ARGENTINA: UNA SPERANZA SOFFOCATA DI LIBERTA’ – PARTE PRIMA – di Luigi Copertino.

ARGENTINA: UNA SPERANZA SOFFOCATA DI LIBERTA’ – PARTE PRIMA – di Luigi Copertino.
gen 28, 2016

Questo nostro contributo tratterà della recente storia economica dell’Argentina ma con un fine che va oltre le vicende di questa Nazione. Il nostro fine ultimo è di dimostrare, attraverso quelle vicende, che oggi, nell’età della globalizzazione, non è possibile pensare che un solo Stato, o pochi soli Stati tra loro non coordinati, possano sconfiggere la forza egemonica e nichilista della finanza apolide e della speculazione criminale, i cui mezzi e strumenti di dominio e controllo sono appunto globali sicché ad essi non si può replicare con politiche “nazionaliste” a meno che i governi di difesa sociale e nazionale, laddove riescano ad imporsi, non mettano immediatamente in piedi una rete di concertazione e di coordinamento, almeno continentale, fino alla formazione di forme politiche confederali le quali, pur lasciando agli Stati nazionali un giusto alveo di autonomia identitaria, sappiano costituire un baluardo sovranazionale contro la finanza transnazionale. Un potere anticristico, quello finanziario, che tutti i popoli vuole marchiare con il suo segno senza del quale nessuno può più vendere o comprare (Ap. 13, 16-18).

Nel caso dell’Argentina il potere finanziario globale ha assunto, e non da oggi, il volto del potente vicino statunitense e nordamericano la cui egemonia sull’intero continente americano resta ancora inviolata nonostante le molte secolari ribellioni contro di essa.

Il nuovo governo liberista argentino, nato dalle recenti elezioni dello scorso autunno 2015, ha annunciato la riapertura delle trattative con i creditori internazionali che avevano tentato di strangolare di nuovo l’Argentina negli ultimi anni del governo della presidente Cristina Fernandez de Kirchner moglie del defunto leader neoperonista Nestor Kirchener.

I Kirchner sono stati gli esponenti dell’ala più a sinistra, quella “montoneros”, del peronismo ossia del nazionalismo sociale argentino. Il peronismo è stato determinante per l’intera storia politica dell’Argentina nel XX secolo, a partire dal 1945 quando il colonnello Juan Domingo Peron, il cui modello sociale di modernizzazione autoritaria a base popolare erano appunto i fascismi europei, e sua moglie la “mitica” Eva Peron, l’“Evita” le cui icone campeggiano ancor oggi insieme a quelle della Vergine Maria nella case popolari di Buenos Aires, assunsero il potere, in nome del “justicialismo” ovvero della “tercera posicion” (né capitalismo, né marxismo), riuscendo a liberare la nazione dal giogo coloniale anglo-americano, che l’aveva relegata ad esportatrice a basso prezzo di carne bovina e prodotti agricoli. Peron favorì la formazione in Argentina di una struttura industriale nazionale pacificando il conflitto capitale-lavoro con politiche interclassiste ma fortemente favorevoli ai lavoratori, ovvero alla massa di “capecitas nigras” o “descamisados” (gli scamiciati) che sostenne l’ascesa al potere del giovane colonnello messosi in mostra come ministro del lavoro dell’ennesima giunta militare al governo dal 1943 ed i cui esponenti più giovani, come appunto Peron, membri del GOU (Grupo de Oficiales Unidos) una organizzazione di ufficiali di ispirazione boliveriana, erano simpatizzanti del nazionalismo sociale europeo degli anni ‘30.

Pochi sanno che Ernesto Guevara de La Serna, meglio conosciuto come il Che, iniziò la sua carriera politica di rivoluzionario quale giovane militante peronista, o meglio della componente più a sinistra del movimento peronista: quella che poi diede vita al gruppo politico dei “montoneros” in opposizione all’ala più nazionalista e di destra la cosiddetta “Tripla A” (Alleanza Argentina Anticomunista) che, guidata dal massone Lopez Rega, riuscì a condizionare e deviare il governo dell’ormai vecchio Peron tornato in Patria nel 1973 dopo un lungo esilio durato dal 1955 quando un golpe militare – durante la “rivoluzione libertadora” sostenuta dagli Stati Uniti e dall’alleanza tra militari, conservatori, liberali e comunisti – lo detronizzò esiliandolo nella Spagna franchista.

