione dell’economia lo è? Anche la globalizzazione? Anche la volontà israelitica di ricostruire il Tempio nel tentativo di confutare l’identificazione che Cristo ha fatto tra la Sua Persona ed il Vero Tempio? Non sembra ci sia una chiara consapevolezza del rischio di diluire la fede nella mentalità mondana. Manca – forse ci sbagliamo ma non riusciamo a vederla – qualsiasi avvertenza, sulla quale pure i Vangeli insistono congiuntamente all’esortazione di andare verso le genti, circa la presenza tangibile e l’opera costante del maligno nelle vicende storiche del mondo nel quale come cristiani siamo chiamati a vivere ed agire.

Forse non a caso Papa Bergoglio chiude il suo discorso natalizio con una citazione del cardinal Martini. Non sappiamo se volutamente o meno, ma in tal modo il regnante Pontefice mostra di riaccreditare la teologia di Karl Rahner, molto apprezzato da Martini, dopo che in un articolo pubblicato sotto Giovanni Paolo II in prima pagina dall’Osservatore Romano, a firma del teologo Ols ma per impulso di Joseph Ratzinger all’epoca Prefetto della fede, che ne fu l’ispiratore, essa fu demolita con l’imputazione di relativismo e soprattutto rivelandone le matrici spurie e dipendenti da Martin Heidegger, dunque, per tale via, dall’idealismo moderno.

Arriviamo, così, al cuore del problema della Chiesa oggi. Che non è solo il problema della Chiesa ma anche dell’attuale contesto globale, compresi i suoi riflessi politici ed economici.

Benché con espresso riferimento ai concreti effetti nello scenario europeo attuale, il direttore Maurizio Blondet ci ha spiegato, con ottima penetrazione spirituale della questione, cosa si nasconde dietro lo storicismo che ammorba il pensiero a partire dal XVIII secolo. Lo ha fatto nei suoi due recenti articoli, su questo stesso sito, dedicati alla filosofia tedesca moderna: “Perché è mortale la Germania nella UE (spiegato con Kant)” è “Lo idealismo tedesco è soggettivismo”, rispettivamente del 27 e del 30 dicembre 2019.

Il direttore Blondet svolge le sue argomentazioni sulla scorta di un illuminante saggio di Ortega y Gasset, che tratta del nucleo profondo del pensiero kantiano-idealistico contrapposto a quello tomista-realista. Il grande filosofo ispanico scrisse il suo contributo nel 1924 – “Kant. Riflessioni su un centenario. 1724-1924” – in occasione del bicentenario della nascita di Immanuel Kant, padre filosofico dell’idealismo (ora in Ortega y Gasset “Raccolta Idee per una storia della filosofia, ed. Sansoni). L’esposizione del direttore è chiara, sintetica ma lucida, e se certo è merito di Ortega andare filosoficamente all’obiettivo si deve riconoscere a Blondet una capacità di intelligente divulgazione filosoficamente ineccepibile. Si consiglia, pertanto, chiunque la lettura di questi due eccellenti articoli del nostro direttore. Magistrali nella spiegazione della mentalità tedesca e dei suoi effetti, compresi quelli che hanno segnato le politiche europee di questo ultimo decennio, sono qui, ora, utilissimi anche per spiegare l’arcano dell’eclissamento della fede all’interno della Chiesa cattolica.

Negli articoli, sopra citati, di Blondet viene dimostrato che il nocciolo profondo del moderno è nell’Ontofobia ossia nella riduzione del mondo, della realtà, all’io pensante. Una riduzione effettuata dall’idealismo a partire da Kant per seguire con Fichte, Schelling, Hegel ed oltre. Sotto un profilo teologico e metafisico la riduzione dell’oggetto al soggetto significa ridurre Dio all’io ossia, in termini biblici, auto-deificare l’io, secondo la primordiale e ricorrente tentazione ofidica di Genesi 3,5: «Eritis sicut Dei», “sarete come Dio”.

Questa volontà auto-costruttrice dell’uomo, il desiderio impossibile ma sempre vanamente perseguito, di auto-creare sé stesso ed il mondo che lo circonda, invece di considerare sé ed il mondo un dono dell’Amore di un Altro, percorre tutta la storia umana, anche quella del suo pensiero religioso e filosofico.

