RASSEGNA MEDITATA SULLA “FRATELLI TUTTI” di Luigi Copertino

RASSEGNA MEDITATA SULLA «FRATELLI TUTTI»

Luci ed ombre dell’enciclica di Papa Francesco

La notizia principale di questi giorni è la nuova enciclica firmata, ad Assisi, da Papa Francesco e promulgata con il titolo di “Fratelli tutti”. Su di essa è già iniziata la bagarre tra detrattori e laudatori. Una guerra tra opposte tifoserie che impedisce un più sereno dibattito. Per cogliere, al di là delle banalizzazioni da osteria, l’essenziale del documento pontificio bisogna partire dal luogo simbolico nel quale è avvenuta la firma. Il  primo Papa che nella storia della Chiesa ha assunto il nome di Francesco non ha firmato l’enciclica sulla tomba del Santo d’Assisi per mera spettacolarizzazione dell’evento. Il luogo prescelto senza dubbio ha voluto essere evocativo dello spirito cristiano come vissuto dal San Francesco. Tuttavia, il gesto papale ha inevitabilmente impattato con un diffuso immaginario intorno alla figura di San Francesco che non corrisponde affatto alla realtà spirituale e storica dell’Assisiate. Non è alla agiografia tradizionale sul Santo che vogliamo riferirci – per quanto anch’essa è viziata da intenti edificanti che di San Francesco ha fatto il “serafico tra gli uccellini” – quanto piuttosto a quella oggi prevalente, “laica”, che vede in lui un pacifista, un ecologista ed un terzomondista ante litteram. Tanto l’agiografia tradizionale quanto quella ecopacifista attuale sono false sia sotto il profilo spirituale sia sotto il profilo storico. Papa Francesco è stato accusato, dai suoi detrattori, di aver contribuito, con questa sua ultima enciclica, ritenuta da più parti in rottura con la Tradizione e lo stesso Magistero Sociale della Chiesa, a rafforzare l’immagine del Francesco ecopacifista.

QUALE FRANCESCO?

Su La Verità del 05 ottobre Francesco Borgonovo (1) ha fatto appello ad uno storico di fama, Franco Cardini, e ad un esegeta di vaglia, Vittorio Messori, per smontare questa immagine artefatta del Santo umbro, che lo vuole precursore del terzomondismo o della teologia della liberazione o di un cristianesimo in salsa ecologico-pacifista . Francesco d’Assisi è stato altro. Per comprenderlo davvero è necessario non estraniarlo dal suo contesto storico, senza tuttavia dimenticare la valenza spirituale, e quindi trans-storica, della sua figura.

Francesco d’Assisi, come è noto, era uno dei figli del mercante Pietro di Bernardone. Sua madre, donna Pica Bourmont, aveva origini francesi. Gli affari portavano spesso Pietro in terra di Francia e questo spiega anche il nome Francesco dato a suo figlio, forse un riferimento ai ricercati “panni franceschi” che il mercante trafficava dalle terre d’oltralpe fino in Umbria. Il vero nome di battesimo di Francesco, tuttavia, era Giovanni che, per chi è attento a certi dettagli non casuali, richiama immediatamente il filone “giovanneo”, ossia mistico, del Cristianesimo. Non opposto, secondo l’errata opinioni di certuni, al filone “petrino”, più istituzionale, ma ad esso complementare, come dimostrò lo stesso Assisiate con la sua totale “santa obbedienza” alla Chiesa ed al sacerdozio eucaristico. Per radici familiari, dunque, Francesco era un borghese e non un aristocratico, sebbene frequentasse l’aristocrazia cittadina di Assisi, alla quale invece apparteneva Chiara. Era considerato il ragazzo più brillante della città, un vero e proprio “vip” diremmo oggi, cosa che nutriva le speranze paterne per un passaggio sociale dalla borghesia alla nobiltà magari attraverso un buon matrimonio del figlio (per questo la reazione di Pietro alla scelta di povertà di Francesco fu estremamente dura). Educato dalla madre, lei sì di origini nobiliari, alla letteratura romanza, che narrava le gesta degli eroici paladini di Francia, Francesco fu sin da bambino affascinato dagli ideali cavallereschi. Per tutta la sua vita, infatti, a dispetto dell’aura “pacifista” con cui la sua immagine viene oggi storpiata, non abbandonò mai il modello virile della cavalleria medievale quale via di ascesi eroica verso la Luce di Cristo. Francesco, che fece la concreta esperienza delle armi nella guerra tra Assisi e Perugia, continuò a  sentirsi spiritualmente un cavaliere anche dopo la rinuncia al mondo per donarsi a Dio. «Chi vuoi seguire, Francesco, il servo o il Padrone?» fu una delle sue prime locuzioni interiori mentre era sulla via di maturare la scelta per “Madonna Povertà”, quale autentica Dama cui consacrarsi, cavallerescamente, nella Militia Christi. Bonaventura da Bagnoreggio, uno dei suoi biografi nonché rettore dell’Ordine francescano – in una fase nella quale la clericalizzazione del movimento francescano, che il Santo non avrebbe voluto avendo egli fatto, pur nel più assoluto rispetto gerarchico verso il Sacerdozio, una scelta di milizia laicale, era già molto avanzata –, ci ha tramandato l’episodio di un sogno (Francesco come più tardi San Giovanni Bosco aveva frequenti sogni a carattere mistico) nel quale il Santo ebbe l’impressione di trovarsi in un castello ricolmo di armi e contrassegnato dalla Croce di Cristo. Secondo Bonaventura questo evento contribuì in modo definitivo a convincerlo che la vera cavalleria non poteva essere quella mondana ma la celeste. Francesco, dunque, si ritenne sempre un cavaliere di Dio, un Miles Christi, votato alla buona battaglia. Come ricorda Francesco Borgonovo, c’è persino chi ha riscontrato un nesso profondo tra la spiritualità guerriera orientale dei samurai giapponesi e la Militia Christi francescana. Infatti come il samurai, secondo il Bushi-do, il codice della Via del Guerriero, “non si separa mai dall’idea della morte”, allo stesso modo il frater sceglie come compagna di strada “nostra sorella Morte corporale” disposto a dare anche la vita per diffondere la Parola del Signore. Il francescano è un “guerriero dello Spirito”, non un attivista del WWF né tanto meno il boy scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada.