La forza politica del peronismo, all’epoca di Peron come nei recenti anni dei Kirchner, è sempre stata nell’alleanza, che in Argentina si forma periodicamente, soprattutto nei momenti di crisi, tra la borghesia produttiva nazionale ed i ceti popolari. Anche nel 2003 quando i Kirchner – i quali appartenevano alla generazione dei peronisti di sinistra che maggiormente soffrì della repressione del regime militare di Videla (i “desaparecidos” erano in maggioranza costituiti da questi giovani peronisti oppositori del governo militare filoamericano e che, imprigionati e narcotizzati, venivano gettati, nottetempo, dagli aerei dell’esercito in pieno Oceano Atlantico) – ascesero al potere la borghesia nazionale impoverita dal default del 2001, conseguente alle politiche neoliberiste del peronista di destra Carlos Menem, si era riavvicinata ai ceti meno abbienti in una nuova solidarietà patriottica e sociale contro lo strapotere della finanza apolide e del Fondo Monetario Internazionale: “Patria o FMI” si scriveva sui muri di Buenos Aires durante le rivolte del 2001 contro il governo menemista.

I Kirchner, prima Nestor e poi sua moglie Cristina, hanno guidato l’Argentina negli ultimi 12 anni. Per merito del loro governo, dopo il default del 2001 causato principalmente dalla parificazione del pesos al dollaro americano nella convinzione tutta liberista che la creazione di un “vincolo esterno” e la rinuncia alla sovranità monetaria (la stessa ricetta applicata nell’UE attraverso l’euro) fosse la soluzione contro l’inflazione, l’Argentina è ripartita favorita anche dalla domanda internazionale di carne e prodotti agricoli che ha sostenuto l’esportazione delle materie prime agricole di cui il Paese è tra i principali fornitori.

Quella dei Kirchner è stata una politica di tipo keynesiana. Con forte attenzione alla domanda aggregata interna, controllo dirigistico del mercato, spesa pubblica di investimento. La povertà, anche grazie all’introduzione di una sorta di assegno familiare e di altre provvidenze sociali, diminuì in modo notevole, l’occupazione aumentò e l’economia argentina uscì dalla depressione nella quale Menem l’aveva scaraventata. Nel periodo kirchneriano furono arrestati, processati e condannati anche i principali responsabili delle atrocità del regime militare di Videla.

Per motivi di cui diremo tra poco, tuttavia, soprattutto negli ultimi anni della presidenza di Cristina Kirchner, succeduta al marito Nestor morto nel 2010, una nuova fiammata inflazionista non ha trovato da parte del governo una adeguata risposta. La formazione di un illegale mercato nero valutario ha fatto salire, a partire dal 2011, alle stelle la differenza tra il cambio ufficiale dollaro/pesos e quello clandestino: scambiato ufficialmente intorno ai 9 dollari, sul mercato nero il pesos viaggia a circa 15, subendo cioè una svalutazione del 40%. Vedremo come a questo hanno contribuito fortemente le mene speculative delle principali centrali finanziarie. Nell’ultima fase del periodo kirchneriano sono diminuite anche le riserve in valuta estera necessarie per pagare le importazioni e far fronte al debito estero. Queste nuove difficoltà hanno contribuito a sciogliere l’alleanza tra la ingrata borghesia, nel frattempo tornata a migliori condizioni di vita grazie alle politiche “stataliste” dei Kirchner, ed i ceti popolari. Mentre questi ultimi sono rimasti fedeli al governo peronista, la borghesia, che ora si crede di nuovo al riparo dall’usurocrazia internazionale, ha iniziato di nuovo ad essere affascinata dalle sirene neoliberiste.

L’uomo nuovo del neoliberismo argentino è Mauricio Macri, imprenditore (alcuni lo hanno paragonato a Silvio Berlusconi), vicino ai circoli finanziari nazionali ed internazionali, filoamericano e dichiarato simpatizzante della “rivoluzione libertadora” che detronizzò Peron. Egli ha vinto le presidenziali con un punto di scarto sul candidato peronista Daniel Scioli, quest’ultimo ufficialmente appoggiato dall’uscente Cristina Kirchner nonostante che fosse un esponente alquanto moderato del peronismo kirchrneriano.

