TIPI DELLA TEORIA ETICA.

di Andrea Cavalleri

 

Gli antichi dicevano che ogni uomo è filosofo.

Il grande letterato novecentesco Jorge Louis Borges andò oltre, arrivando a sostenere che ogni uomo occidentale colto è teologo, senza neppure il bisogno di essere credente.

Nella società post bar-sport, si può dire che neppure Borges abbia completamente ragione, in quanto, oggi, ogni occidentale ama identificarsi in un cliché teologico, senza neppure il bisogno di sapere cosa sta dicendo.

 

Il realtà, il titolo di questo articolo è una citazione tratta dal romanziere umoristico inglese Wodehouse, creatore del personaggio di Jeeves, geniale maggiordomo al servizio di Bertie Wooster, sfaccendato rampollo di buona famiglia e, per sua stessa ammissione, non troppo acuto di mente.

Il giovin signore viene perseguitato da insopportabili fanciulle iperattive e intellettuali, desiderose di plasmarlo e forgiarlo secondo i loro desideri, a lui sgraditissimi. Una di queste, tal Fiorenza Craye, appena fidanzatasi con lui gli rifila un tomo astratto e indigesto intitolato, per l’appunto, “Tipi della teoria etica”.

Le astruse vacuità contenute in quel cervellotico manuale, possono essere perfettamente accostate alle sragioni con cui l’uomo della modernità post bar-sportiva difende il proprio cliché.

 

Qui sotto propongo un elenco minimo ma significativo di questi “tipi”.

 

L’ateo materialista.

Dio non c’è perché non si vede, evidentemente per lui non esiste neppure la corrente elettrica.

Non si cura di esaminare le numerose prove favorevoli all’esistenza della realtà spirituale, né di cercare spiegazioni per quei fenomeni che non si riescono a giustificare a partire da una base puramente materiale.

Ciò che a lui interessa è l’accesso illimitato a tutte quelle cosucce che lo gratificano, garantito dalla soppressione dell’ordine morale. Il fatto che in questo modo svanisca il senso dell’esistenza non lo preoccupa: après moi le déluge!

Per ogni contraddizione, enigma o mistero che gli si sottopone ha la soluzione pronta, cioè che un giorno o l’altro ci penserà la scienza (di cui di solito non sa nulla). Nel caso sia una persona colta, utilizza la ragione con una limitazione a priori: qualunque cosa può essere vera purché spiegabile in termini puramente materiali, altrimenti non è vera.

La sua opzione principale è dunque fondata su una petizione di principio (utilizzare la tesi da dimostrare come argomento di dimostrazione), i medioevali l’avrebbero perciò giudicato un grosso imbecille, lui si ritiene furbissimo.

La caratteristica peculiare di questo tipo è l’accidia, in quanto vuole aver ragione, ma senza faticare per averla davvero.

 

L’agnostico.

Il suo motto è che non si può sapere nulla, tranne poche verità spicciole per regolare la vita di tutti i giorni, che però sono esattamente, e non una di più, quelle che conosce lui.

Qualunque argomento altrui è opinabile, un mero punto di vista basato su assunti non comprovabili.

Non si può essere sicuri di nulla? No. Un Dio creatore, un’anima, una qualche realtà spirituale? No.

Dei principi della metafisica? No. E di questa inconoscibilità sei sicuro? Sicuro, assolutamente e indefettibilmente certo!

Quando gli si fa notare che esistono di fatto alcuni fenomeni spiccioli come l’universo, la vita e la persona umana che bisogna pur spiegare in qualche modo, risponde che sono i credenti a rovesciare l’onere della prova. Questo è interessante a livello logico: un credente vede i fatti e propone una spiegazione (che può essere la creazione da parte di Dio), però lui che non ha e non propone nessuna spiegazione, sostiene che sono gli altri a dover dimostrare le proprie tesi.

Morale: l’agnostico sostiene il nulla pur di aver ragione.

E’ chiaro che in questo atteggiamento non vi sia nessun interesse per la verità, ma solo l’arroccamento in quella che gli sembra una posizione di forza nei confronti degli interlocutori. Pertanto la sua caratteristica precipua è la superbia.

 

L’ateo militante.

Per lui non è un problema se Dio c’è o non c’è, il fatto è che non deve esserci, altrimenti il suo mondo vacilla. Si troverebbe persino a dover rendere conto delle sue azioni davanti alla legge di Dio, che gli dà torto, anziché al partito, la ONG o il centro sociale, che gli dà ragione.

Per lui la mole di testimonianze, ragionamenti delle menti migliori, esempi dei santi, e realizzazioni sociali, sono solo un complotto del nemico.

La sua paranoia lo induce all’attivismo affinché Dio non ci sia, non tanto per sé, quanto soprattutto per gli altri, ché se sono troppo numerosi prevalgono. Cosicché se la prende con ogni persona e soprattutto istituzione (la Chiesa) che testimoniano che Dio c’è e quindi lo scopo della vita non è quello che ha deciso l’ateo stesso.

Il suo tormento segreto, che non gli dà pace, è il fatto che moltissime persone sembrino felici per la loro vita spirituale che infonde loro tranquillità e gioia; pertanto si impegna al massimo affinché anche gli altri abbiano una vita tormentata come la sua.

Per questa ragione l’ateo militante è caratterizzato dall’invidia.

 

Lo scettico.

In ogni campo intravede inganni e inconfessabili interessi che invalidano le informazioni a riguardo. Tutto è falso? Non necessariamente, ma tutto è viziato dai comportamenti scorretti delle persone, come si fa a fidarsi? Soprattutto come si fa a indirizzare la propria vita su una scommessa, la fede, che mi è stata raccontata da altri, condizionati da chissà quante convenienze, illusioni, pressioni sociali, informazioni alterate…

Non ne fa una questione di principio, ma di esperienza pragmatica, lui sa come vanno queste cose!