Lo scrivente, in aggiunta al contributo di Ortega/Blondet, offre qui alcune sue osservazioni.

Ad iniziare da quella, che da tempo egli va ribadendo nei propri contributi, relativa al legame profondo che unisce l’idealismo tedesco ad un certo olismo antico, occidentale ed orientale, per il quale la realtà è “maya”, ovvero illusoria manifestazione ed emanazione di un indistinto Uno che, frammentandosi, decade nell’oscurità, sempre più materiale, dell’essere e che deve essere “ricomposto” dal sé accedendo alla conoscenza, alla gnosi, della sua perfetta identità con l’Uno perduto che è all’origine. Identità obliata, nella caduta ontologica, ed ora nascosta dall’apparenza fenomenologica del mondo, della “maya”. Non è stato un caso se in Europa il Vedanta inizia ad essere conosciuto e diffuso proprio dal tardo settecento in contemporanea con l’affiorare del primo idealismo. Quando, da Kant in poi, l’idealismo tedesco assume lo spazio-tempo quale illusione, autocostruzione, della nostra mente, quindi come proiezione soggettivista, esteriorizzata, dell’io, che l’io deve annichilire onde riassorbire in sè e dominare, anzi creare, il reale a suo piacimento, esso non fa altro che tradurre nei termini della filosofia occidentale postcristiana l’olismo non cristiano dell’antichità extrabiblica. E se per le gnosi antiche il “risveglio” dal torpore della maya avviene iniziaticamente, per la modernità il dissolvimento dell’illusione oggettivistica spazio-temporale, onde rifare il mondo come meglio aggrada, avviene tramite la rivoluzione, la tecnica e l’economia libera da vincoli etici.

Per questi motivi, lo scrivente è convinto che la modernità ha un cuore profondamente premoderno e che solo la Rivelazione ebraico-cristiana (attenzione: non ci stiamo riferendo al giudaismo post-biblico!), enucleando un Plato christianus diverso dal Plato non christianus, ha potuto fare il “miracolo” di riportare le intuizioni veritative, che pur senza dubbio ci sono, dell’olismo extrabiblico alla loro vera radice primordiale ossia al Verbo che si è fatto carne. Quella carne, quella psico-corporeità, la quale, per l’appunto, è la nemica da sempre di un certo approccio gnostico che odia la materia, odia il mondo inteso come dono e creazione, e ne vuole la dissoluzione – per la liberazione auto-deificatoria dell’io dai limiti ontologici della creaturalità, dai limiti psico-fisici – nel Nulla di una mistica radicalmente apofatica e priva di svelamento ontologico. Ossia per la dissoluzione in un Divino Senza Nome, Anonimo, “A-Nomos”. Giustamente, Ortega/Blondet citano, quale rappresentante premoderno di tale atteggiamento, Meister Eckhart, del quale 26 proposizioni furono condannate. Egli, infatti, in alcuni passaggi dei suoi scritti, in particolare nei “Sermoni”, non ha salvaguardato sufficientemente la distinzione tra Dio e le creature, prestandosi ad una lettura panteista, proprio perché sfumava in modo eccessivo l’essere, per partecipazione, delle creature sicché il loro “nulla” rispetto a Dio assumeva il senso del nichilismo ontologico, ossia del non riconoscimento alle creature di una loro relativa, eppure certa, consistenza ontologica pur nella dipendenza ultima da Dio ed in Dio. Forse è per queste ambiguità che Eckhart piaceva tanto ai nazionalsocialisti, in particolare a quelli “esoterici”, perché, sì, sussiste un forte legame anche tra idealismo, occultismo romantico-teosofico ottocentesco, nazionalizzazione delle masse e nazismo. Il quale, cogliendone un significato profondo, quello stesso che forse affascinò Martin Heidegger, è stato definito da Hermann Rauschning la “Rivoluzione del nichilismo”.

C’è, tuttavia, un passaggio della brillante esposizione di Ortega/Blondet che non è possibile seguire ed è laddove essi imputano ad Agostino la radice dell’atteggiamento soggettivista dell’idealismo e, per tale via, fanno di Lutero un teologo fedele alla teologia agostiniana. Su questa linea, poi, il direttore Blondet, sulla premessa che Ratzinger è agostiniano, non coglie, a nostro giudizio, che proprio l’attuale Papa emerito è, invece, l’ultimo esponente, in senso temporale, di quell’altra Germania, della quale fece parte almeno in età giovanile anche Carl Schmitt, non kantiana, non idealista, che da secoli in terra tedesca si oppone alla deriva soggettivista.