L’elezione di Macri ha rappresentato una svolta per la politica economica dell’Argentina. Ben visto dai mercati finanziari internazionali, ha promesso l’immediata soluzione del contenzioso tra l’Argentina e i “fondi avvoltoio” ossia quegli hedge fund statunitensi che non hanno accettato la proposta del governo Kirchner per una soluzione equa e ragionevole per onorare il debito estero argentino accumulato da Menem. All’epoca delle suicide politiche liberiste di Carlos Menem, infatti, l’Argentina aveva contratto un altissimo debito con detti fondi speculativi. Un debito in pesos parificati al dollaro, quindi praticamente in dollari, moneta straniera che l’Argentina non controlla né stampa e che, per poter far fronte al suo debito, è costretta a procurarsi sui mercati internazionali valutari, comprandola dagli Stati Uniti, dal FMI o da chiunque possegga valuta o titoli finanziari nella divisa statunitense. Ma acquistare, alla pari, dollari dall’estero, mantenendo il cambio fisso con la valuta americana, significava, per l’Argentina, praticare di necessità una politica interna di rigida austerità finanziaria, con pareggio assoluto di bilancio e lacrime e sangue soprattutto per la popolazione più povera. Una politica, questa praticata all’epoca di Menem, che finì per impoverire anche la borghesia, portando il Paese al default ed alla fuga del governo menemista e del maggior responsabile del disastro ossia il ministro dell’economia Cavallo.

Il nuovo governo Kirchner, dopo aver sganciato il pesos dall’abbraccio mortale con il dollaro ed aver in tal modo riconquistato la sovranità monetaria per la nazione, riuscendo a far ripartire il Paese al ritmo di crescita del 7% annuo, propose ai creditori internazionali, ossia agli hedge funds, al fine di chiudere il contenzioso, il pagamento del debito al 70% ed in valuta argentina, ossia non più in dollari. Molti tra i creditori internazionali accettarono l’onorevole accordo proposto dal governo Kirchner. Il quale, pertanto, aveva depositato i capitali dovuti, in base all’accordo raggiunto, presso una banca newyorchese a disposizione dei creditori che avevano accettato la proposta e di quelli che lo avessero fatto successivamente.

Quella dell’Argentina dei Kirchner era una proposta equa se si considera che il debito era stato contratto in condizioni capestro per l’economia del Paese sudamericano. Un contratto, da un punto di vista squisitamente giuridico, evidentemente viziato dallo sbilanciamento nelle reciproche posizioni tra i due contraenti tale da costituire un tipico caso di eccessiva onerosità ab origine dell’accordo cui è del tutto legittimo rimediare mediante la dichiarazione giudiziale di rescissione contrattuale per, appunto, eccessiva onerosità. L’indebitamento dell’Argentina aveva seguito una logica usuraia perché la parte più debole, il debitore, era stato costretto ad accettare di indebitarsi con una valuta non corrispondente al reale valore della forza dell’economia argentina, quindi una valuta sopravvalutata, sicché ripagare sorte capitale ed interessi a queste condizioni comportava chiaramente un rapporto creditizio squilibrato e pertanto apertamente usuraico. Questo aspetto della questione va posto in forte evidenza per zittire le tesi moralisticamente ipocrite dei liberisti di turno che, di fronte alla proposta del governo Kirchner, gridarono allo scandalo imputando al governo argentino un comportamento eticamente scorretto come sarebbe quello del debitore che si sottrae ai suoi obblighi “liberamente e responsabilmente contratti”. Da un punto di vista etico ed insieme giuridico, non si vede proprio dove stava la libertà del popolo argentino, tradito dai suoi governanti liberisti illusi di fermare l’inflazione parificando pesos e dollaro, nel contrarre “responsabilmente”, dunque senza vizio giuridicamente rilevante nella formazione della volontà contrattuale, un debito al quale, se avessero avuto le giuste informazioni, i cittadini argentini si sarebbe opposti, come si opporrebbe qualunque buon padre di famiglia, non coartato o costretto da situazioni di estrema necessità, a fronte del ricatto di un usuraio di quartiere.

