TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO di Luigi Copertino – quinta ed ultima parte

TRASCENDENZA, POLITICA E MERCATO 

Riflessioni teologico-politiche sulla Fede cristiana tra Stato, socialismo e liberismo  

Quinta ed ultima parte

 

Ripensamenti a sinistra?

A destra, nella destra anti-liberista sospesa tra tradizionalismo, socialismo e nazionalismo, continua a persistere l’obbrobrio delle pulsioni fondamentaliste, razziste, xenofobe ed isolazioniste, che sfigurano la stessa legittimità morale dell’identitarismo popolare e nazionale.

Come ha riconosciuto Massimo Cacciari, la cultura filosofico-politica più alta espressa dal novecento appartiene all’area della cosiddetta “conservazione rivoluzionaria” (basti pensare solo a qualche nome, da Carl Schmitt a Martin Heidegger, da Giovanni Gentile a Santi Romano). Ma a parte l’alto livello culturale dei pochi e grandi maître à penser della moderna destra rivoluzionario-conservatrice, gli ambienti militanti che ad essa si richiamano, affetti tanto al vertice che alla base da una atavica coltivazione dell’ignoranza storico-filosofica anche rispetto alle loro stesse radici culturali, riducono a “populismo plebeo” le istanze ed i problemi sollevati dai quei maître à penser, riproducendo esattamente lo scarto che negli anni trenta del secolo scorso, sia in Italia che in Germania, si registrò tra quella alta cultura e la prassi della mobilitazione di massa permeata dall’uso mitologico e mitopoietico di “idee forza” non meditate ed acriticamente accettate dall’opinione pubblica governata dal controllo mass-mediale (esattamente, del resto, quanto accade, specularmente, nei regimi liberal-democratici nei quali al pluralismo delle fonti mediatiche fa da contraltare una conformista ed acritica uniformità, fortemente propagandista, nella venerazione delle idee portanti dell’Occidente). La destra moderna si preclude ogni possibilità di ripensare in senso personalista e cristiano – come avevano auspicato negli anni ’30 persino Maritain e Mounier – l’eredità della cosiddetta “sinistra fascista”. Un’eredità radicata nel socialismo organicista e non marxista. Un lascito che, per via del suo panteismo antropocentrico, non è accostabile al Cattolicesimo e che tuttavia si è dimostrato, in alcuni importanti casi, suscettibile, nel cuore degli uomini che in tale contesto culturale si formarono, di una salvifica riforma “depanteizzante” (15).

D’altro canto manca quasi del tutto la presenza culturale e politica di una sinistra realista che sappia abbandonare la retorica individualista, e borghese, dei diritti civili soprattutto in campo bio-etico. La sinistra più intelligente, tuttavia, ha perfettamente compreso lo spazio che il magistero sociale cattolico assegna all’Autorità Politica anche nell’ambito dell’intervento in economia. Detta sinistra ha iniziato, da qualche tempo, un confronto con la prospettiva politico-sociale cattolica non più mirato alla concorrenza o all’egemonia, di modo da considerare i cattolici come massa di manovra subordinata ad ideologie estranee alla loro fede, ma con chiaro atteggiamento di rispetto ed anzi di proposta per una alleanza che si opponga al nichilismo dilagante. Fino, in certi casi, a rivendicare per se un filiale debito nei confronti del Cattolicesimo. L’uomo, come dimostra l’intera vicenda della sua storia compresa quella del comunismo realizzato, non è da solo capace di giustizia. Anche il comunismo si è rovesciato da promessa di redenzione umana in un inferno terreno. La consapevolezza di questa intrinseca umana debolezza, ad un tempo teoretica e sperimentalmente vitale,  ha spinto diversi intellettuali formatisi nel clima culturale marxiano ad interrogarsi su come colmare le aporie filosofiche del marxismo ed, a tale scopo, ad aprire un confronto con l’attuale Papa emerito Benedetto XVI (16).

Secondo Mario Tronti, infatti: « (la) contingenza attuale, … ci spinge ad affrontare le tematiche antropologiche con un’intensità prima sconosciuta. Si fa sempre più forte l’impressione di trovarsi al centro di una crisi che non è soltanto economico-finanziaria, ma che investe i legami sociali divenendo così crisi di civiltà e costringendoci a fare i conti con i processi di civilizzazione del passato. Penso, in particolare, alle forme più spinte di secolarizzazione, che hanno abbandonato l’uomo a se stesso e prodotto il deterioramento delle relazioni personali. Questa è l’“emergenza”  … (dalla quale si può uscire solo) … Tornando a intrecciare culture e sensibilità diverse, e più che altro spostando l’attenzione su questi temi dall’ambito cattolico, dove hanno da tempo una centralità riconosciuta, a quello della sinistra, che invece li ha troppo a lungo trascurati. Nei miei studi ho sempre cercato di rifarmi all’orizzonte della teoria e della filosofia politica. Poi, negli ultimi decenni, anche grazie ad alcune esperienze (il laboratorio della rivista “Bailamme”, gli incontri presso l’eremo camaldolese di Monte Giove), mi è parso di capire che la crisi della politica non si risolve con le ragioni della politica. Da qui il mio interesse per la teologia politica (…). Più che altro parlerei di una forte subalternità (della sinistra) al clima dominante in tutto l’Occidente. Già la visione imperniata sull’homo oeconomicus  ci consegnava un’umanità dimezzata, contro la quale il movimento operaista proponeva l’affrancamento del lavoratore dai macchinari. Adesso, con l’avvento dell’homo technologicus, questo stesso asservimento si compie in maniera più subdola, provocando un’ulteriore riduzione di umanità. Nel frattempo le ideologie si sono disperse, ci siamo persuasi di vivere dopo la fine della grandi narrazioni e ci siamo assuefatti a una narrazione che esiste purtroppo da molto tempo: quella per cui il mondo non è trasformabile e l’uomo deve limitarsi ad aderire allo status quo. Il risultato è un diffuso sentimento anti-ideologico, figlio a sua volta di certe utopie degli anni Sessanta. Le coscienze cambiano, questo sì, ma in modo solo istintivo, secondo i dettami delle culture radicaloidi e falsamente libertarie, per cui non esiste altro diritto che non sia il diritto dell’individuo. La sinistra non è stata capace di contrastare questa deriva che, cancellando il limite, vanifica anche ogni legame con la collettività. Ed è a causa di questa incapacità che la sinistra italiana oggi è poco riconoscibile a livello popolare: riscuote consenso presso quel che rimane del ceto medio riflessivo, ma ha perduto il contatto con le grandi culture popolari ancora vive nel nostro Paese. (…).Al di là delle formulazioni giornalistiche (e “marxisti ratzingeriani” è un’etichetta molto efficace, lo ammetto) resta la volontà, da parte nostra, di richiamarci a un’idea di sinistra forte, consapevole delle sue ragioni e proprio per questo capace di confrontarsi con culture diverse. Quanto a Benedetto XVI, mi pare che la lettura corrente, per cui questo sarebbe un pontificato “conservatore”, costituisca un completo travisamento del pensiero del Papa-teologo. Centrale, in Ratzinger, è la necessità della dimensione pubblica dell’esperienza di fede. Anziché accontentarsi dei luoghi comuni, le culture della sinistra dovrebbero semmai sollevarsi a questo livello e accettare il confronto sul terreno dei “princìpi irrinunciabili”. Ma il problema viene da molto lontano e ha la sua origine nel pensiero dello stesso Marx. Eppure più passa il tempo, più ci si rende conto che qualsiasi esperimento di trasformazione della realtà non può prescindere dall’elemento spirituale presente in ogni essere umano. Per come la vedo io, c’è un legame strettissimo fra trascendenza e rivoluzione, a patto ovviamente di intendere quest’ultimo termine nella sua portata più vasta».