Come ha dimostrato Theobald Beer (1), infatti, Lutero avversava, segretamente, Agostino ed era influenzato, piuttosto, dallo spiritualismo assolutamente apofatico riemerso con l’umanesimo ed in particolare con l’ermetismo. Lutero è stato un profondo lettore del Liber XXIV philosophorum, un’opera neoplatonica e neopitagorica attribuita allo pseudo-Trismegisto e, come tutto il “Corpus Hermeticum”, ricomparsa in Europa proprio nel XV secolo. La rottura luterana tra fede e ragione, ossia tra Dio e mondo, nasce da questa fonte ed a sua volta è stata una delle matrici dell’idealismo che, prima di Kant, è già in germe in un certo modo, quello ontologista, proposto da Malebranche, di leggere il  “cogito” di Cartesio. Lutero è stata l’essenziale premessa dell’idealismo perché solo separando ed opponendo Dio e mondo è, poi, possibile affermare che l’io, nel misconoscimento del Dio trascendente apofaticamente estraniato, per assenza di analogia entis, dal mondo, è “dio”, “dio a sé stesso”, padrone della “scienza del bene e del male”, e, quindi, che il mondo è una sua rappresentazione o, in modo ancor più abissale, una sua “potenza” fino alla Volontà di Potenza nicciana, che per il filosofo di Sils Maria è stata “castrata” per responsabilità del Cristianesimo, e fino a quello “Yoga della Potenza”, tantrico, che Evola, dopo, non a caso, la sua fase filosofica stirneriano-idealistica (quella dei “Saggi sull’idealismo magico” e della “Teoria e Fenomenologia dell’Individuo Assoluto”), ha posto agli inizi del suo percorso di “Rivolta contro il mondo moderno” che in realtà era l’apoteosi, in nuce già post-moderna, del moderno e che se di rivolta si trattava era quella contro la Rivelazione cristiana, in nome, per quanto riguarda il medioevo, di un confuso “ghibellinismo” debitore, in fondo, dell’“Imperialismo pagano” di Arturo Reghini.

D’altro canto anche da parte dei tomisti troppo spesso si dimentica il debito di Tommaso d’Aquino verso Agostino e Dionigi pseudo-Areopagita. L’Aquinate troppo spesso passa come un aristotelico cristiano e quindi come un realista assoluto. In realtà, prima e più di Aristotele, l’Aquinate fu profondo lettore e conoscitore (né poteva essere diversamente dato che è il principale Padre occidentale della Chiesa) proprio di Agostino. Alla radice della “Summa” di Tommaso d’Aquino c’è, insieme all’aristotelismo, il platonismo cristiano di Agostino d’Ippona. Non solo, tuttavia, Agostino, perché come si accennava Tommaso fu conoscitore ed utilizzatore anche del pensiero teologico-mistico di Dionigi pseudo-Areopagita, il quale sistemò in modo definitivo la ricezione cristiana di Platone, e secondo alcuni anche di Plotino e di Proclo (ma non tutti sono d’accordo su tale dipendenza dionisiana, ipotizzando invece un rapporto esattamente inverso, dai massimi esponenti del tardo-platonismo), tuttavia senza cadere – qui sta tutta la questione che distingue l’approccio cristiano da quello non cristiano a Platone – nell’idea gnostica per la quale il male sta nell’essere, negli enti creati, quindi nella materia. Per Dionigi, come per Agostino, gli esseri sono, cioè esistono, per partecipazione all’Essere Primo che contiene in Sé tutti gli esseri in modo archetipico. L’Essere Primo, Dio, ha tutti i Nomi e quindi non ha Nome non nel senso che sia Anonimo ma nel senso che Egli è Nome Infinito. Per questo Egli è Essere Infinito, visto catafaticamente, e Non-Essere, visto apofaticamente. Ma mai è solo l’uno o solo l’altro. Gli esseri sono uniti da una Gerarchia Celeste e la Luce percorre tutti i gradi di tale gerarchia fino ai suoi estremi sicché nulla di ciò che esiste è male, che pertanto non può darsi in senso assoluto ma soltanto relativo per quanto “denso”. Gli angeli ribelli sono l’esempio stesso di questa “relatività” del male in quanto essi esistendo partecipano comunque del Sommo Bene, dal quale come tutte le creature provengono, ma avendo rifiutato il Bene di Dio hanno scelto quella in ogni caso sempre parziale, e mai totale, mancanza di Bene che li volge al male. Quindi il male non è presente nella creazione, né negli animali irrazionali, né nella natura, né nei corpi. Il male non è presente nella materia. Esso è stato introdotto, nel senso parziale sopra indicato, dalla ribellione luciferina che ha sedotto anche l’uomo. Come si vede in Dionigi ed in Agostino già c’è  tutta l’inappuntabile sistematizzatore cristiana del platonismo che nel suo alveo ha distinto in modo fondamentale il “Plato christianus”, nel quale la corporeità dell’uomo e la materialità del mondo non sono degradazioni ontologiche ma perfezioni dell’Amore di Dio verso la creazione, destinate alla glorificazione futura. Ebbene, senza Dionigi e senza Agostino, l’Aquinate non avrebbe potuto pervenire a quella cristianizzazione di Aristotile che ha permesso di superare l’immanentismo tipico dell’aristotelismo come, ad esempio, quello di Averroé, di Avicenna e degli altri filosofi arabi medioevali sempre così in difficoltà – tanto che erano costretti a ricorrere allo stratagemma della “doppia verità” – nel conciliare lo Stagirita con la Rivelazione coranica che fa pur sempre riferimento al Dio trascendente della vocazione di Abramo.