Solo alla luce della spiritualità cavalleresca di San Francesco è possibile comprendere, a fondo, il significato profondo del suo incontro nel 1219-20 con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. Un incontro che non ebbe nulla di “ecumenico”, come erroneamente riteniamo oggi. Francesco stava facendo la sua “peregrinatio”, ossia la sua “crociata” (ciò che noi malamente chiamiamo crociate erano in effetti pellegrinaggi sebbene armati), che egli non contestava affatto non fosse altro perché era stata indetta dal Papa e santa obbedienza lo vincolava a partire verso la Terra Santa. Tuttavia essendo lui un diacono, quindi appartenendo all’ordine dei chierici, sebbene in un grado inferiore, non poteva portare le armi, salvo la “spada della Parola di Cristo”. Per questo, per usare quella “spada”, si recò dal Sultano con l’intento di predicargli la conversione a Cristo. Qui si inserisce quella visuale “trans-storica”, cui accennavamo, che coglie, insieme agli aspetti storici, anche quelli più “perennialisti”. In tale prospettiva emerge la provvidenzialità dell’incontro tra San Francesco e l’islam, perché se è verissimo che il Santo, facendo la sua crociata, predicò al Sultano la conversione a Cristo (e sembra che il Sultano, ammirato da quello strano “sufi cristiano”, un pensierino alla conversione ce lo fece) è d’altra parte probabile che, nei più alti disegni dell’Onnipotente, quello fu un anticipo dell’esito escatologico della Seconda Venuta di Cristo, quando tutte le genti delle tre fedi abramitiche diventeranno Uno nel Cristo Glorioso e Trionfante dell’Apocalisse.

Ma, tornando al dato storico, nella Regola francescana del 1221 – è noto che Francesco provò a resistere all’ordine di mettere giù un testo che desse norme di vita per quel suo movimento ormai troppo cresciuto per essere lasciato allo stato originario – è sancito che i “fratres” che si fossero trovati, per qualsiasi motivo, in Terrasanta avrebbero dovuto restare sottomessi alle locali Autorità ma sempre senza rinunciare, se richiesti, di confessare la loro fede cristiana e, quando ad essi fosse sembrato essere volontà di Dio, avrebbero dovuto annunciare con umiltà la Parola affinché i mussulmani convertendosi «credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo».

L’enciclica di Papa Bergoglio, nonostante lo scandalo infondato di molti, vuole riprendere l’approccio francescano all’altro da sé ossia umiltà ma fermezza nel testimoniare la propria fede cristiana. Valga a spiegare l’intenzione papale a richiamarsi, nel suo vero  senso e significato,  alla “sottomissione” francescana quanto ci dice, in proposito, lo storico Franco Cardini: «Il riferimento è alle ultime parole del comma 3 della “Fratelli tutti”, dove testualmente si dice che Francesco raccomandasse ai suoi frati “di evitare ogni forma di aggressione o contesa e anche di vivere un’umile e fraterna ‘sottomissione’, pure nei confronti di coloro che non condividevano la loro fede”. (…). (ne)l testo della “Regula non bullata” dell’Ordine dei Minori proposta nel 1221 da Francesco all’approvazione di papa Onorio III (che lo rimandò a una stesura ulteriore di essa), (si può leggere) (…) al capo VII versetto 2, che i frati debbono essere “minores et subditi omnibus”, mentre al capo XVI versetto 6, quello espressamente richiamato da Bergoglio, si raccomanda loro “sint subditi omni humanae creaturae”: e il termine subditus va tradotto in italiano non già maccheronicamente come “suddito” (espressione che secondo i casi si rende con i termini latini “servus”, “famulus” o “fidelis”), ma appunto con quello di “sottomesso”» (2). Un evidente richiamo all’umiltà ed alla Pace cristiana, che non è pacifismo. Questo il senso della sottomissione raccomandata dal Santo ai suoi. Non dunque la subordinazione di fede giacché lo stesso Francesco chiedeva ai suoi fratres di non nascondere la loro identità cristiana neanche tra i mussulmani.