L’ipocrita logica che soggiace alla pseudo moralità biblico-calvinistico, priva, come tutto il settarismo protestante, di una autentica prospettiva cristiana, ha invece guidato la decisione del giudice statunitense Thomas Griesa – un tipico esempio della giurisprudenza conservatrice americana tutta improntata all’arcaico principio veterotestamentario, ma di origine assiro-babilonese e sumerico, “occhio per occhio, dente per dente” – il quale, chiamato a dirimere il contenzioso da alcuni fondi speculativi americani, che oltretutto non erano neanche i creditori originari avendo essi acquistato successivamente, da quelli, i titoli del debito argentino, ha condannato l’Argentina al pagamento integrale, al 100%, del suo debito estero ed in dollari americani, non in pesos, confiscando, presso la banca statunitense nel quale era stato depositato, il capitale messo a disposizione dal governo argentino per i creditori. Questa sentenza, dettata da un arcaico spirito vendicativo, spinse, naturalmente, i creditori che avevano già accettato la proposta transattiva del governo Kirchner a ripensarci ed a rigettare gli accordi, allineandosi alle pretese dei “fondi avvoltoio”.

Ci sarebbe molto da riflettere sul significato “sovversivo” che assume, in termini di diritto internazionale e di sovranità degli Stati, il fatto che attualmente un oscuro magistrato di un Paese straniero possa essere giudice, in modo oltretutto rovinoso ed iniquo, nel contenzioso in atto tra uno Stato sovrano ed alcuni potentati economici privati. Ma non è questa la sede per un tale approfondimento che, magari, rimandiamo a successivi contributi.

Il governo Kirchner non accettò l’assurda sentenza di Griesa, che avrebbe costretto l’Argentina a versare immediatamente un miliardo e mezzo di dollari statunitensi i quali, evidentemente, non erano nelle disponibilità del Banco Central Argentino a meno che non si fosse cambiata la politica sociale del governo nel senso della più rigida austerità.

Adesso, invece, il nuovo presidente liberista Mauricio Macri, dopo averlo annunciato in campagna elettorale, si accinge a riaprire le trattative con i fondi avvoltoio pur affermando di non voler umiliare il Paese. Egli spera di trovare con loro “il migliore accordo nell’interesse dell’Argentina”. Che è come sperare in un accordo all’insegna dell’onestà con Totò Riina.

Il media system globale, ossia la “Voce del Padrone”, già inneggia alla nuova Argentina impegnata a recuperare non solo la fiducia degli “investitori” (leggasi “speculatori”) ma anche quella delle istituzioni internazionali. Ad iniziare dal FMI. Il quale, dopo aver minacciato negli ultimi anni più volte di espellere l’Argentina, accusando il governo Kirchner di falsificare i dati economici del Paese nel tentativo di ufficializzare una inflazione al 14% mentre essa era intorno al 30% (accusa vera che mette a nudo uno degli errori politici compiuti dalla presidentessa Cristina Kirchner nel tentativo di dare una risposta ai problemi sorti a seguito del cambiamento dello scenario economico mondiale dal 2010 in poi), si è detto immediatamente disposto ad aiutare il nuovo governo Macri se esso ne avanza formale ed impegnativa richiesta, ossia se l’Argentina va a Canossa e fa atto di sottomissione. Nel mondo umanitario globale, infatti, non esistono solo i “nemici dell’umanità” presunti responsabili della destabilizzazione della Pace Mondiale – ossia dell’ordine imposto dalle potenze occidentali –, come i governi autoritari di difesa nazionale alla stregua di quelli di Saddam Hussein o di Gheddafi o di Putin, ma anche i “criminali economici” ossia gli Stati che si ribellano all’usurocrazia mondiale apolide.

Macri non appena insediatosi ha iniziato a rimuovere i controlli sui capitali e le restrizioni doganali e daziarie ad importazioni ed esportazioni a suo tempo introdotte dal governo Kirchner. Subito dopo ha svuotato di forza le “paritarias”, un organismo di tipo sindacal-corporativista che riunisce, annualmente, le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, in presenza di garanti pubblici, per contrattare il salario minimo aggiornandolo di volta in volta al costo della vita, all’inflazione ed alla crescita economica del Paese. L’intento è chiaramente quello di ridurre il ruolo di controllo e di mediazione dello Stato nei rapporti collettivi tra impresa e lavoratori, tra capitale e lavoro, lasciando che i due soggetti gestiscano di volta in volta, con la maggiore flessibilità possibile, la loro relazione secondo una ricetta di cui l’Europa conosce bene i risultati: contrattazione al ribasso per i lavoratori, precarizzazione, totale ricattabilità del lavoratore. Quindi, come terzo provvedimento, ha iniziato ad eliminare, almeno in parte, i sussidi alla popolazione più povera con la scusa che si trattava di espedienti elettorali dei peronisti.