Da quanto abbiamo testé detto circa le radici agostiniane e dionisiane dell’Aquinate è evidente che sarebbe ora per certo tradizionalismo, troppo legato ad una scadente neoscolastica (impari al tentativo leonino di riportare il tomismo alla sua più pura essenza) di smetterla, onde non tradire la grandezza di Tommaso, di imbastire inutili polemiche con certi autori, da Rosmini a Ratzinger, i quali, lungi dall’essere “ontologisti”, sono invece gli ultimi baluardi della Tradizione. Questa infatti non si identifica soltanto con la neoscolastica per quanto importante. Quando Augusto Del Noce definiva la modernità idealistico-soggettivista come un “agostinismo dell’interiorità senza la Grazia” evidenziava, per l’appunto, che Agostino non ha mai proclamato alcun soggettivismo – il “ Tu autem eras interior intimo meo et superior summo meo” (Confessioni 3,6,11) è infatti la tradizionalissima proclamazione della Presenza in interiore homine di Dio che è tuttavia superiore, quindi anche esterno, all’uomo: “Tu eri più interiore di me stesso alla mia interiorità e al di sopra delle realtà in me più alte” – e che il pensiero moderno, Cartesio, Kant, Hegel etc., non ha fatto altro che privare l’interiorità soggettiva del suo vero fondamento Esteriore Oggettivo, ossia l’Essere Auto-sussistente. La risposta ad Hegel richiede, secondo Del Noce, l’incontro di Agostino e di Tommaso, di metafisica platonica della partecipazione e di realismo gnoseologico. L’agostinismo liberandosi dall’ipoteca che su di esso ha steso, tradendolo, il cartesianesimo re-incontra la tradizione tomista, oltre le artificiose contrapposizioni tra filosofia dell’interiorità e filosofia dell’esteriorità che hanno contrassegnato il pensiero cristiano moderno. Di questo incontro è stato testimone nel XX secolo, con la sua opera,  Étienne Gilson, un filosofo “tomista agostiniano” (2).