Dunque non può dirsi che l’appello del regnante Pontefice alla figura di San Francesco sia in linea con la corrente vulgata ecopacifista. Il cristianesimo di San Francesco è l’esatto opposto dell’umanitarismo che vorrebbe ricomprendere la fede cristiana nella “religione dell’Umanità” come una delle sue tante espressioni. Tuttavia, in quest’epoca di banalizzazioni e confusioni,  l’enciclica corre il rischio di essere strumentalizzata da chi ha interesse a presentare una concezione abnorme e falsa del Cristianesimo. Questo è il pericolo sotteso, più che ai contenuti dell’enciclica, alla ambiguità con la quale essa è stata recepita dal mainstream mediatico e dalla “sinistra arcobaleno” e “gay friendly”. La sinistra che ha tradito i lavoratori, sostituendo il proletariato demodé con omosessuali ed immigrati, e che in tal modo è diventata la miglior alleata del capitale apolide multinazionale.

MARCELLO VENEZIANI E FRANCO CARDINI

Per molti detrattori Papa Bergoglio è “comunista”. Per altri, memori dei giovanili trascorsi di Bergoglio quale militante dell’“Organización Unica del Trasvasamiento Generacional” (OUTG) – una organizzazione “centrista” del giustizialismo argentino –, Papa Francesco è piuttosto “peronista”. Senza dubbio nel percorso umano del Pontefice il “populismo” argentino ha lasciato una certa eredità. Cosa che non dovrebbe scandalizzare nessuno, dato che ogni Papa si porta dietro la propria personale esperienza umana. I cristiani d’altro canto sanno che alla fine, nei passaggi decisivi di un pontificato, prevarrà lo Spirito Santo anche contro e sulle personali inclinazioni di chi è stato chiamato a sedere sul Soglio di Pietro.

«Ci sono i suoi temi e i suoi teoremi – scrive Marcello Veneziani, circa l’enciclica, su La Verità del 6 ottobre scorso –, e riguardano la cittadinanza universale, il popolo dei migranti e il dovere di accoglierli, il mondo senza muri e senza confini, l’ambiente da salvare. E ci sono i suoi nemici: il nazionalismo, il populismo e il liberismo. (…). L’accusa di Francesco, in linea con la sua santa Chiara, Greta Thunberg, sottende un solo, grande colpevole: l’egoismo capitalistico (…). La parola “comunismo” è dimenticata da Bergoglio, anche se alcune sue eredità appaiono in lui, a cominciare dall’attacco alla proprietà privata. Ed è rimosso il pericolo cinese, una minaccia per la civiltà cristiana e per il mondo, ben più imponente e invasiva dei “nazionalismi” e dei “populismi”».

Veneziani poi rimprovera a Papa Bergoglio di insegnare un concetto equivoco di fratellanza, che per lo stesso santo di Assisi era altra cosa dall’umanitarismo corrente. Papa Bergoglio, infatti, secondo Veneziani, quando parla di fratellanza sembra alludere al terzo principio della Rivoluzione Francese, dopo liberté ed egalité. Anche Massimo Cacciari, intervistato da Repubblica, concorda con Veneziani. Cacciari ha sottolineato che il Papa ha per riferimento l’illuminismo radicale che però è il nocciolo duro «di quel pensiero laico storicamente opposto alla Chiesa». Veneziani e Cacciari, però, non sottolineano a sufficienza una questione basilare. La triade “libertà, uguaglianza e fratellanza” è, nella sua essenza, una trasposizione di principi cristiani dal piano della Trascendenza al piano dell’immanenza secondo la tecnica emulativa, ben nota già ai Padri della Chiesa, del Grande Imitatore che è anche il Grande Ingannatore. Se davanti a Dio, spiritualmente, gli uomini sono tutti liberi, eguali e fratelli, perché l’Uno oltrepassa le distinzioni del molteplice, trasporre sul piano mondano questa libera e fraterna eguaglianza (in realtà, secondo Tradizione, più che di eguaglianza astratta si deve parlare di parità, dato che le specificità restano anche nello Spirito sebbene armonizzate nella complementarietà) è esattamente ciò che costituisce la suadente predicazione, in apparenza cristiana, dell’Impostore che per accreditarsi usa mascherarsi. La Cristianità di un tempo era ben consapevole di questo pericolo, come dimostra l’affresco di Signorelli, nella Cattedrale di Orvieto, che raffigura la “predicazione dell’Anticristo”.

