Cambiamenti climatici e femminicidio, sì; suicidio no. (Chi produce problemi sociali?)

                                                           di Roberto PECCHIOLI

 

La nostra società ha un sacco di problemi reali. Altri li ha inventati o enfatizzati per tornaconti, campagne ideologiche o interessi economici. La novità rispetto al passato è che una volta non c’erano tante persone interessate a ottenere denaro, potere e influenza attraverso i guai degli altri. Alcune campagne mediatiche di grande impatto, alimentate dall’alto e purtroppo credute dalla massa per coazione a ripetere , ingenuità e carenza di giudizio critico, si trasformano in cause programmaticamente “giuste”, cariche di significati morali – costruiti ad arte, beninteso – fino a determinare grandi cambiamenti dell’opinione pubblica, modifiche legislative e tutto quanto consente ciò che Thomas Kuhn chiamava cambio di paradigma, ossia la trasformazione , il vero e proprio rovesciamento, della percezione comune intorno a un problema, un fatto, vero o presunto.

Due casi ci sembrano emblematici: l’allarme per il cambiamento climatico e la grancassa relativa alla cosiddetta “violenza di genere”, cioè l’assunto secondo cui milioni di donne subirebbero costante violenza dall’altro sesso, costituito da predatori inclini all’abuso seriale.

Questi problemi attirano l’attenzione dei media con forza, generano veri e propri allarmi sociali, determinano fratture profonde nella comunità, modificano il comportamento elettorale di molti, come dimostra il rinnovato successo, specie nel Nord Europa, dei partiti e movimenti ambientalisti, una nuova generica pseudo sinistra creata dal grande capitale per i propri scopi di profonda ristrutturazione industriale, con una curiosa protagonista in parte inconsapevole, creata dal sistema di intrattenimento, la giovane pasionaria Greta Thunberg.  Altri fenomeni di grande disagio e drammaticità restano sullo sfondo, assenti dalle notizie gridate della TV. Le vittime restano prigioniere dei loro drammi. Pensiamo alle malattie mentali, alle dipendenze da droghe, alcool, gioco, sesso. Nessuno di queste tragedie ha un posto all’ordine del giorno della nostra società, inosservate tranne allorché capita di viverle in prima persona.

In una società dello spettacolo, dell’immagine e del consumo, non è la gravità di un problema che ne determina la visibilità sociale, ma elementi ed interessi non di rado inventati di sana pianta. In Italia e nei paesi avanzati, le due principali cause di morte violenta sono gli incidenti stradali e i suicidi. Le tragedie del traffico generano allarmi solo in casi eccezionali, il suicidio non sembra interessare alcuno. Nulla di così strano, in una società che, attraverso aborto ed eutanasia, ha concretizzato il “vivere per la morte “di Heidegger, ma la percezione sociale del fenomeno è nulla, come l’impegno per alleviare il fenomeno e le sue cause, confinate nei freddi numeri della statistica. Tutto ciò nonostante l’opera che inaugurò l’analisi sociologica sia stata Il Suicidio di Emile Durkheim, del 1897, in cui l’autore francese difese l’idea che il suicidio sia un fatto sociale, determinato in buona parte da cause sociali e per questo da analizzare con gli strumenti delle nascenti scienze umane.

Tutto sommato, nella società spappolata e assopita, neppure gli omicidi causano grande preoccupazione. In Italia, per fortuna, il tasso relativo è tra i più bassi del mondo, circa 0,80 per centomila abitanti, in calo costante da almeno un decennio. Nel 2016 gli omicidi furono 397. C’è però un sottoinsieme che innesca un allarme esorbitante tra i media e nella percezione comune da essi costruita, quello degli assassinii di per mano di mariti, compagni o ex. Quarantasei eventi nel 2016, intorno al 12 per cento del totale degli omicidi, le cui vittime sono per il 70 per cento uomini. I media non solo riportano con grande dovizia dettagli morbosi e dedicano enorme attenzione al fenomeno, per cui hanno inventato un vocabolo, femminicidio e per il quale invocano pene esemplari ed aggravanti “di genere”, ma tengono una dettagliata contabilità, tesa alla creazione di un’indignazione speciale. In nessun modo se ne può trascurare la gravità; sono tragedie terribili che distruggono vite, spezzano famiglie, producono effetti drammatici, ma se vi è tanta giusta indignazione per la perdita di vite per mano di un compagno rifiutato o tradito, perché gli omicidi di donne per altri moventi e le morti violente di uomini raggiungono una rilevanza mediatica tanto inferiore?