Il soggettivismo moderno, idealista, ha separato l’interiorità soggettiva dal suo Creatore, ha separato il cuore dell’uomo dal Cuore di Dio. Del resto, basta leggere le “Confessioni” e la “Città di Dio” per comprendere che se ci fu un pensatore che, nell’antichità dei primi secoli cristiani, svolse una serrata critica agli gnostici ed ai platonici pagani in ordine alla realtà ed alla bontà del corpo umano, quindi della creazione, ossia dell’essere, che egli non identificava come gli gnostici ed i platonici pagani con il “male”, come se l’essere creato fosse di per sé il male, questi fu per l’appunto Aurelio Agostino d’Ippona. Da qui, da Agostino, poi partì, come abbiamo detto, la riflessione di Tommaso per “battezzare” l’aristotelismo, che ai tempi dell’Ipponate era stato dimenticato, come lo stesso Agostino aveva “battezzato” il platonismo. Ma sia l’uno che l’altro non fecero “scolastica” aristotelica o platonica ma rielaborarono alla luce della Rivelazione creando una nuova, una diversa ed altra, somma, filosofia radicalmente radicata nella Rivelazione biblica. Ed è per questo che quello cristiano, agostiniano-dionisiano-tomista, non è un realismo assoluto ma temperato, perché, conformemente, alla Rivelazione, ammette sia l’aspetto apofatico sia l’aspetto catafatico di Dio e quindi ammette, ad un tempo, la possibilità tanto della teologia negativa quanto della teologia positiva. Ovvero, in altri termini, ammette sia la (relativa) autonoma consistenza ontologica del reale oggettivo, sia la sua dipendenza da un Altro e pertanto la sua (relativa) nullità ontologica a cospetto di quest’Altro. Che, però, è Sommo Bene, Luce Eterna, Amore Infinito ed ha un Nome che contiene tutti i nomi ed un Volto Trascendente ora rivestito con la carne glorificata di Cristo.

                                                                                                    Luigi Copertino.

 

NOTE

1)      Cfr. T. Beer “Der frohliche Wechsel und Streit. Grundzuge der Theologie Martin Luthers” Johannes Verlag, Einsiedeln, 2, 1980. Si veda anche Ermanno Pavesi “Celebrare Lutero? Riflessioni sulla Riforma negli scritti giovanili di Lutero” (con una intervista al cardinale Joseph Ratzinger), D’Ettoris Editori, Crotone, 2017.

2)      Cfr. Massimo Borghesi, “Augusto Del Noce. Un pensatore non manicheo” in 30Giorni nella Chiesa e nel mondo n. 10/11, 2009. «Per Del Noce …  la crisi della Scolastica medievale non ha costituito un processo necessario per il semplice fatto che proprio colui che aveva intenzione di riformarla – cioè Cartesio – fu invece colui che in realtà la tradì e se ne allontanò: è nelle celeberrime Meditazioni metafisiche che il filosofo francese – allievo dei Gesuiti – tentò di riproporre una nuova prova dell’esistenza di Dio da opporre al naturalismo libertinista del Seicento, che predicava relativismo etico e che sostituiva il Dio-Logos con la Natura impersonale e senza ordine. In realtà però Descartes, nel suo sforzo apologetico, compì il definitivo tradimento della filosofia cristiana riattingendo ad un agostinismo privato di platonismo [ossia di Trascendenza che in termini teologici cristiani sta per “Gratia Dei”, nda] e considerando così le idee dei semplici “contenuti della mente”. In altre parole se l’idea di Dio, quantunque logicamente necessaria, non è il riflesso intellettivo di una realtà ontologica esterna al soggetto ma è una semplice struttura logica, allora vale realmente la critica kantiana della prova ontologica di Sant’Anselmo secondo la quale non è lecito aggiungere il predicato dell’esistenza alla perfezione dell’idea se non per un paralogismo. Del Noce in sintesi ha mostrato come il tradimento e la perdita della Scolastica, attuata innanzitutto da Cartesio, ha come punto centrale l’idea di Idea, che è passata ad essere da struttura del reale a struttura del razionale, passando quindi dal dominio dell’ontologia a quello della psicologia. Per questo non vi è alcuna spiegazione se non il rifiuto pregiudiziale di riconoscere uno statuto ontologico all’idea, cosicché non vi sarebbe appunto alcuna necessità di trapasso della Scolastica né tantomeno alcuna necessità di genesi del razionalismo; in tal senso la famosa critica di Kant varrebbe quindi solo contro Cartesio e non contro Sant’Anselmo, il cui platonismo gli permetteva ancora di inferire necessariamente la “perfezione” dell’esistenza dall’idea dell’Essere con ogni perfezione, cioè dall’idea di Dio. Del Noce prosegue la sua analisi mostrando quindi come in Cartesio, che pur nelle sue intenzioni voleva essere un defensor Fidei, già sussisteva in nuce ogni forma di illuminismo che avrebbe poi dominato nel Settecento, per questo egli parla di un pre-illuminismo cartesiano» (Da Wikipedia, voce Augusto Del Noce).