Qui Tronti coglie il nocciolo duro del problema. La critica conservatrice a Marx contesta l’affermazione del filosofo tedesco per la quale l’epoca in cui la filosofia si limitava a contemplare il mondo avrebbe dovuto cedere il passo a quella nella quale la filosofia opera la trasformazione del reale. Questa assertività faustiana presente nel pensiero marxiano ha fondato la “filosofia della prassi”, impregnata di storicismo ma anche dello stesso antropocentrismo prometeico che è alla radice del pensiero borghese, soprattutto nella sua espressione liberale. Ma va riconosciuto che l’idea che il mondo sia non solo da contemplare ma anche da trasformare, eliminandone il male introdottovi dal peccato originale, è di chiara origine biblica. Marx amputandone la radice trascendente ha preparato la strada per il fallimento della speranza in una trasformazione del mondo, la quale non può che essere strettamente connessa alla trasformazione, per Grazia, del cuore umano. Il Paolo che rimanda lo schiavo fuggitivo al suo padrone cristiano, ingiungendo a quest’ultimo, quale dimostrazione dell’avvenuto suo cambiamento in interiore homine, di trattare con carità il fuggiasco, prepara la strada, certo storicamente difficoltosa ed irta di ogni sorta di resistenze, ricadute ed ostacoli, per la liberazione degli schiavi e l’abolizione stessa della servitù, senza necessità di violenza rivoluzionaria. E’ in questo che si svela il legame strettissimo tra trascendenza e rivoluzione, nella sua portata più ampia possibile, al quale faceva riferimento Tronti. La critica conservatrice a Marx se da un lato coglie perfettamente il luciferinismo faustiano del suo antropocentrismo ateo, dall’altro però rimane dimezzata rispetto al potenziale spirituale, e quindi conseguentemente anche sociale, di trasformazione dell’umanità e del mondo insito nella fede cristiana in Dio che opera questa trasformazione agendo nel cuore degli uomini disposti ad aprirsi al Suo Amore.

Ecco perché, ad integrazione delle riflessioni di Mario Tronti, il cattolico Vittorio Possenti, dal canto suo, non esita a porre in evidenza che i “marxisti ratzingeriani”, per essere conseguenti, devono osare anche l’ultimo, indispensabile, passo. «È vero – afferma Possenti –, oggi c’è una crisi che affiora in emergenza, ma che è precedente rispetto ai fenomeni che stiamo vivendo. Per un certo periodo l’umanità ha tentato di fondare le ragioni della propria convivenza su una specie di accordo sociale e contratto morale, che ha avuto il suo momento più fortunato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un documento importante di questa temperie è costituito dal discorso che Jacques Maritain pronunciò a Città del Messico nel 1947, in occasione della prima Conferenza generale dell’Unesco: nelle parole del pensatore francese è chiaro che, a dispetto delle diversità presenti anche nel dopoguerra, è possibile conseguire un accordo pratico sui valori fondamentali, che poggiano da ultimo sul concetto di dignità della persona. Negli ultimi sessant’anni il presupposto stabilito da Maritain, e di fatto sancito dalla Dichiarazione universale, è venuto almeno in parte a cadere. Oggi come oggi siamo costretti a registrare il fallimento di ogni tentativo di costruire un’etica pubblica condivisa che si fondi su istanze di tipo esclusivamente etico-politico. Se davvero si vuole trovare un minimo comun denominatore, occorre fare un passo indietro e attestarsi al livello antropologico, l’unico che riesca a offrire un fondamento affidabile per affrontare le grandi questioni di questo momento. (…) anzitutto l’economia, che dall’epoca di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha operato mediante lo slegamento assoluto delle leve finanziarie, riducendo la stessa politica a una variabile dipendente del capitalismo finanziario. Ma la partita decisiva si gioca nella gestione della vita (la cosiddetta biopolitica), dove ci si confronta con un progresso scientifico-tecnologico a fronte del quale perfino l’etica appare insufficiente. Quando dobbiamo stabilire come trattare l’embrione umano, dobbiamo anzitutto stabilire se ci troviamo davanti a un grumo di cellule o davanti a una persona. A secondo della posizione antropologica che assumiamo, le conseguenze morali sono molto diverse e addirittura conflittuali. (…). Mi trovo in piena sintonia con (l’) … analisi (di Tronti), specie per quanto riguarda le osservazioni sulla mancata dimensione popolare della politica nostrana. A partire dagli anni Ottanta si sono innescati diversi processi che hanno condotto a operare tagli dolorosi e, per così dire, trasversali rispetto alle culture dell’esistenza proprie del popolo italiano. In generale, si è smarrito il senso di un’appartenenza comune, anche per effetto di un bombardamento mediatico che ha fatto perdere di vista molti riferimenti tradizionali. La piazza pubblica si è pertanto ritrovata nuda di alcuni presupposti esistenziali e dominata al contrario da un discorso vacuo, poco attento alla vita reale delle persone e dei gruppi sociali. Purtroppo, come osserva … Tronti, la politica non è bastata a se stessa e al posto del bene comune è sopraggiunta una spudoratezza che fa quasi rimpiangere la stagione di Tangentopoli. Ma anche questo è un effetto della mentalità corrente, per cui esiste solo il singolo, qui e ora, e viene abbandonata ogni preoccupazione per gli altri, per il domani. (…). Con una responsabilità ben precisa della cultura radicale, che punta a esaltare l’essere umano in quanto individuo, con l’obiettivo dichiarato di tutelarne i diritti, ma senza operare più alcuna distinzione tra diritti, pretese e desideri. La sinistra si è lasciata contaminare da questo atteggiamento, arroccandosi su una difesa dei diritti che trascura ogni riferimento ai doveri. Del resto, anche la cultura liberale ha mostrato la sua insufficienza, concentrandosi unicamente sul diritto di libertà. Il che è molto, ma non tutto: il diritto al lavoro, per esempio, non è un diritto di libertà, né lo è il diritto alla vita. È su questa base di realismo che occorre tornare a riflettere su quelli che, personalmente, preferisco chiamare i “princìpi irrinunciabili” su cui poggia la dottrina della Chiesa. (…). Nell’enciclica “Spe salvi” Benedetto XVI ha invitato a riconsiderare la vicenda degli ultimi secoli come il tentativo di fondare un “regno dell’uomo” nel quale non vige più una speranza di tipo teologale. Nell’Ottocento anche il movimento socialista ha fatto la sua scelta, abbracciando il materialismo storico di Marx ed Engels come garanzia di scientificità, vale a dire come dottrina che risolve (e che sa di risolvere) il mistero della storia. Questa illusione ci costringe oggi a vivere in un campo di realtà molto ristretto, nel quale hanno valore solo meccanismi di facile presa, come quello che ha trasformato l’etica economica in etica universale. Per superare questa visione accorciata dell’uomo e della società occorre riaprire molto porte e molti spazi. Un’etica condivisa, a questo punto, non è più sufficiente. Occorre un umanesimo condiviso. Un’antropologia che si ponga l’obiettivo di superare l’emergenza, appunto».