Perché alcune morti diventano problemi sociali colossali e altre cadono nella più totale indifferenza?  E’ tutta questione di costruire una storia, un impianto simbolico accattivante accolto dal sistema di informazione ed intrattenimento. Si tratta, direbbe Debord, di una forma di spettacolo, o, con il lessico di Lyotard, di elaborare una “narrazione”, un racconto che diventa verità indiscussa.

In Creare problemi sociali, i sociologi Malcolm Spector e John Kitsuse sostengono che la rilevanza che la società attribuisce a ciascun problema non dipende dalla sua gravità oggettiva, poiché ciò a cui il pubblico presta attenzione non è il problema in sé, ma la storia costruita intorno ad esso. La massa contempla solo la confezione, la “scatola ornata” con la quale alcuni gruppi organizzati la presentano. Pertanto è necessario analizzare il complesso procedimento attraverso il quale alcuni sollevano -o suscitano- determinati problemi, in competizione per catturare l’attenzione dei media, attirare gli occhi dei governanti e, alla fine, ricevere ingenti fondi pubblici, costruire nuove burocrazie, caste di veri o presunti “esperti” di servizio.

Molti propongono soluzioni a problemi concreti, ma non trovano l’attenzione dei media, tantomeno l’empatia del pubblico. E’ il potere a scegliere o addirittura costruire i problemi attorno ai quali orientare consenso o dissenso, indicando le soluzioni gradite. Lo rilevò Noam Chomsky elaborando le dieci regole della strategia di controllo sociale. La prima è la distrazione, la seconda consiste nel creare un problema e subito dopo offrire la soluzione. E’ il potere a determinare, scegliere e organizzare l’agenda delle questioni su cui polarizzare il consenso o il dissenso di massa, attraverso il controllo dell’apparato mediatico, culturale e di intrattenimento.

Esemplare è il caso dell’emergenza climatica, tema che suscita aspre polemiche tra gli specialisti, ma sul quale il sistema ha imposto la sua “narrazione” indiscutibile, lo storytelling ufficiale. Il riscaldamento globale è un dogma semi religioso, la sua causa scatenante è antropica, la soluzione è, guarda caso, la ristrutturazione industriale fatta pagare ai popoli e non ai vertici finanziari ed economici responsabili. Opportunamente, hanno “inventato” il fenomeno Greta e imposto la loro agenda, cambiando la mappa politica di alcuni paesi, depotenziando le forze della vecchia sinistra socialdemocratica e innalzando un ambientalismo di servizio, corrivo, costruito attorno a parole d’ordine di facile presa. Intanto, numerose altre criticità sociali vengono ignorate, poste ai margini o addirittura irrise, escluse dallo spazio pubblico.

L’esempio del suicidio è illuminante. In Italia, con gli incidenti automobilistici, è la principale causa di morte violenta, ma non vi è alcun dibattito sull’argomento, né vengono impiegate risorse, economiche e culturali, per alleviare il fenomeno. Secondo l’Istat, avvengono oltre 4 mila suicidi annui. Nel triennio 2011-2013, oggetto di indagini complete, si sono tolte la vita 12.877 persone, 10.065 uomini e 2.812 donne. Parliamo di almeno dieci casi al giorno, da cui emerge che solo nel 19 per cento dei casi il gesto era associato a uno stato morboso conclamato. Oltre l’80 per cento delle vittime non soffrivano di patologie particolari, vittime, in varia maniera, del “male di vivere”. La risposta del carrozzone ideologico del potere? Nessuna, anzi viviamo la devastante ideologia della “morte degna”, che, comunque mascherata, è un’apologia del suicidio.