L’essenza del progetto della modernità, inaugurato dall’umanesimo e sistematizzato dall’illuminismo per essere  poi trasfuso nel globalismo nichilista attuale, consta proprio di questa imitazione/trasposizione tendente ad eliminare, con la forza o con il potere del denaro (o con entrambi insieme), le distinzioni che costituiscono il pluralismo – per cultura, vocazione, capacità, attitudini, lingua, storia – tra uomini e popoli che, in quanto voluto dal Creatore, è legittimo nell’ordine di natura. Le stesse differenze sociali trovano in quel pluralismo una ragion d’essere sebbene – ed è qui che i detrattori conservatori del Papa bleffano, tradendo la fede cristiana – resta  compito inderogabile dell’Autorità politica, per la quale se cristiana è anche un dovere di coscienza, il diminuire, per quanto umanamente possibile, quelle differenze, senza tuttavia illusioni di palingenesi astrattamente egalitarie ma anche senza quel fondo di ipocrisia conservatrice per cui, dal momento che il Signore ci ha ricordato che i poveri li avremo sempre con noi, allora ci si sente legittimati a tollerare, se non addirittura a benedire, anche le più inique ingiustizie sociali.

«L’ideologia di Bergoglio – scrive ancora Veneziani – cerca un posto alla Chiesa postcristiana nella modernità laica in nome della fratellanza, col sottinteso che altri movimenti civili, politici e sindacali si siano occupati della libertà e dunque dei diritti civili, e dell’uguaglianza e dunque dei diritti sociali, ma sia rimasto invece trascurato il terzo principio, la fratellanza. E lui la riprende, inserendo la Chiesa dentro il mondo moderno, ateo e laicista, disceso dalla Rivoluzione francese e cercando ispirazione anche da altre religioni come l’Islam (la fratellanza islamica ne è una conseguenza politica). Scrive: “mi sono sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmin Al Tayyeb”. Ma questa consonanza con l’imam sgomenta meno di tutto il resto» (3).

Secondo Veneziani la fratellanza come intesa da Papa Bergoglio ha poco a che vedere con la fraternità francescana perché Francesco d’Assisi, mistico e innamorato di Dio, guardava all’uomo ed al creato come riflessi divini, sicché quella dell’Assisiate è “una fratellanza nel Padre”. Bergoglio invece – continua il j’accuse di Veneziani – trasforma il Cristianesimo in un umanitarismo e, sommessamente, finisce per dare ragione alla religione massonica dell’Umanità. Per la quale Cristo è soltanto un grande uomo, un rivoluzionario in anticipo sui tempi e tradito dai preti e da quella Chiesa che Egli, secondo i cliché della neo-teologia, non avrebbe fondato essendo Essa una mera invenzione degli apostoli e di Paolo in particolare.

«Bergoglio rimuove la figura del Padre – continua, dunque, Veneziani –, converte interamente alla storia e all’umanità la figura del Figlio e vota la Chiesa alla fratellanza universale che il suo esegeta o il suo megafono di Civiltà Cattolica, il gesuita Padre Antonio Spadaro, traduce … in cittadinanza globale, senza confini. L’esperienza della vita ma anche della storia dimostra che ogni fratellanza priva di un Padre degenera in fratricidio o scema nella retorica: è stato il destino del giacobinismo come del comunismo, e di ogni altra frateria (un discorso a parte la massoneria, di cui il bergoglismo a volte pare la versione pop). È il Padre a garantire l’unità dei fratelli prima che il reciproco riconoscimento, è la Madre a soccorrerli prima che intervenga il diritto di cittadinanza; e dal Padre al figlio scorre il filo d’oro della Tradizione. Che Bergoglio spezza, omette, lascia nel dimenticatoio, ritenendo che il Cristianesimo possa ridursi a tre tappe essenziali: l’avvento di Cristo e dunque il cristianesimo delle origini, Francesco e la sua missione di fraternità, il Concilio Vaticano II e il cedimento al proprio tempo. E in mezzo millenni di oscurantismo, superstizione, sopraffazione o epoche che è meglio tenere nel buio, dimenticare, coi loro santi, papi, martiri e riti, simboli, liturgie. Per lui “la legge suprema è l’amore fraterno”, per S. Francesco invece, l’amore supremo è Dio. La Fratellanza, separata da Dio, è la fraternité, è lo spirito comunardo. Ideologia umanitaria, laica, rivoluzionaria».

A differenza di Veneziani, che di sé dice voler rimanere sull’uscio della Chiesa senza entrarvi (ed è un po’ difficile comprendere a fondo uno “spazio” se non vi si entra), un osservatore che invece si dichiara apertamente cattolico – e cattolico di provenienza “tradizionalista” –, ossia il già citato Franco Cardini, ritiene Papa Bergoglio un pontefice esplicitamente antimoderno che con il suo richiamo alla “fraternità”, a suo giudizio nient’affatto priva del Padre, smonta la pretesa della nota triade illuminista.