Per i “marxisti ratzingeriani”, dunque, l’aspirazione alla liberazione umana coltivata dalla ricerca filosofica laica e la soteriologia cristiana hanno lo stesso nemico. Un nemico che, nell’esito nichilista dell’immanentismo nel momento del passaggio dalla modernità alla post-modernità, sta tentando di sottrarre il dato antropologico comune, costituito dalla “natura umana”, che tiene unite la ricerca filosofica e la fede nella Rivelazione. Per questo, per la chiara avvertenza di questo comune nemico, gli intellettuali in questione, come Tronti, si sono detti disposti ad un più approfondito confronto, non pregiudizialmente chiuso alla Trascendenza, quindi non più simulatorio come in passato, con la prospettiva di chi accoglie la Rivelazione. Per prima cosa essi ritengono assolutamente necessario tornare a definire cosa è e cosa non è “natura umana” perché senza questo dato comune non è possibile alcun dialogo. Tuttavia non si tratta di ridefinire ex novo chi è l’uomo dal momento che questi intellettuali rivendicano, per dare all’uomo un volto, l’idea classica di “humanitas”: quella stessa che la fede cristiana ha rielaborato, perfezionato e completato e che successivamente, però, il pensiero moderno ha indebolito per averla disconnessa dalla Trascendenza.

Conseguenze di una riflessione ormai non più rinviabile

Nello sforzo per impostare un confronto come quello cui si è accennato, Mario Tronti, al netto di una persistente e distonica rivendicazione della “kantiana auto-legislazione dell’uomo” nel quadro di una soggettività esistenzialista, ha convenuto, in piena sintonia con il patrimonio spirituale, antropologico e sociale del Cattolicesimo, che: «La persona non è l’individuo. La persona è quello che l’individuo non potrà mai essere: legge soggettiva dell’esistenza e legge spirituale della libertà. Realizzazione dell’ideale kantiano dell’autolegislazione dell’essere umano. Come la modernità è stata occupata dal modo capitalistico di produzione e di scambio, così il soggetto moderno è stato occupato dalla figura dell’homo oeconomicus. La persona, al contrario, è sostanzialmente homo politicus. Però, questa formula – homo – risulta oggi largamente insufficiente. Persona è concetto capace di tenere, dentro di sé, la differenza del maschile e del femminile, differenza che bisogna assolutamente conquistare e trattenere. Mai persona può essere soggetto neutro, come di fatto è l’individuo» (17).

Senza nasconderci la persistenza in Tronti di un certo umanesimo tautologico, ossia non disposto ad un immediato riconoscimento delle radici dell’umano nell’Imago Dei impressa nella natura più intima dell’uomo, è innegabile in lui un avvicinamento al clima culturale del personalismo comunitario della tradizionale cultura politica cattolica, soprattutto laddove egli, contro l’anonima androginia annichilente propria del concetto astratto di individuo, richiama la sessualità della persona quale fondamento sicuro, come da Rivelazione biblica, della socialità originaria dell’uomo, dalla quale deriva la stessa politicità naturale del genere umano.

Stefano Fassina, economista laburista, ha dedicato i suoi sforzi a fissare i punti fondamentali di un “neo-umanesimo laburista”, che superi lo stesso concetto meramente produttivistico ed economicistico del lavoro, nel solco della “Caritas in Veritate” di Benedetto XVI alla quale egli riconosce la più lucida capacità di analisi degli errori neoliberisti attualmente presente sullo scenario intellettuale.

Inseguendo il magistero sociale pontificio, Fassina scrive, citando un documento politico alla cui elaborazione egli ha contribuito, che: «Negli anni venti del secolo scorso alcuni economisti avevano già messo in guardia dal dare eccessivamente credito, in assenza di regole e controlli, a quelle teorie oggi divenute ideologie e prassi dominanti a livello internazionale. Un effetto devastante di queste ideologie … è stato lo scoppio della crisi nella quale il mondo si trova tuttora immerso. Benedetto XVI, nella sua enciclica sociale, ha individuato in maniera precisa la radice di una crisi che non è solamente di natura economica e finanziaria, ma prima di tutto morale, oltre che ideologica. Sono valutazioni impegnative. Stupisce l’assenza di commenti ad esse nel dibattito di politica economica … sopratutto da quanti si considerano più attenti alle riflessioni del pontefice. Sono valutazioni di rilevante portata politica. Infatti, data la logica di funzionamento “riconosciuta” dal paradigma liberista, è evidente lo status ancillare della politica. (…). (Nella concezione liberista) Il bene comune è il prodotto naturale delle forze economiche. E’ evidente, quindi, che la “polis” può essere governata al meglio dalla tecnocrazia. E’ evidente che se il bene comune è il risultato della massimizzazione di utilità strettamente individuali, ossia di interazioni di individui senza legame sociale (“la società non esiste”, proclamava a metà degli anni ottanta miss Thatcher), la politica è strumentale all’economia. E’ evidente che la politica è sostanzialmente inutile o finanche dannosa perché introduce principi morali, ossia di inefficienza, nella fisiologia perfetta ma strettamente economica della società. E’ inevitabile, pertanto, la negazione alla radice dell’intervento pubblico a qualunque finalità. In particolare, per correggere le disuguaglianze (…). Ed è conseguente la necessità di interpretare e giustificare la disuguaglianza come prodotto esclusivo dell’impegno individuale e della dote naturale di ciascuno. Le condizioni familiari, sociali, territoriali, di genere non rilevano. La remunerazione di mercato, senza distorsioni di welfare o sindacali, consente di riconoscere la produttività di ciascuno. Correggere la disuguaglianza implica perdere produttività, quindi ricchezza. Quindi, meno benessere per tutti, poiché l’altro assunto forte della matrice neo-liberista è il principio del “trickle down”, la legge dello sgocciolamento: lasciate arricchire i più ricchi, in quanto più ricchi sono, evidentemente, i più produttivi, così la torta aumenta e fette più ampie arrivano a tutti» (18).

