SCENARI IMMINENTI: L’IPERINFLAZIONE E L’ESERCITO

(Andrea Cavalleri)

Siamo al dodicesimo anno di crisi da deflazione e chi scrive ha sempre sostenuto che l’inflazione di norma produce più benefici che danni.

Perché dunque all’improvviso mi schiero nel partito contrario, di coloro cioè che mettono in guardia contro l’aumento generalizzato dei prezzi?

Perché esiste un caso di inflazione veramente dannoso e temibile ed è quella talmente alta e catastrofica da screditare il sistema dei pagamenti.

I costi che impazziscono non mettono in difficoltà solo i consumatori, ma anche i produttori, che non riescono più a calcolare i margini tra spese e profitti, e i commercianti, tormentati dal dubbio se l’aumento del prezzo che praticano sia sufficiente a coprire i costi degli aumenti dei fornitori o sia eccessivo e li metta fuori mercato.

L’effetto finale può essere un arresto di tutta la macchina organizzativa dell’economia e un subitaneo ritorno all’età della pietra, con la catastrofe umana connessa a una società fortemente urbanizzata e totalmente dipendente dal meccanismo di approvvigionamento generato dalla divisione del lavoro.

E come è possibile che siamo avviati in quella direzione?

Lo si può capire analizzando il funzionamento del quantitative easing (QE), così come è stato descritto dal centro studi della Banca Centrale inglese nel primo bollettino trimestrale del 2014.

Il QE

Il punto di partenza è che la stragrande maggioranza del denaro è prodotto dalle banche commerciali attraverso i prestiti.

L’entità complessiva dei prestiti non dipende dalle riserve (dal favoleggiato vincolo della base monetaria) ma dalle opportunità di prestiti vantaggiosi per le banche e investimenti redditizi per i debitori, e questo significa che, a seconda dei momenti ci sarà più o meno denaro nell’economia.

Poiché non esiste un sistema per determinare la massa monetaria totale, le banche centrali la influenzano indirettamente con la politica dei tassi di interesse.

Ora quando di denaro ne circola troppo, alzando i tassi si produce una frenata efficace; il vero problema sorge quando di denaro ne circola poco, perché sotto un certo tasso (la BoE definisce come limite ultimo inferiore lo 0,5%) si arrestano le possibilità di intervento dell’autorità monetaria.

Per ovviare a questo inconveniente è stata escogitata la manovra del QE, che consiste nell’acquisto di titoli (generalmente bond governativi) da istituti finanziari non-bancari.

A questo punto i venditori (tipicamente fondi pensione e compagnie assicurative) rimarranno in possesso dei depositi di nuova creazione al posto dei titoli di Stato. È probabile che […] vorranno quindi riequilibrare i loro portafogli, ad esempio utilizzando i nuovi depositi per acquistare attivi più redditizi come obbligazioni e azioni emesse da società. Ciò aumenterà il valore di tali attivi e abbasserà il costo per le aziende della raccolta di fondi in questi mercati. Questo, a sua volta, dovrebbe portare ad un aumento della spesa nell’economia.

Molto onestamente la BoE ammette (riprendendo una vecchia obiezione del premio nobel Tobin) che non sempre questo è l’esito, infatti se un percettore del nuovo denaro utilizzasse questa entrata per estinguere dei prestiti bancari, tale denaro andrebbe distrutto.

Questa via, e non quella della maggior spesa nell’economia, è sicuramente quella praticata finora, come dimostrato dalle difficoltà dell’inflazione a raggiungere il 2% nonostante anni di iniezioni da cavallo di liquidità nel sistema finanziario.

E non è per nulla difficile spiegare il perché: mettetevi nei panni di un gestore di fondi o assicurazioni, in tempi incerti e di crisi cosa preferireste fare, investimenti coraggiosi o prudenziali riduzioni dei debiti?

La domanda evidentemente è retorica e si accorda perfettamente con la realtà osservata.