«un documento inesauribile a livello esegetico – scrive lo storico fiorentino –, autentico punto d’arrivo e al tempo stesso di partenza. Un capolavoro al tempo stesso autenticamente tradizionalista nel senso cristiano (commi 277-280) e in quello metastorico e universalistico (commi 198-221), e profondamente rivoluzionario nel suo nesso esplicito e dichiarato fra l’Amore di Dio per gli uomini, quello di essi per Lui e, alla luce di questo e di quello, fra loro. Amore perfetto il primo, amore perfettibile il secondo, amore da comprovarsi alla luce della storia (e il cammino è ancora lungo) il terzo. Va notato subito con chiarezza ed energia il carattere positivo, propositivo, concreto dell’enciclica. Non si tratta per nulla dell’umanitarismo e del cosmopolitismo moderno, si va ben oltre il limitativo concetto di “tolleranza” nei confronti dell’Altro-da-Sé. Qui siamo anzitutto e soprattutto su un piano limpidamente cristico, che concepisce la fratellanza e la solidarietà umana come riflesso dell’amore del Padre nei confronti dei figli e di essi fra loro nel Suo nome. Il papa ricorre sì al trinomio Libertà-Eguaglianza-Fraternità (che forse nel nostro idioma sarebbe più opportuno definire col termine “Fratellanza”) che la Rivoluzione francese ha fatto divenir famoso, ma prescinde dal suo contesto e dai suoi limiti di natura illuministica – peraltro l’illuminismo, esaltando la libertà individualistica e ponendo quindi la competizione al posto della solidarietà, era in realtà una filosofia adatta al costituirsi di nuove oligarchie e disadatta alla fondazione di un equilibrio comunitario come quello auspicato dalla Chiesa – e non a caso antepone, in un trinomio pur sentito come inscindibile, la fraternità agli altri due valori laddove la Rivoluzione francese, declinandoli, anteponeva ad essa la libertà e l’eguaglianza. È però evidente che tale sequenza era deleteria: libertà ed eguaglianza, esaminate nel contesto del valore prevalente e preponderante della Modernità, cioè dell’individualismo, sono di per sé valori intrinsecamente divergenti e concettualmente contraddittori: il crescere dell’uno comporta fatalmente il decrescere dell’altro, e viceversa. L’equilibrio tra libertà ed eguaglianza, che solo può moderare le distruttive pulsioni egoistiche in entrambi presenti, è costituito dalla fraternità. Che tuttavia non è autosufficiente in quanto non è “autarchica”, cioè non basta a se stessa, se non è sostenuta da un principio per definizione metafisico senza il quale l’essere umano è hobbesianamente homo homini lupus. Il fondamento della fraternità universale non può essere autonomo: se tale fosse, la ragione umana potrebbe respingerlo nel nome della Ragione o dell’Arbitrio, cioè della Volontà di Potenza. Ma interviene l’Amore, come Suprema Legge: e di essa Dio è garante per mezzo della Sua Grazia, come papa Bergoglio sottolinea col supporto di Tommaso d’Aquino (comma 93). A comprovare il carattere profondamente antilluministico e antimoderno della “Fratelli tutti” bastino i due commi 103-105: in particolare l’inizio del 105, “L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità”. E torna qui il concetto di Bene comune, che insieme con quello della funzione sociale della proprietà e dell’uso comune dei beni creati (commi 118-120) Tommaso d’Aquino desume sì da Aristotele, ma alla luce innovatrice e vivificante del Vangelo: “la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio” (comma 110)» (4)