Gli elementi obiettivi non contano nulla. Non raggiungono ripercussione e allarme sociale i problemi che coinvolgono più persone o gruppi sociali, o causano maggiori rischi, sofferenze e costi – morali e materiali – ma quelli che, per precise strategie di potere, interessi economici ed ingegneria sociale- riescono a avvolgersi in un racconto che emoziona o commuove, attraverso una retorica “illuminata” prodotta ad arte dal sistema di comunicazione con esempi estremi ai quali viene attribuita valenza generale. Maestro di tale comunicazione è il partito radicale, con campagne assai sostenute dai media, retorica incendiaria, esibizione di situazioni limite, costruzione di emergenze e mitologie sempre rigorosamente contrarie alla vita e alla legge naturale. Storie, in definitiva, capaci di attrarre, commuovere, ri-orientare le masse, proporre e poi imporre le narrazioni che interessano partiti, gruppi di pressione, lobby.

La corsa verso la costruzione dell’allarme sociale voluto inizia con un gruppo di attivisti che si lamentano di ingiustizie, torti subiti, condizioni discriminatorie o indesiderabili. Ovvero, attraverso la messa in guardia contro gravi pericoli per l’umanità. È la fase della rivendicazione. Alcune lamentele hanno una solida base, altre nessuna, ma inizia la gara. I promotori possono appartenere al gruppo sociale interessato, più spesso sono attivisti professionali. Presto si manifesta il ruolo degli esperti, che utilizzano la loro autorità per sostenere le soluzioni tratte dai rispettivi rami di studio. Agiscono talvolta in buona fede, ma in genere sono animati da interessi e pregiudizi, uniti alla propensione a sovrastimare l’importanza di se stessi e della loro disciplina, enfatizzando gli strumenti di cui si servono. Quando hai solo un martello, tutte le cose ti sembrano chiodi.

Se la causa è gradita al sistema, verrà imposta all’attenzione del pubblico, precostituendone le reazioni; il successo della narrazione favorirà gli interessi più torbidi, determinerà una pioggia di aiuti e sussidi, nonché la nascita di nicchie di potere.   Oggi coloro che vivono sugli studi di “genere” sono legioni: una nuova occhiuta casta che difende innanzitutto se stessa. I progetti di ricerca hanno maggiori probabilità di ottenere accoglienza, sovvenzioni, determinare folgoranti carriere, se fanno riferimento ai cambiamenti climatici, al contrasto al femminicidio o alla retorica filo omosessualista.

Questa è la realtà nuda e cruda. Per avere possibilità di successo, la denuncia, la narrazione devono inquadrare il problema in una cornice concettuale attrattiva per i media, sostenuta da una retorica elementare, teatrale, emotiva che tocca la fibra più sensibile ed immediata del pubblico. La trama deve contenere tre elementi essenziali: un gruppo di vittime omogeneo che scateni un’ondata di simpatia e muova alla compassione; un cattivo malvagio, persona fisica o gruppo, in cui la massa scarichi la sua rabbia; infine una soluzione concreta, per quanto assurda, che richieda l’intervento legislativo, la modifica della percezione popolare e, come no, l’erogazione di fondi pubblici.

Se è complicato il successo di un’operazione mediatica, non meno difficile è mantenersi nel cono di luce di un’opinione pubblica affamata di novità continue, incline alla saturazione. Con l’aiuto determinante del sistema mediatico e l’assistenza di chierici, occorre alzare continuamente l’asticella, elevare nuove denunce, costruire capitoli sempre nuovi del “racconto”, provocare ulteriori allarmi, evocare pericoli e ulteriori vittime, criminalizzare gli oppositori che negano il problema o lo pongono nella forma sgradita alla narrazione voluta.

Nonostante abbia falciato più vite di qualsiasi altra causa violenta, la tragedia del suicidio non riesce ad imporsi come fatto mediatico a causa della difficoltà di costruire una storia con un gruppo di vittime compatto e un colpevole a cui puntare il dito. I suicidi appartengono a gruppi diversi e le loro motivazioni sono troppo complesse, soggettive e profonde per essere ricomprese in schemi preordinati. La prevalenza di vittime maschili cozza con il politicamente corretto in cui gli uomini devono ricoprire il ruolo dei cattivi. Non è facile inventare un malvagio tipo Blofeld, l’arcinemico di James Bond o incolpare una sinistra Spectre. Lo stesso vale per la maggior parte degli omicidi: manca un cattivo credibile, un capro espiatorio da incolpare.