Dove può ancora indirizzarsi l’investimento finanziario?

Dopo un certo numero di giri di giostra del QE gli operatori finanziari avranno consolidato i loro attivi e ridotto drasticamente i debiti.

A questo punto, quando si ritroveranno in possesso di denaro fresco dovranno decidere come investirlo, e qui peserà la situazione pregressa.

Con i tassi bassi gli investimenti istituzionali saranno poco remunerativi, molti dei mercati di titoli hanno già subito lo scoppio di numerose bolle speculative in cui molti operatori si sono scottati e nei cui confronti sono diventati diffidenti.

Se poi verrà condotta la ristrutturazione del debito italiano, assecondando le voglie franco-tedesche, si minerà la fiducia in tutto il mercato dei bond governativi, nessuno resterà al sicuro perché la situazione italiana non è diversa da quella di parecchi altri Stati europei e, anzi, in certi fondamentali è persino migliore.

Allora qualcuno inizierà a investire nel reale: commodities e immobiliare per cominciare, il resto a seguire.

Il primo aumento dei prezzi sarà il segnale che l’economia reale è tornata redditizia e la massa degli investimenti (guidati in gran parte da algoritmi e non da persone esperte e lungimiranti) seguirà a cascata.

Questo produrrebbe di per sé un’inflazione forte, ma probabilmente non ancora letale.

Il punto è che la domanda (i soldi) possono essere indirizzati in un attimo a qualunque destinazione con un click, ma l’offerta come  risponderà?

Lo smantellamento sistematico delle industrie per ragioni di redditività monetaria, a prescindere dalla loro utilità, negli ultimi anni ha assottigliato costantemente i margini della capacità produttiva.

Le produzione “just in time”, i tagli agli “organici in eccesso”, l’ideologia climatica e per finire l’arresto prodotto dall’emergenza sanitaria, reale o immaginaria che sia, hanno ridotto all’osso le possibilità di risposta dell’offerta, che avrebbe bisogno di un certo tempo per adeguarsi a un’eventuale crescita improvvisa della domanda.

Anche solo una breve parziale e temporanea penuria di beni, in presenza di una forte richiesta, farebbe schizzare l’inflazione alle stelle, con effetti di panico, disordini di tutti i tipi e una situazione catastrofica che a quel punto si autoalimenta.

Indifesi grazie alla globalizzazione

La quarantena cinese per il corona virus, ha mostrato uno dei limiti mai citati della globalizzazione.

Aziende in tutto il mondo sono entrate in difficoltà perché non ricevevano semilavorati o parti di prodotto indispensabili per completare la catena produttiva.

Se si ferma un’azienda a Wuhan se ne fermano altre quindici sparse per il mondo, a Seoul, a Poznan a Detroit e cosi via.

La delocalizzazione e la concentrazione settoriale delle attività nelle regioni che possono vantare un vantaggio competitivo strutturale, ha creato un sistema che non prevede emergenze: la barca dell’economia mondiale non ha compartimenti stagni.

Non solo una crisi locale può avere ripercussioni globali, ma la divisione internazionale del lavoro (fatico a chiamarla così perché la realizzazione che se ne è fatta è una caricatura di questo concetto) ha privato gli altri soggetti (Stati, regioni e simili) degli strumenti con cui intervenire per compensare i danni di tale crisi.

In realtà, più che limite della globalizzazione è un altro dei gravi limiti dell’ideologia mercatista, in base a cui, lasciando fare agli operatori del mercato secondo la loro convenienza, si sarebbe raggiunto l’assetto di massima efficienza del sistema economico.

Secondo Hayek il mercato è fonte di scoperta e tende a ottimizzare autonomamente sia le quantità di beni da produrre, sia i metodi per produrli.

E l’economista austriaco oppone i vantaggi del mercato agli svantaggi della programmazione, alludendo evidentemente all’Unione Sovietica e ai suoi piani quinquennali.