ed ancora

«Ciò distingue papa Bergoglio dal suo modello ispiratore, il Povero d’Assisi. Frate Francesco viveva in un mondo duro e crudele, ch’era però pur sempre una società cristiana: ai suoi tempi, il fedele poteva scegliere fra molti modi e stati di vita, tutti religiosamente legittimi se esercitati in ossequio alla disciplina della Chiesa e in retta coscienza. In quei tempi Francesco poteva praticare e proporre la sua via, quella che con commovente lucidità propone nel suo Testamento: senza tuttavia pretendere – Francesco non era Lenin – che tutta la società si adattasse al suo “sacrum commercium cum domina Paupertate”. Oggi non è più così: in tempi di trionfo del culto pagano di Mammona e nei quali la maggior parte dei fedeli della stessa Chiesa cattolica sono ridotti ad esser divenuti “cristiani sociologici”, valutati come tali solo in quanto hanno avuto accesso ad alcuni sacramenti, Bergoglio ci ricorda che la via per rimanere cristiani, se si vuol fare tale scelta, è una e una sola: quella appunto della fraternità tra le persone, le comunità e i popoli, nel rispetto delle diversità – che non annullano l’eguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio, ma al contrario la qualificano (e si veda nel “Fratelli tutti” il paragrafo dedicato all’“Identità cristiana”, stranamente “ignorato” dai critici “identitaristi” e “sovranisti” del documento) – e nel ritorno a una vita cristiana che sia tale anche dal punto di vista sacramentale. Anche in ciò, se la scelta della Modernità è postcristiana-anticristiana, quella della Chiesa di Bergoglio è postmoderna-antimoderna: il suo impegno ultimo sta nella convergenza della fraternità, della libertà (comunitaria prima e piuttosto che individuale) e dell’eguaglianza (nel senso della distribuzione di pari opportunità a tutti i membri del genere umano, quindi nella riduzione il più possibile rigorosa di quella “forbice socioeconomica” che sta dividendo oggi gli arci-ricchi, in numero sempre minore, dalla massa proletaria e sottoproletaria mondiale che si va espandendo mentre si assottigliano in modo allarmante i ceti medi). Un’inversione di tendenza di questo trend nel nome della carità e della giustizia s’impone, anche come garanzia suprema di una sicurezza e di una stabilità candidate in caso contrario a compromettersi sempre di più fino al collasso. Ci voleva un papa gesuita, e un papa latino-americano, per affermare tutto ciò con questo coraggio e con questa lucidità. Non dimentichiamo che una delle ragioni per la quale i capitalisti europei del XVIII secolo, che si arricchivano giocando in borsa le azioni delle compagnie commerciali (tra le quali c’erano anche quelle dei negrieri: e il signor di Voltaire faceva soldi con quella roba), guidati dal ministro portoghese Pombal, chiesero – e ohimè ottennero – che i regnanti europei insistessero presso la Santa Sede affinché fosse sciolta la Compagnia di Gesù, che nelle sue reducciones del Guarany, tra Argentina, Uruguay e Paraguay attuali, inquadravano gli indios e li armavano per insegnar loro ad opporsi alle incursioni dei cacciatori di schiavi, i paulistas. Il vescovo dalle scarpe vecchie e pesanti che anni fa viveva nelle Vilas Miserias argentine è uno fatto di quella pasta: e Dio lo benedica» (5).

Su La Verità dell’8 ottobre Veneziani ha rincarato la dose della sua critica accentuandone il lato conservatore, financo per certi aspetti neo-liberale, laddove contesta al Papa di guardare altrove, alla Cina, e non all’“America cristiana” ed all’“Occidente cristiano”. Veneziani non fa alcuna distinzione tra Cattolicesimo e protestantesimo o tra mondo anglo-atlantico ed Europa e tutto sembra voler risolvere nell’“Occidente”, presunto faro di civiltà (6).

Orbene, per quanto molti dei rilievi di Veneziani siano condivisibili, tuttavia resta innegabile che l’enciclica papale, ispirandosi a San Francesco, assume a modello un Cristianesimo prototipo dell’“Anti-Modernità” posto che la Modernità compare, sulla scena storica, nell’apoteosi dell’“Io” assoluto, tanto nella forma individualistico liberale quanto nella forma collettivistico comunista. Il nocciolo profondo della modernità è nel profitto, nella conquista del mondo a scapito dell’anima, nell’oltre-passamento di ogni limite ad iniziare da quegli etici. Francesco, che nel 1221 si rivolgeva ai suoi “fratres” esortandoli a seguire l’esempio del Buon Pastore che ha dato la Vita in Croce per salvare le pecore del suo gregge, è invece l’esempio concretamente storico, con valenze trans-storiche, della rinuncia ad ogni forma di Potere, Lussuria ed Usura, ossia alle componenti che, secondo Thomas Stearn Eliot, hanno forgiato il “dogma trinitario” della Modernità. Ed è a tale esempio che, comunque si voglia giudicare l’enciclica, Papa Bergoglio ha voluto ispirarsi.

«Apostata, a mio modestissimo parere, – scrive l’amico David Nieri – è il buco nero nel quale l’Occidente è malamente precipitato … che oggi ci invita ad abbracciare l’individualismo, l’indifferenza, la religione del Nulla, la sfrenata rincorsa al piacere personale, ovvero tutti quegli ingredienti di un “ideale” portato all’eccesso, il liberalismo senza libertà» (7).

ETTORE GOTTI TEDESCHI

Ancora su La Verità dell’8 ottobre scorso, in contemporanea con Veneziani, un’altra importante riflessione sull’enciclica del Papa ci è stata offerta da Ettore Gotti Tedeschi, che a suo tempo ha collaborato alla stesura della “Caritas in Veritate” di Papa Benedetto XVI.