Fassina si riconosce debitore dell’antropologia cristiana, ossia personalista e comunitaria. Egli, che non è certo teologo, non richiama espressamente l’esplicito fondamento ontologico della persona nell’Imago Dei. Tuttavia questo richiamo si avverte, implicitamente, in forma sottesa nel suo pensiero. Fassina avverte chiaramente che senza tale fondamento qualunque umanesimo, laburista o meno, diventa soltanto affermazione di una falsa autosufficienza e di un tautologico prometeismo. Partendo da questo sotteso riconoscimento pre-opzionale della dimensione spirituale e personalista dell’uomo, Stefano Fassina ricalibra, in senso appunto cristiano-personalista, il percorso della sinistra fin troppo abbagliata, in passato, dai concetti astratti della classe e della lotta di classe.

«Per affermare – egli scrive – l’antropologia della persona che lavora è decisivo il principio di solidarietà. Come riconoscono Böckenförde e Bazoli in “Chiesa e capitalismo”, il principio di solidarietà deve essere principio ordinante, definitorio. Per essere tale, non si può affermare secondo una logica auto-corretiva, alimentata da una spinta morale, o almeno non soltanto. E’ necessaria la ricostruzione di una eticamente autonoma funzione e posizione del lavoro. E’ necessaria una soggettività politica culturalmente autonoma del lavoro. E’ necessario riabilitare, fuori da ogni impianto culturale antagonista, la categoria del conflitto sociale … come strumento possibile, non fine a sé stesso, per il riconoscimento, l’incontro e la promozione della cooperazione tra interessi diversi. Attenzione: persona che lavora. L’innovazione lessicale segnala una discontinuità culturale decisiva. La persona che lavora non è sul piano culturale ed etico il lavoratore o la lavoratrice. Qui segue una discontinuità rispetto alla tradizione socialista, socialdemocratica, laburista o comunista italiana del movimento operaio. Un ventaglio di tradizioni decisive per l’emancipazione dell’uomo nel corso del Novecento, ma un ventaglio di tradizioni concentrate sulle relazioni economiche e sociali della persona, non sulla sua irriducibile unicità. Era la “classe operaia”, l’“operaio massa”, l’aggregato sociale di riferimento. Non la persona che lavora» (19).

Certamente Fassina non nega che anche oggi sussiste un conflitto tra capitale e lavoro, che deve risolto nella giustizia e nella cooperazione solidale nel reciproco bene comune, e che dunque se non le classi perlomeno i ceti hanno ancora una valenza e vitalità sociologica, nonostante ogni liquidità postmoderna, se non altro perché essi, pur nella mobilità sociale oggi più dinamica di un tempo, dunque più liquida, comunque tendono a formarsi e riformarsi lungo la china degli interessi, anch’essi nel postmoderno soggetti a frenetiche variazioni. Tuttavia, come si è visto, egli non esita, in prospettiva personalista, a sollevare la questione se la Giustizia è una dimensione etica avulsa dal Politico, quindi consegnata alla pur nobile adesione del singolo, oppure se essa investa e si riveste anche di una propria intrinseca, naturale, politicità.

Giovanni Paolo II richiamava l’attenzione sul rischio di burocratizzare la solidarietà nelle procedure meramente amministrative e fredde dello Stato moderno con il suo apparato anonimo ed impersonale. La riflessione cristiana, sin dai tempi di Agostino, si è sempre interrogata sui nessi intercorrenti tra la “Giustizia” – ossia la dimensione etica strettamente connessa alla pur preponderante ed escatologicamente prevalente Misericordia Divina – ed il Politico, riconoscendo che quest’ultimo avulso dalla prioritaria dimensione della Giustizia rischia di diventare arbitraria tirannia. Ma, in tal modo, la riflessione cristiana ammette, sulla scorta della stessa Rivelazione divina, che il nesso tra Giustizia e Politico si da e deve darsi affinché persino l’amore nobilmente alimentato dalla spinta morale del singolo trovi il suo spazio anche politico, quello nel quale la politica è chiamata, se davvero vuole corrispondere alla sua vera natura, ad introdurre “principi morali … nella fisiologia strettamente economica della società”, senza affatto perdere la spontaneità della motivazione spirituale che sgorga dal cuore orante della persona singola in relazione comunitaria con gli altri.

Perché alla fine la domanda che rischia di restare senza alcuna risposta nella sequela dell’ordoliberalismo è quella che abbiamo già posto, sopra, ossia se è mai possibile inverare, qui ed ora, quell’amore del prossimo più che di sé stessi che è il modo di amare di Cristo. Domanda alla quale segue l’altra ovvero se è possibile che l’amore del prossimo abbia anche una ricaduta politica ossia nello spazio della vita associata secondo i legami naturali che, proprio perché naturali, rimandano inevitabilmente ad un “Oltre” che, appunto, è l’Alfa e l’Omega di ciò che davvero muove, nell’intimo, il cuore umano. Che, tuttavia, resta sempre libero di restare indifferente o di negare quell’“Oltre”, accettandone ogni tragica conseguenza della sua libera scelta.

Infatti non riconoscendo «… la grandezza della persona in sé stesso e nell’altro, l’uomo di fatto si priva della possibilità di fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui Dio lo ha creato. E’, infatti, mediante il libero dono di sé che l’uomo diventa autenticamente se stesso, e questo dono è reso possibile dall’essenziale “capacità di trascendenza” della persona umana. L’uomo non può donare se stesso ad un progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso ad un’altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che è l’autore del suo essere ed è l’unico che può pienamente accogliere il suo dono. E’ alienato l’uomo che rifiuta di trascendere se stesso e di vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità umana, orientata al suo destino ultimo che è Dio. E’ alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono ed il costituirsi di questa solidarietà interumana» (“Centesimus Annus”, n. 41).