Ma il provvedimento forse più significativo del nuovo corso liberista inaugurato da Macri è stato il ritorno alla libera fluttuazione del pesos che, quindi, svalutato del 30-40% ha riallineato il suo cambio con il dollaro sul prezzo reale di mercato.

Il governo di Cristina Kirchner infatti – messo alle strette dalla sentenza del giudice Griesa e dalla caduta della domanda internazionale di materie prime agricole e di carne le cui esportazioni in precedenza, nella prima fase 2003-2010 del governo peronista, avevano trainato l’economia argentina e messo a disposizione del Paese le necessarie risorse e riserve valutarie per le politiche di avanzamento sociale degli strati più poveri della popolazione – era ricaduto nello stesso sbaglio di Menem ossia quello di imporre un cambio rigido tra pesos e dollaro americano nel tentativo di fermare l’inflazione interna, ossia l’aumento dei prezzi sul mercato interno mentre crollavano quelli sul mercato estero.

Secondo alcuni economisti, in realtà, la parificazione valutaria effettuata dalla Kirchner non seguiva la stessa logica di quella effettuata ai tempi di Menem, dal momento che la nuova parificazione era invece intesa a reagire alle speculazioni che la finanza globale aveva messo in atto nel tentativo di aggirare ed abbattere il sistema di controlli sui capitali, imposto dal governo argentino per evitare le fughe di capitali e per sostenere le sue politiche sociali.

Infatti, tra l’agosto e il dicembre 2011 un fortissimo attacco speculativo ha colpito duramente le riserve valutarie argentine. Una voce diffusa, nell’imminenza delle elezioni presidenziali, dai media oppositori di Cristina Kirchner divulgò la falsa notizia per la quale la presidentessa si stava accingendo ad una mega svalutazione post-elettorale del pesos (si noti che questo uso mediatico di “rumors” allarmistici è uno dei più potenti strumenti a disposizione della finanza speculatrice per piegare popoli e governi: la crisi dei debiti sovrani europei esplose, nello stesso 2011, allorché l’allora presidente della Deutsche Bank diffuse, scatenando la tempesta degli spread, l’allarme sulla insolvibilità della Grecia e degli altri Paesi “Piigs”, tra cui l’Italia, che in realtà altro non era che una confessione dell’azzardo irresponsabile con cui le banche franco-tedesche avevano alimentato la spesa – attenzione: privata – dei Paesi sudeuropei a vantaggio delle esportazioni nordeuropee).

La falsa notizia sulle intenzioni della Kirchner determinò la fuga all’estero di quasi undicimila milioni di dollari. Il governo peronista, per fermare l’emorragia, introdusse rigidi controlli sui movimenti di capitali e sul mercato di valuta straniera, di fatto ristretto alle sole imprese e non più ai cittadini. Per aggirare questo provvedimento governativo la macchina della speculazione finanziaria e fondiaria (gestita da imprese multinazionali, banche estere come HSBC e grandi proprietari terrieri) decise di alimentare il mercato nero del dollaro, con quotazioni molto superiori di quella ufficiale che nel 2013 hanno portato a un crollo delle riserve ufficiali in dollari, passate da 42.000 milioni a 30.000 milioni.

Naturalmente i liberisti hanno applaudito alle manovre speculative della finanza apolide perché, a loro dire, esse sarebbero la dimostrazione dell’inviolabilità dello spontaneo meccanismo del libero mercato anche nel caso del mercato valutario. Diceva Ezra Pound che gli usurai sono tutti liberali anche se non tutti i liberali sono usurai. Infatti, i liberisti non si rendono conto che applaudire alle sporche manovre in nero della speculazione significa, in sostanza, affermare che il liberismo promuove l’illegalità e la delinquenza, dacché, se la “filosofia” che regge il mondo deve essere quella dell’assoluta libertà del mercato, allora anche le mafie sono benefiche e benemerite associazioni che operano, “legittimamente” secondo i canoni liberisti, nella misura in cui rispettano lo spontaneo gioco della domanda e dell’offerta nella concorrenza tra di esse.

                                                                                                                        Luigi Copertino

(continua)

dal sito www.domus-europa.eu