Ettore Gotti Tedeschi è un banchiere di provata competenza ed esperienza. Convinto liberista, antikeynesiano, ritiene che il principale problema economico attuale sia il calo demografico che causa la contrazione della domanda. A nostro giudizio, questo approccio è, nonostante tutto, a suo modo keynesiano, dato che il sostegno alla domanda aggregata consta anche dell’aumento della popolazione, laddove invece le politiche neomalthusiane degli organismi mondialisti, intese al contenimento demografico, finiscono per deprimere la domanda su scala globale. Sostenitore della matrice cattolica (francescana, per  inciso) del “capitalismo buono” opposto al “capitalismo cattivo”, esito quest’ultimo della deviazione protestante, Gotti Tedeschi è l’esponente tipico, post-conciliare, dell’allineamento del conservatorismo cattolico – che non nasce liberista … anzi! –,  al neoliberismo sulla scia dei “teologi del catto-capitalismo” come Michael Novak. Stando, tuttavia, ad una recente intervista, rilasciata all’ “Osservatorio Globalizzazione” (8), il noto banchiere sembra aver in parte abbandonato il suo liberismo accettando persino l’ipotesi di nazionalizzazioni e quindi l’idea di uno Stato interventista in economia. Di fronte alla dura replica della realtà, il “costruttivismo liberista”, quello che loda in astratto le virtù miracolose del libero mercato, sembra venir meno (9).

Nella sua riflessione sul documento papale, Gotti Tedeschi esprime la preoccupazione che  l’enciclica sia più un programma politico che un appello alla “conversione del cuore” che è l’unica vera via per realizzare l’amore. La via, appunto, di san Francesco. Giustamente, Gotti Tedeschi, ricordando che san Tommaso Moro non ha affatto inteso la sua “isola immaginaria” alla stregua di un possibile modello concreto, annota come l’amore in astratto per l’Umanità diventa utopia sovente sanguinaria. Nella storia moderna, in effetti, l’utopia è sempre stata imposta con la forza e con esiti tragici. In questo Gotti Tedeschi ha pienamente ragione. Tuttavia la domanda conseguenziale, che egli però non sembra porre, è: quanti tra i cattolici, lungo i secoli, hanno effettivamente convertito il proprio cuore? I fatti ci dicono che, purtroppo, la conversione del cuore è un cammino lungo e difficile per gli stessi cristiani, benché il Signore sia sovente intervenuto donandoci preziosi esempi di santità concreta per dimostrarci che la grazia di Cristo può davvero cambiare il cuore dell’uomo. Senza la  personale “conversio” da parte di ciascuno di noi che ci diciamo cristiani, qualsiasi critica, pur dottrinalmente ineccepibile, all’enciclica di Papa Bergoglio resta mera retorica e rischia, magari inavvertitamente, di favorire il “mascheramento etico” dell’avidità accumulativa – l’“individualismo” condannato da Papa Francesco – che alberga, causa peccato d’origine, in ogni uomo.

Pur non negando affatto che per grazia di Dio sia un evento sempre possibile, riteniamo oggi più difficile di ieri la conversione del cuore in un mondo nel quale il denaro ha assunto un ruolo a tal punto egemone da autoriprodurre sé stesso in modo sempre più emancipato dall’economia reale, anzi usurando e danneggiando più che mai chi lavora e produce. Papa Bergoglio, in diversi passaggi della sua enciclica, in linea con il tradizionale magistero della Chiesa, punta il dito contro la finanziarizzazione dell’economia. In questo l’enciclica dipende in modo del tutto evidente dalla dottrina teologica dell’Aquinate. Anzi, in questo, essa dipende direttamente dall’insegnamento stesso di Nostro Signore (cfr. Luca 6, 34-35). Ha dunque pienamente ragione chi, come Gotti Tedeschi, ci ricorda che per mettere in pratica l’insegnamento di Cristo è necessaria la “conversione del cuore”, la quale ci aiuti a stabilire quantomeno un modus vivendi tra esigenze della Carità ed esigenze dell’economia, come appunto a suo tempo hanno tentato di fare i francescani inventando i monti di pietà, e tuttavia bisogna evitare, da un lato, di cadere nel facile moralismo e, dall’altro, insinuare che, sotto il profilo etico, l’enciclica sia in rottura con il Depositum Fidei. Papa Bergoglio, al contrario, ha inteso mettere il dito nella piaga dei mali dell’economia capitalista liberatasi da ogni remora etica e sociale. Sovviene alla memoria, in proposito, l’episodio evangelico (Mt. 19, 16-30) dell’incontro tra Cristo ed il giovane ricco “timorato di Dio” ed ossequioso verso i comandamenti. Toccato nel suo attaccamento alle ricchezze, inevitabile per ciascun uomo, povero o ricco, il giovane interlocutore di Nostro Signore si ritirò dispiaciuto. Allorché Gesù Cristo formulò il noto ammonimento per cui “è più facile per una corda di pelo di cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei Cieli”, per poi aggiungere – onde tranquillizzare i suoi discepoli umanamente preoccupati dal fatto che a tali condizioni in pochi avrebbero potuto conseguire la salvezza – che, tuttavia, “a Dio tutto è possibile”. Con ciò indicando nella Potenza trasformatrice di Dio l’unica forza in grado di “convertire il cuore”, anche quello dei ricchi se, ben disponendosi nei confronti dell’azione della Grazia, avessero saputo modificare i propri comportamenti socio-economici tendenti all’autoreferenzialità.