Ripensamenti liberali

Non sono solo le migliori intelligenze della sinistra a tentare un recupero della lezione del personalismo comunitario cattolico. Anche i conservatori di matrice “ordoliberalsocialista” come un Giulio Tremonti sono tornati a rivendicare alla propria attuale prospettiva intellettuale e politica quella lezione. Rispondendo al liberal-conservatore Angelo Panebianco, sul Corsera del 17 marzo 2009, Tremonti lamenta che, a causa della globalizzazione, alla eccessiva crescita della forza bruta del mercato abbia corrisposto, a danno dei più deboli e della comunità umana, una simmetrica decrescita della presenza e del ruolo dello Stato. Questa deficienza ha costituito il presupposto per il fallimento del libero mercato e, quindi, per un nuovo intervento, sussidiario, di salvataggio da parte dello Stato. Senza però, come invece accadde dopo il 1929, che si sia messa in opera alcuna complessiva nazionalizzazione delle banche e delle assicurazioni responsabili del nuovo “grande crollo”, o almeno che si sia provveduto a deporre il managment irresponsabile e speculatore, per sottoporre a stretto controllo pubblico i movimenti di capitali e l’intero sistema finanziario. Questo, per Tremonti, ha comportato, in Italia forse più che altrove, la fuoriuscita del pendolo dal quadrante del diritto e perfino dello Stato di diritto di matrice liberale. Con la conseguenza dell’aggravio del debito pubblico, tanto vituperato quando si tratta del Welfare e tanto invece agognato dagli stessi laudatori del libero mercato quando si tratta di salvare banche ed assicurazioni compromesse con le pratiche speculative.

«Caro Direttore, – scrive Tremonti – ho letto e davvero con grande interesse l’illuminante articolo di Angelo Panebianco pubblicato  …  sul Corriere della Sera sotto il titolo ”Il mercato nell’angolo”. Appena un anno fa il centro del libero mercato era negli Usa, il centro del libero mercato degli Usa era nella borsa di Wall Street, il centro di Wall Street era fatto da titoli bancari e finanziari. Oggi questo centro — il centro del centro del centro — non è più a Wall Street ma a Washington. Non è più nelle mani del mercato, è nelle mani dello Stato. Dall’inizio della crisi ad oggi, la mano dello Stato si è infatti mossa in salvataggio di più di 400 banche e finanziarie Usa. Fatti due conti, viene fuori una media di 5 interventi alla settimana, 1 ogni giorno lavorativo. E non solo banche e finanziarie: compagnie di assicurazione ed aziende automobilistiche, i mutui delle famiglie ed in prospettiva le pensioni di tanti americani. In giro per il mondo, non è molto diverso. E non è molto diverso neppure in Europa, dove le banche salvate con denaro pubblico sono finora state 33. Tutto ciò non è stato e non è perché lo Stato ha trionfato, ma perché il mercato ha fallito. Anzi, per la verità, è perché hanno fallito tutti e due, tanto il mercato, quanto lo Stato. Il mercato ha fallito per eccesso, lo Stato per difetto. Perché questo doppio fallimento? Perché, con la globalizzazione, mentre cresceva la forza del mercato, configurato come il fondamento di una nuova religione terrestre, decresceva simmetricamente la forza dello Stato. Via via che con la globalizzazione cresceva la forza dell’economia, lo Stato rinunciava ad esercitare una delle sue funzioni sovrane: rinunciava al monopolio nel battere la moneta. Nell’età della globalizzazione anche le banche private potevano infatti battere, e perciò battevano la loro moneta. Una moneta addizionale che prendeva forma nei più incredibili strumenti finanziari. Una moneta fondata sul debito e perciò stampata sul nulla. È così che la moneta cattiva ha via via sovrastato la moneta buona. Ed è proprio nella implosione di questa nuova e privata massa monetaria la causa della crisi che vediamo e viviamo. È per reazione a tutto ciò, e per compensazione, che si assiste ora al ritorno dello Stato. È troppo, è eccessivo? Per cominciare, va detto che è stato ed è necessario: primum vivere! E poi? E il futuro? Per cominciare lo Stato in cui ancora viviamo, lo Stato in cui ci riconosciamo, è un tipo particolare di Stato. Un tipo di Stato che, non per caso, si chiama Stato di diritto. In questo tipo di Stato il mercato non può esistere fuori dal diritto o fabbricarsi un diritto alternativo e suo proprio. È sempre stato così in tutto il mondo libero, anche nel mondo anglosassone, dominato nel diritto pubblico dalla Rule of law e nel diritto privato dalla Common law. Non per caso tutte e due queste formule contengono la parola law e cioè la parola legge. È stato così fin dal principio del liberalismo e sarà così fino alla sua fine. In questi termini costituzionali e fondamentali, l’alternativa non è dunque tra Stato e mercato, come se Stato e mercato fossero e/o potessero essere due variabili tra di loro indipendenti. L’alternativa è piuttosto, all’interno dello Stato, tra mercato e sociale. Come bene scrive Panebianco. Il fatto disastroso è che nell’ultimo decennio il pendolo, certo più altrove che in Italia, non ha oscillato all’interno del quadrante, ma è uscito dal quadrante del diritto. Quello che può e deve ora essere fatto è perciò riportare il pendolo dentro il quadrante, non essendoci alternativa allo Stato di diritto. Fatto questo, quale è la parte giusta del pendolo: è il mercato o è il sociale? Non credo che ci sia una ipotesi assolutamente giusta. Credo che esistano ipotesi relativamente giuste. Nella nostra storia più recente il pendolo è andato ritmicamente da un lato all’altro del quadrante, dall’Iri alle privatizzazioni (tutte fatte bene, tutte ci hanno fatto bene?). Nel durante della crisi e nel dopo della crisi è — a mio personale parere — più probabile che la parte giusta sia quella del sociale. Può essere che un po’ dopo il pendolo prenda di nuovo a muoversi dall’altra parte. Niente di male, basta che sia un pendolo che resta dentro il quadrante del diritto» (20).

Vogliamo avviarci alla conclusione sulla scia di una bella riflessione dell’attuale Papa emerito, Benedetto XVI, in occasione della quaresima del 2010, quando era ancora sul soglio di Pietro. Una riflessione che parte proprio dalla definizione ulpianea della Giustizia, alla quale in incipit abbiamo fatto riferimento anche noi, “Dare cuique suum”(21). Proprio quel “suo”, che deve essere dato all’uomo, – ricorda Benedetto XVI – non può essere solo il bene fisiologico ed economico, il quale tuttavia neanche Cristo trascurò guarendo malati e sfamando le folle, né può essere garantito soltanto dalla legge, dunque dallo Stato. Il Bene primo, essenziale, senza del quale l’uomo, pur nella ricchezza, si ammala spiritualmente, il Sommo Bene che necessita strutturalmente all’uomo, è l’Amore di Dio che può essergli accordato solo gratuitamente per iniziativa stessa di Dio e non per diritto o merito umano. Né la giustizia commutativa, il cui luogo è il mercato, lo scambio economico, né la giustizia distributiva, il cui luogo politico è lo Stato, possono rendere all’uomo tutto quel “suo” che gli è dovuto.

«la giustizia – scrive Agostino nel cap. XIX della Città di Dio – è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo … (ma) non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo al vero Dio».