Al contrario, gli omicidi di donne per mano dei loro mariti, o partner sentimentali, sono stati avvolti in una narrazione con tutti gli elementi che destano attenzione e allarme. C’è una vittima universale, le donne intese come persona collettiva, uno o più carnefici, il maschilismo, l’eteropatriarcato e potenzialmente gli uomini tutti, quanto meno coloro che non si piegano ai postulati ideologici obbligati. La categoria “maschio”, cioè il 50 per cento dell’umanità, eccetto gli illuminati emancipatisi dalla loro condizione di carnefici naturali, è investita da un clima simile al concetto di “precrimine” introdotto nel film Minority Report. In un futuro ipertecnologico, gli omicidi non ci sono più grazie ad alcuni individui provvisti di poteri extrasensoriali di premonizione, i Precog, e la polizia impedisce i crimini prima che avvengano, arrestando colpevoli potenziali. In questo modo non viene punito il fatto – che non avviene- bensì l’intenzione di compierlo. Analogamente, la narrazione obbligata attribuisce tutte le morti alla medesima fonte, una sorta di destino malevolo dell’esemplare maschio della specie, assassino seriale potenziale dell’odiata “femmina”. Gli episodi criminali accaduti vengono accuratamente contabilizzati, il clima di allarme ed isteria alimentato ad arte, con ondate successive di indignazione, esposizione di vittime, ostentata analisi dei particolari.

Naturalmente, questo tipo di crimini esiste e va combattuto sin dalla prevenzione educativa, ma le soluzioni prospettate, l’inasprimento delle pene, fino allo stravolgimento di principi giuridici fondamentali (presunzione d’innocenza, uguaglianza di fronte alla legge) basate su presupposti ideologici, non risolvono o mitigano i problemi, ma ne creano di nuovi, ammettendo la perniciosa convinzione, da trasferire nei codici penali, che una discussione di coppia o un insulto vada trattata come un crimine e punita diversamente in base al sesso dei protagonisti.

Altrettanto, la chiave del successo delle teorie sul cambiamento climatico sta nella struttura narrativa diffusa dall’alto che attribuisce l’aumento della temperatura all’attività umana, escludendo le cause naturali. Costi, danni e pericoli sono identici in entrambi i casi, ma se l’origine fosse naturale, non ci sarebbe nessun cattivo da incolpare, nessuna ristrutturazione generale dell’economia e della società da mettere in conto ai popoli attraverso tasse, perdita di diritti, mutamenti di abitudini di vita. Il problema del riscaldamento del pianeta sarebbe rimasto un allarme ambientale simile alla pioggia acida o il buco dell’ozono, se non fosse per l’interesse geopolitico e strategico di ridurre la dipendenza dai carburanti fossili, con tutto quanto significa in termini di potere in aree come il Medio Oriente e il Venezuela, del cui destino nessuno si occuperebbe se la repubblica bolivariana non possedesse immense risorse energetiche.

Ciononostante, per restare ai primi posti dell’agenda e dell’immaginario comune, la mitografia del cambiamento climatico ha dovuto cercare nuovi elementi, caricarsi di inedite drammaticità, costruire personaggi simbolo come Greta Thunberg. Il pubblico, dopo l’iniziale ondata emotiva, si annoia delle notizie sull’innalzamento del livello degli oceani, e si rende necessario forzare l’immaginazione attribuendo anche la fame e le migrazioni ai cambiamenti climatici. Rinnovati o muori, e nella comunicazione mezzo e messaggio si sovrappongono.

La società umana soffre e continuerà a subire svariati problemi, alcuni drammatici, altri meno, alcuni inventati. La grande novità è che una volta non c’erano così tante persone che aspiravano a vivere di criticità sociali, conquistare potere, guadagnare influenza, fare soldi con le disgrazie altrui. Esistono cause giuste e altre che sono solo popolari, a insindacabile decisione dei livelli più alti dell’oligarchia. Deprivato del pensiero critico, sostituita la cultura con l’intrattenimento, la conoscenza con lo spettacolo, la convinzione con l’emozione, il gioco del potere riesce sempre, addirittura non desta neppure più sospetti nella maggioranza narcotizzata.

Un saporito pesce di scoglio, la boga – o buga- ha la disgrazia di non essere granché accorta e di cadere facilmente vittima dei pescatori. In Liguria c’è un detto, a proposito degli sciocchi: la buga abbocca.