Anzi il punto è che per lui le questioni di principio non possono esistere, i moventi delle azioni umane sono altri.

Perciò, di fronte a qualunque proposta il suo motto è “calma”, prima si esamina tutto e poi probabilmente non ci sarà nemmeno bisogno di decidere, perché la proposta sarà sbollita da sola.

Le chiese e le religioni? Centri di potere. La politica? Una mangiatoia. Il volontariato? Sfruttamento dei gonzi. La cultura? Perdita di tempo.

Alla fine critica qualunque attività per avere la scusa onde non impegnarsi mai in nessun campo.

La sua caratteristica è l’avarizia.

 

Il fanatico religioso.

La fede è un atto della ragione, anche quando aderisce a realtà misteriose: “è saggezza riconoscere la necessità quando tutte le altre vie sono state soppesate, benché possa sembrare follia a chi si appiglia a false speranze” (così Gandalf ne “l’ultima discussione”).

Quando si perde la vera nozione di fede, riducendola a sentimento del cuore, o si affievolisce trasformandosi in una devozione privata, o vira nel fideismo, cioè nella credenza priva di giustificazioni e totalmente autoreferenziale.

Questa posizione origina il fanatismo religioso, che non è la coerenza con un complesso di principi ben motivati, ma l’obbedienza ai dettati, spesso irrazionali, della propria setta organizzata.

Sarebbe facile portare ad esempio gli islamici, ma trovo ancora più significativo usare come esempio i massoni: costoro “non sanno neppure bene cosa sia la massoneria” ma le giurano fedeltà sempiterna, non sanno chi ne siano i capi, ma si impegnano in un’obbedienza cieca pronta e assoluta ai superiori incogniti. Si dicono nemici della superstizione e poi favoleggiano della tomba di Hiram e altre panzane inventate di sana pianta, come i “misteri della loggia”, favolette di folklore locale, di cui un esempio ben noto è quello del Priorato di Sion, confezionato per i grembiulini di Marsiglia…

E la cosa più bella è che dicono di voler liberare l’uomo dalla religione senza neppure accorgersi di far parte semplicemente di un’altra religione aggiunta alle tante, e di certo non la migliore.

La caratteristica tipica del fanatico religioso, per tutte le fandonie che ingozza voracemente, non può che essere la gola.

 

L’irenista ecumenico.

A sentir lui quello che conta è il dialogo, anche se non si ha assolutamente nulla da dire.

Dialogo con tutti, cosicché quando ciascuno ha detto la sua e ognuno resta del proprio parere, razionalmente ci si dovrebbe aspettare che non cambi nulla; e invece, secondo l’ecumenico, come per magia il mondo si trasformerebbe.

Quando poi si va a vedere nel dettaglio come il pacifista sincretico intende e gestisce il dialogo in prima persona, si scopre che per lui il dialogo consiste sostanzialmente nell’avere una platea che lo ascolta senza ribattere nulla.

La tolleranza è il secondo pilastro dell’ecumenico, che inevitabilmente si coniuga con l’adorazione della democrazia. Questa, la democrazia, è una moderna divinità capricciosa che condanna le minoranze avverse all’ecumenico perché lui è in maggioranza e quindi comanda e ha ragione; però condanna le maggioranze se sono avverse all’ecumenico perché non sanno rispettare le minoranze.

Il pacifista universale esercita la massima tolleranza con chi è d’accordo con lui.

Per gli altri c’è la furia iconoclasta.

Caratteristica l’ira.

 

Il perbenista.

Il mantra del perbenista suona più o meno come “invece di inseguire cose complicate come Dio e la religione, quel che conta è fare qualcosa di buono per gli altri”. Di solito la discussione si incentra su questo dilemma e nessuno approfondisce mai il significato di “qualcosa di buono per gli altri”: come fa il perbenista a sapere cosa sia buono per gli altri? E per me, che sto parlando con lui? Non è che uno dei temi importanti della rivelazione consistesse proprio nello spiegare cosa fosse “buono”?

Il principio simmetrico equivalente è il celebre “avrò il diritto di fare quel che voglio se non faccio male a nessuno!”.

E così il perbenista, proclamando di non ammazzare e non rubare, ammazza in modo perfettamente legale con l’aborto, ruba con la speculazione finanziaria e fa un sacco di male a un sacco di gente, facendo il legittimo “quel che vuole”.

La versione del perbenista credente è colui al quale non importa tanto di adorare Dio, quanto di sostenere la chiesa a cui appartiene.

Per lui è più importante il senso del sacro che non la comunicazione col sacro, il proclama dei principi piuttosto che l’applicazione dei principi alla propria vita, la rispettabilità piuttosto che la santità.

Poiché il suo programma prevede vizi privati e pubbliche virtù, la sua caratteristica è la lussuria.

 

La cristallizzazione dei cliché teologici ha trasformato la riflessione ideale-religiosa dell’uomo attuale in una sorta di mercato a offerta predeterminata.

Purtroppo la cura che le persone mettono nella scelta del proprio indirizzo religioso (in senso lato) è diventata inferiore a quella che mettono nella scelta del colore di una cravatta, trattando le decisioni fondamentali sul senso della vita e sul destino personale alla stregua di orpelli insignificanti.

E’ molto più facile, al giorno d’oggi, sentire una discussione animata sulla preferibilità della sacher torte o del creme caramel, piuttosto che una disputa su panteismo e deismo personale.

Pertanto urge una presa di coscienza della nostra società, affinché pratichi un’inversione di rotta, per ritornare, se non al reale, almeno ai bei tempi della società del bar-sport.