Alla giustizia si contrappone l’ingiustizia. L’uomo da sempre fa esperienza di questo drammatico scontro. Le ideologie credono di poter individuare la radice dell’ingiustizia, del male, in questa o quella causa esterna. Sia essa lo sfruttamento di classe o il totalitarismo statuale o ancora l’oppressione nazionale coloniale o la promiscuità culturale e razziale. L’ingiustizia viene, per le ideologie, “da fuori”, è in exteriore homine. Sicché fare spazio al regno mondano di giustizia sarebbe semplice questione di rimuovere, anche con la violenza se necessario, la causa esterna di volta in volta individuata come radice dell’ingiustizia. Ai tempi di Cristo era questo il ragionamento dei suoi contraddittori nel Sinedrio, i dottori della Legge (tra essi anche quel Paolo di Tarso che più tardi comprenderà l’impossibilità di attuare la Legge, ossia l’Amore a Dio ed al prossimo, senza la Grazia di Cristo). Marco ci racconta, nel suo Vangelo (7,14-15 e 20-21), della risposta di Gesù in una discussione intorno alla purità ed impurità legale: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro … Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male».

Appunto! Nel cuore ontologicamente ferito dell’uomo è la radice, vera ed autentica, del male, di ogni male, dell’ingiustizia, di ogni ingiustizia. Eventuali cause esterne sono solo o apparenti o secondarie, comunque anche esse radicate nel mistero di iniquità che si è impadronito del cuore umano, fino a contendere a Dio il diritto di albergarvi, il diritto di farne la sede del Suo Trono. L’Amore di Dio Incarnato, laddove gli è stato concesso di realmente operare per l’apertura dell’uomo alla Luce che viene dall’Alto, ha cambiato le stesse relazioni umane, quindi la porzione di mondo connessa con quelle relazioni, partendo dal “cuore” ossia trasformandolo da cuore di pietra in cuore di carne. Con tutta la pazienza di Colui che può permettersi di aspettare per vedere germogliare, nel corso del tempo, i frutti umani, culturali, sociali, politici, di tale trasformazione perché ha a sua disposizione non secoli ma l’Eternità. Solo tenendo conto di questa verità, possiamo capire perché mai la Chiesa non ha mai dato cieco ed acritico credito alle rivoluzioni pur negando ogni sostanziale sostegno alla conservazione degli assetti di ingiustizia. Come abbiamo già osservato, è questa la logica stessa per la quale Paolo rinviò lo schiavo fuggiasco al suo padrone cristiano raccomandando a quest’ultimo la carità verso il suo sottoposto. Paolo non poteva sapere se e quando la schiavitù sarebbe scomparsa – e ci vollero secoli anche nella stessa Cristianità mentre altrove essa persiste ancora oggi – ma era sicuro che senza la trasformazione in interiore homine nessuna riforma normativa avrebbe mai potuto raggiungere per davvero, e si sottolinei quel “per davvero”, l’obiettivo della non reificazione, sotto qualsiasi forma, dell’uomo. Questo perché fino a quando il cuore umano non si apre all’Amore dall’Alto nessuna rivoluzione potrà mai davvero accadere nella vita storica dell’umanità come in quella quotidiana di ciascun essere umano.

«L’ingiustizia – ha detto nella sua omelia per la Quaresima del 2010 Benedetto XVI –, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. Lo riconosce amaramente il Salmista: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre (Sal 51,7). Sì, l’uomo è reso fragile da una spinta profonda, che lo mortifica nella capacità di entrare in comunione con l’altro. Aperto per natura al libero flusso della condivisione, avverte dentro di sé una strana forza di gravità che lo porta a ripiegarsi su se stesso, ad affermarsi sopra e contro gli altri: è l’egoismo, conseguenza della colpa originale. Adamo ed Eva, sedotti dalla menzogna di Satana, afferrando il misterioso frutto contro il comando divino, hanno sostituito alla logica del confidare nell’Amore quella del sospetto e della competizione; alla logica del ricevere, dell’attendere fiducioso dall’Altro, quella ansiosa dell’afferrare e del fare da sé (cfr. Gen 3,1-6), sperimentando come risultato un senso di inquietudine e di incertezza. Come può l’uomo liberarsi da questa spinta egoistica e aprirsi all’amore? Nel cuore della saggezza di Israele troviamo un legame profondo tra fede nel Dio che “solleva dalla polvere il debole” (Sal 113,7) e giustizia verso il prossimo. La parola stessa con cui in ebraico si indica la virtù della giustizia, sedaqah, ben lo esprime. Sedaqah infatti significa, da una parte, accettazione piena della volontà del Dio di Israele; dall’altra, equità nei confronti del prossimo (cfr. Es 20,12-17), in modo speciale del povero, del forestiero, dell’orfano e della vedova (cfr. Dt 10,18-19). Ma i due significati sono legati, perché il dare al povero, per l’israelita, non è altro che il contraccambio dovuto a Dio, che ha avuto pietà della miseria del suo popolo. Non a caso il dono delle tavole della Legge a Mosé, sul monte Sinai, avviene dopo il passaggio del Mar Rosso. L’ascolto della Legge, cioè, presuppone la fede nel Dio che per primo ha “ascoltato il lamento” del suo popolo ed è “sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (cfr Es 3,8). Dio è attento al grido del misero e in risposta chiede di essere ascoltato: chiede giustizia verso il povero (cfr Sir 4,4-5 e 8-9), il forestiero (cfr Es 22,20), lo schiavo (cfr Dt 15,12-18). Per entrare nella giustizia è pertanto necessario uscire da quell’illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è l’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre, in altre parole, un “esodo” più profondo di quello che Dio ha operato con Mosé, una liberazione del cuore, che la sola parola della Legge è impotente a realizzare. C’è dunque per l’uomo speranza di giustizia? L’annuncio cristiano risponde positivamente alla sete di giustizia dell’uomo, come afferma l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani: “Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio … per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della Gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. E’ Lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue” (3,21-25)».

Parole, quelle di Paolo, che sono state poi fraintese da Lutero il quale, utilizzando il metodo antianalogico della filosofia ermetica riemergente in età umanistico-rinascimentale, ne desunse, contro la Tradizione ecclesiale e contro il dato rivelato dell’Imago Dei, l’incapacità della grazia di Cristo alla  trasformazione interiore. La Grazia in Lutero diventa inoperante a mo’ di copertura esterna, più che di cancellazione, della cloaca del peccato. In Lutero persiste la chiusura del cuore alla Grazia che la fede in Cristo veicola mediante i sacramenti. La chiusura del cuore, però, porta alla morte stessa della fede, sicché non è un caso, ma il chiaro riscontro storico dell’errore luterano, se la Riforma ha inoculato all’interno del Cristianesimo il veleno della secolarizzazione.