Hayek ha abbastanza ragione finché il contesto non cambia, finché le condizioni del mercato sono stabili e finché si ragiona a breve termine: oggi la crisi sino-globale ci fa fare la scoperta, tramite il mercato, che il mercato ieri ha sbagliato, anche se i liberisti ci dicono che ieri aveva ragione oggi no per cui domani si adeguerà.

Ma i tempi e i costi dell’adeguamento, che potrebbero essere enormi, come li conteggiamo?

Li sottraiamo ai benefici di ieri? Li consideriamo (compresi i morti di fame, i suicidi etc) “investimenti” per il domani?

O si negano i problemi o si ridimensiona il ruolo del mercato.

E quanto alla programmazione, l’industrializzazione forzata dell’URSS fu condotta con metodi rozzi brutali e sanguinari, tuttavia gli storici sono stati costretti ad ammettere che senza quell’operazione Stalin avrebbe perso la guerra contro Hitler.

Alla fine la politica precede l’economia e ancora una volta si è avuta la dimostrazione di quanto sia perniciosa l’utopia di un’economia che regola se stessa e che, se lasciata libera, produrrà il migliore dei mondi possibili.

L’esercito

L’iperinflazione avrebbe effetti catastrofici, tali da insidiare seriamente la sopravvivenza della popolazione.

Ecco perché rievoco i concetti dell’economia di guerra, dei razionamenti e dell’inevitabile coinvolgimento dell’esercito.

A questo punto faccio una riflessione a voce alta che possa suonare come un appello.

Dato che l’esercito diventerà in quel momento il centro e il garante del sistema, tramite cui si distribuiranno i mezzi di sussistenza, mi chiedo, continuerà l’esercito a seguire le indicazioni di quella classe dirigente che ha causato la crisi con le sue scelte disastrosamente sbagliate?

Generali e colonnelli continueranno ad obbedire alle direttive di tecnocrati e burocrati insipienti, garantendo loro, al contempo, l’impunità?

Nella storia abbiamo avuto numerosi esempi in cui, di fronte alla crisi conclamata dell’autorità civile, l’esercito ha supplito con successo alle carenze, contraddizioni e ai disordini del potere precedente.

Senza ricorrere ad esempi dell’antichità, vorrei menzionare un caso virtuoso del secolo scorso, quello del Portogallo.

Di fronte a una crisi endemica, che non veniva affrontata da un parlamento rissoso, mutevole e irresoluto e di fronte a una terribile instabilità politica che aveva prodotto 45 governi e svariati colpi di stato in soli 16 anni, l’esercito intervenne ristabilendo l’ordine.

I generali affidarono il ministero delle finanze a un professore estraneo al circo politico (in realtà era stato eletto deputato in una delle ultime elezioni, ma dopo un giorno al parlamento aveva dato le dimissioni disgustato) che ottenne in breve risultati brillanti.

Pertanto si affidarono a lui per la stesura della nuova costituzione, successivamente alla quale vinse le elezioni come primo ministro.

Quel professore si chiamava Antonio de Oliveira Salazar, il più misconosciuto, calunniato e più grande statista del 1900.

I generali occuparono la presidenza della repubblica come garanti della costituzione.

Non sta a me giudicare la storia del Portogallo o l’operato di Salazar, ma sottolineo solo i punti salienti dell’intervento militare: presa di potere al fine di ristabilire l’ordine, contestuale esautorazione della precedente classe politica, imbelle e corrotta, generazione di un nuovo assetto politico attingendo dalle migliori forze intellettuali della nazione chiamate in assemblea costituente, elezioni a decisionalità limitata (i militari restano come garanti della costituzione).

Questa potrebbe essere una via auspicabile anche per l’Italia, quando, e purtroppo io penso tra breve, si troverà ad affrontare i marosi della catastrofe finanziaria globale.