«Quale è dunque la giustizia di Cristo? – si domanda, infatti, Benedetto XVI continuando nella  citata omelia quaresimale – E’ innanzitutto la giustizia che viene dalla grazia, dove non è l’uomo che ripara, guarisce se stesso e gli altri. Il fatto che l’“espiazione” avvenga nel “sangue” di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé “la maledizione” che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la “benedizione” che spetta a Dio (cfr Gal 3,13-14). Ma ciò solleva subito un’obiezione: quale giustizia vi è là dove il giusto muore per il colpevole e il colpevole riceve in cambio la benedizione che spetta al giusto? Ciascuno non viene così a ricevere il contrario del “suo”?».

Lutero avrebbe risposto che, sì!, la giustizia di Dio non può non essere il contrario della giustizia degli uomini perché Dio si oppone totalmente al mondo, come il “totalmente altro” ripeterà la teologia di radice protestante nei secoli successivi alla Riforma, ed il mondo altro non è che l’anti-Dio. Tragica conseguenza dell’influsso dell’idea del “doppio contrario”, del “monismo dualistico”, di antiche ascendenze gnostiche e manichee, sulla teologia di Lutero, che pervenne così a ripudiare l’analogia partecipativa tra Dio e mondo. Con la conseguenza che la giustizia di Dio diventa, nella prospettiva dell’opposizione antianalogica, il contrario di quella umana anziché soltanto superare infinitamente, per superiorità ontologica, nella sua incommensurabile ed infinita perfezione, quella dell’uomo: La quale nonostante tutta l’imperfezione e tutta la fallibilità creaturale comunque la riflette sicché solo se ad Essa resta aperta può sperare di essere, nei limiti dell’umano consentito, davvero “giusta”.

«In realtà – precisa il Papa emerito continuando –, qui si dischiude la giustizia divina, profondamente diversa da quella umana. Dio ha pagato per noi nel suo Figlio il prezzo del riscatto, un prezzo davvero esorbitante. Di fronte alla giustizia della Croce l’uomo si può ribellare, perché essa mette in evidenza che l’uomo non è un essere autarchico, ma ha bisogno di un Altro per essere pienamente se stesso. Convertirsi a Cristo … significa in fondo proprio questo: uscire dall’illusione dell’autosufficienza per scoprire e accettare la propria indigenza …, (il) suo perdono e (la) sua amicizia. Si capisce allora come la fede sia tutt’altro che un fatto naturale, comodo, ovvio: occorre umiltà per accettare di aver bisogno che un Altro mi liberi del “mio”, per darmi gratuitamente il “suo”. Ciò avviene particolarmente nei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Grazie all’azione di Cristo, noi possiamo entrare nella giustizia “più grande”, che è quella dell’amore (cfr Rm 13,8-10), la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspettare».

Consegnando se stesso al posto del prigioniero scelto dagli aguzzini, padre Massimiliano Maria Kolbe ha adempiuto – in un luogo dove la stessa pur fragile ed imperfetta giustizia umana era stata tragicamente soppiantata dall’ingiustizia che nasce dal “di dentro”, dal cuore pervertito, dell’uomo  – alla Giustizia di Dio, infinitamente superiore nella sua analogica diversità a quella umana. Massimiliano Maria Kolbe nell’Amore di Dio ha reso concretamente manifesta non solo l’Amore di Dio ma anche la Sua Giustizia, aprendo, al tempo stesso, la via per la restaurazione della stessa giustizia umana nel suo unico possibile fondamento che è, appunto, l’analogia, sempre tuttavia imperfetta e mai  assolutamente coincidente, del partecipante al Partecipato.

Ecco perché Benedetto XVI così chiosa: «Proprio forte di questa esperienza, il cristiano è spinto a contribuire a formare società giuste, dove tutti ricevono il necessario per vivere secondo la propria dignità di uomini e dove la giustizia è vivificata dall’amore».

 

                                                                                                                   Luigi Copertino

(Fine)

 

NOTE

15) Se un Jacques Maritain, forse memore dei suoi giovanili anni maurrassiani, considerava i “fascismi” come portatori di istanze comunitarie non disprezzabili di per sé ma troppo inquinate da un approccio “paganeggiante” fondato sul culto parareligioso della Nazione, trasformata da comunità morale di diritto naturale a Leviatano omnifagocitante, Emmanuel Mounier, dal canto suo, fu un attivo partecipante al convegno romano del 1938 sul corporativismo, organizzato dal ministero fascista diretto da Giuseppe Bottai. Stretto collaboratore ministeriale di Bottai fu il padre di Aldo Moro. Lo statista democristiano, per tale via, stringerà rapporti di stima ed amicizia con l’ex ministro delle corporazioni, che per grazia di Dio trovò anche la via della fede, presenziando anche ai suoi funerali. Il convegno romano del 1938, nelle intenzioni di Bottai, che fu uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “sinistra fascista” nonché uomo di vaste aperture culturali anche internazionali ed extra-fasciste, fu organizzato per esplorare le potenzialità personaliste e comunitarie del sistema corporativista, se emendato dall’hegelismo statolatrico. Vi parteciparono molte eminenti personalità della cultura europea del periodo. L’esperimento fascista, come terza via tra liberalismo e comunismo, aveva del resto attirato l’attenzione della cultura internazionale più accorta ed attenta. La possibilità di una revisione in senso comunitario e democratico, con emendamento delle deviazioni totalitarie, del sistema corporativista e sindacale del regime era negli auspici del fascismo di sinistra che vi stava lavorando dall’interno – e, senza la guerra, probabilmente vi sarebbe giunto – proprio per merito di uomini come Bottai (la sua critica al sistema di nomine dall’alto, per gli organi sindacali e corporativi, al fine di sostituirlo con un sistema di nomine dal basso, direttamente da parte dei lavoratori per quanto riguardava le nomine sindacali, era nota ai vertici del regime e, nonostante che l’avesse in concreto disattesa nel pieno del grande consenso di massa negli anni ‘30, era confidenzialmente ben vista ed auspicata dallo stesso Mussolini, in fondo rimasto sempre un socialista). In questo stesso senso, nonostante tutte le riserve “tradizionaliste”, che vedevano nella democrazia soltanto una “benefica azione sociale a favore del popolo” senza connotati di tipo politico, la dichiarata simpatia della Chiesa di Pio XI verso l’esperimento corporativista va letta come l’auspicio di una riforma, che non intervenne, che avvicinasse il sistema sindacale del regime alla tradizione cattolico-sociale, la quale agli inizi del XX secolo aveva avuto nel “corporativismo moderno” di Giuseppe Toniolo la sua punta avanzata e che, in quegli stessi anni ’30, aveva in documenti quali la “Carta di Malines” una progettualità  certamente critica verso gli esperimenti all’epoca in atto – “libero sindacato nella professione corporativisticamente organizzata” era la critica cattolica alle deviazioni hegeliane del sistema sindacale organico – ma altrettanto certamente attenta a tali esperimenti in vista di una loro riforma. Che, in Italia, arrivò, pur restando soltanto sulla carta, nell’articolo 39 della attuale Costituzione. In detto articolo, infatti, le “rappresentanze unitarie che stipulano contratti collettivi di lavoro con efficacia erga omnes”, mai però attuate, altro non sono che la democratizzazione dell’eredità del sistema sindacale corporativo lasciato dal defunto regime. Una democratizzazione che era negli gli auspici della componente cattolica e di quella socialista democratica della Costituente (Bruno Buozzi, nel 1943, prima di essere ucciso dai nazisti, all’atto di prendere in carico, per il regno del sud, dopo il patto di Salerno, i sindacati fascisti ed il loro patrimonio, ebbe espressioni di grande elogio per il notevole lavoro fatto, nonostante la dittatura, dai sindacati fascisti lungo un ventennio). Giuseppe Bottai, che pure da giovane repubblicano e socialista era stato affiliato alla massoneria, si convertì, nell’ultima parte della sua vita, come pare lo stesso Benito Mussolini, alla fede cattolica. In questo percorrendo, insieme a tanti altri protagonisti di quella storia, una delle possibili vie di uscita – l’altra, senza esito, fu quella verso il comunismo – dall’esperienza della dittatura che si offrirono, nel passaggio dal fascismo al postfascismo, a quella sinistra democratica e risorgimentale che aveva aderito al fascismo, per le origini, appunto, democratico-rivoluzionarie di ascendenze giacobine, di quest’ultimo. Radici che sono alla base della forma “totalitaria” della democrazia, realizzata dal fascismo, quale retaggio del pensiero di Rousseau e dell’idea “panteista” della Volontà Generale. Forma di democrazia giacobina attentamente studiata da Jacob Talmon ne “Le origini della democrazia totalitaria” (Il Mulino, Bologna). Per coloro che fossero interessati ad approfondire questi temi, consigliamo, a proposito di questo “fascismo alternativo” e dei suoi controversi esiti “democratico-sociali”, due testi di fondamentale importanza. Il primo di essi è opera di Giuseppe Parlato, “La sinistra fascista – storia di un progetto mancato” (Il Mulino, Bologna). Si tratta della ricostruzione delle vicende storico-filosofiche della corrente, appunto, “giacobina” del fascismo di sinistra e del suo esito comunista. Un’opera che porta alla luce la più inquieta fra le diverse e non di rado conflittuali anime del fascismo, appunto la cosiddetta sinistra fascista, e ne identifica il mosaico di idee, valori e umori che ne costituisce il back ground culturale, seguendone il “fiume carsico” oltre la fine del regime fino agli anni Settanta. Un fascismo, questo giacobino, caratterizzato da un forte spirito antiborghese e anticapitalistico, da un’idea della politica come rivoluzione, dall’obiettivo di una democrazia popolare totalitaria di radice rousseauiana. Un fascismo dunque rivoluzionario, in polemica anche con il regime (tanto che Renzo De Felice, nella nota “Intervista sul fascismo”, coniò, per definirlo, il termine “fascismo movimento” opposto al “fascismo regime”, il quale pure fu a suo modo trasformatore e modernizzatore ma parzialmente compromesso con i fiancheggiatori di destra nazional-liberale e conservatrice), che ha le sue origini nel sindacalismo rivoluzionario d’anteguerra ed il suo habitat nelle strutture sindacali e nelle organizzazioni giovanili universitarie. Con la seconda guerra mondiale i fascisti di sinistra scelsero spesso sponde opposte: alcuni rimasero fedeli al proprio essere fascisti, altri al proprio essere rivoluzionari ed entrarono nel partito comunista, dove occuparono anche posti di prestigio. Il secondo testo, notevole per il suo taglio specifico persino all’interno degli studi sulla sinistra fascista, è un’opera di Primo Siena, “La Perestroika dell’ultimo Mussolini – dalla dittatura cesariana alla democrazia organica”, Solfanelli, Chieti. In quest’opera viene ricostruito un possibile percorso interno allo stesso fascismo repubblicano e sociale rimasto, in qualche modo ignorato dagli stessi fascisti di sinistra di tipo “giacobino”. L’ultimo Mussolini anelò ad un sistema politico di libertà responsabile che fosse, anche, ad un tempo la revisione e il superamento, in un senso impensato fino ad allora, della precedente esperienza del regime. Una riforma che partisse comunque dalla pur confusa eredità del primo fascismo critico verso il conformismo gregario e livellatore delle democrazie illuministe di matrice individualista e contrattualista. In tal senso, secondo l’autore, la Repubblica Sociale ha rappresentato la transizione dal cesarismo della dittatura al lascito politico più autentico di un certo tipo di fascismo: la democrazia organica di radici greco-romane e cattolico-corporative, articolata, accanto alla rappresentazione partitica, sulla base di una rappresentazione dei corpi intermedi quale espressione del comunitarismo sociologico e sociale della nazione. Il legato di una democrazia organica, nazional-demo-laburista, fu codificato nel progetto della costituzione repubblicano-sociale, di tipo presidenzialista e popolare, elaborata dal Carlo Alberto Biggini, un grande giurista cattolico e “mazziniano” che fu ministro dell’Educazione Nazionale nella Repubblica Sociale. Un progetto costituzionale giuridicamente superiore, nonostante alcune evidenti convergenze, all’analogo progetto democratico-sociale di Duccio Galimberti, eroe nazionale della resistenza antifascista.

16) Ci riferiamo ad un gruppo di intellettuali costituito da Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca autori del un volume collettaneo “Emergenza antropologica: per una nuova alleanza tra credenti e non credenti”, Guerini a Associati, 2012, nel quale hanno raccolto i contributi scaturiti dalla pubblicazione su «Avvenire» del 16 ottobre 2011 di una loro lettera aperta e controcorrente sulla necessità di dialogo fra laici di sinistra e mondo cattolico a partire dalle più scottanti questioni bioetiche e antropologiche affrontate dal magistero di Benedetto XVI. Le citazioni nel nostro testo sono tratte dall’intervista comparata, a cura di Alessandro Zaccuri, che lo stesso quotidiano “Avvenire” del 31.10.2012 ha realizzato, in proposito, con Mario Tronti e con il filosofo cattolico Vittorio Possenti.

17) La citazione di Mario Tronti è nel capitolo VIII “Appunti per un neo-umanesimo laburista”, p. 185, dell’opera di Stefano Fassina “Il Lavoro prima di tutto – l’economia, la sinistra e i diritti”, Donzelli editore, Roma, 2012.

18) S. Fassina op. cit. pp. 180-182.

19) S. Fassina op. cit. pp. 186-187.

20) G. Tremonti “Il pendolo tra mercato e sociale”, Corriere della Sera, 17 marzo 2009.

21) Benedetto XVI “L’ingiustizia viene dal cuore degli uomini” – messaggio per la Quaresima. Su Avvenire 5 febbraio 2010.