Il denaro di per sé può essere strumento di bene ma troppo spesso, a causa della nostra fragilità ontologica post-adamica, è invece motivo ed occasione di esercizio della volontà di potenza. Mentre Papa Francesco firmava la sua enciclica, le vicende del cardinal Becciu hanno svelato che la seduzione del potere, offerta dal denaro, cova anche in Vaticano. «La finanza vaticana – ha scritto Il Tempo del 9 ottobre scorso – scommetteva sulla morte delle aziende in crisi. Un “gioco d’azzardo” molto poco etico, quello al centro della nuova puntata de l’Espresso sui fondi della Segreteria di Stato negli anni in cui era guidata dall’allora Sostituto, il cardinale Angelo Becciu, poi allontanato da Papa Francesco. Tra i movimenti emersi nei rendiconti, riporta Repubblica, emergono infatti “investimenti in credit default swap , in compagnie petrolifere di dubbia fama, passaggi in banche maltesi e svizzere indagate per corruzione, finanza speculativa con base in paradisi fiscali”. Non solo. I derivati che scommettevano sull’affidabilità del colosso dell’autonoleggio Hertz, poi fallito. Ma anche sulle obbligazioni della Tullow Oil, compagnia petrolifera irlandese accusata di corruzione e di aver provocato un disastro ambientale in Uganda».

Vecchia storia, questa, della corruzione ecclesiastica. Del resto Lui ci ha avvertito: “oportet ut scandala eveniant” (Mt. 18,7) ammonendo tuttavia “guai però all’uomo per opera del quale avviene lo scandalo”. Marcinkus e Becciu non sono stati i primi e non saranno gli ultimi a riempire le cronache dei misfatti finanziari, e non solo, degli alti prelati. Tra gli apostoli, non a caso, la cassa era amministrata da Giuda. In linea con i nostri tempi di finanziarizzazione globale, la vicenda di Becciu, più che nel tradizionale malaffare, deve essere tristemente ascritta al novero della vera e propria speculazione ai danni di chi lavora e produce. Si tratta di una aggravante. La credibilità del cristiano è innanzitutto questione di conversione del cuore. Ma molti prelati, anche conservatori, sono ben lontani dalla conversione.

Sul problema del carattere “politico” dell’enciclica è intervenuto ancora Franco Cardini: «Un’enciclica “politica”? Senza dubbio: tutti i nostri atti sono “politici”. Ma di quella politica che – come replicava nel 1931 Pio XI a chi da parte fascista lo accusava di “politicantismo” – è legittimamente tale perché “tocca l’altare”. E il malessere di milioni di persone, la mancanza di casa e di lavoro, la migrazione coatta di chi si vede sottratti in patria i mezzi di sussistenza, la fame e la malattia incurabili in quanto non si hanno i mezzi economici per farlo, richiedono misure politiche che obiettivamente, inevitabilmente “toccano l’altare”. Obiettare pertanto che “il papa biasima la proprietà, ma ignora Cristo” è un non-senso dettato dalla mancata lettura o comunque dalla totale incomprensione del documento pontificio. Accusare Bergoglio di aver edito un documento “ideologico” in quanto egli espone sacrosanti rilievi nei confronti di liberismo, populismo e sovranismo equivale a negargli libertà di critica e limitare quindi la libertà del suo Magistero: allora, perché non si accusa Pio XI di aver emesso encicliche ideologiche quando con la “Mit brennender Sorge” attaccava la “statolatria pagana” dei nazionalsocialisti o quando con la “Divini Redemptoris” denunziava “il comunismo ateo”? Per quale ragione ontologica l’attacco nei confronti di nazismo e comunismo è lecito e quello contro liberismo e populismo no?» (10).

Cardini ha pienamente ragione. Come mai le parole di un Papa diventano inopportuna ingerenza politica quando condannano il liberismo ma non quando si oppongono al comunismo o, agli occhi della destra più radicale, al neopaganesimo statolatrico? Tuttavia Cardini non sembra avvedersi dell’errore – ci torneremo – contenuto nell’enciclica di accomunare sit et simpliciter “populismo” e “liberismo”, che in realtà sono due cose differenti e spesso opposte (non a caso i più coerenti liberisti, vedi Mario Monti o Mario Draghi, sono anti-populisti) mentre mostra di avere un approccio alquanto “romantico” verso gli immigrati, considerate sempre e comunque vittime. Le statistiche ed anche, purtroppo, le concrete cronache quotidiane raccontano troppo spesso di migranti affatto, in assoluto, poveri che delinquono e soprattutto dei grandi profitti che scafisti e “volontariato” lucrano su di essi. D’altronde Cardini nulla dice sulle motivazioni che spingono molti italiani, che non sono affatto razzisti o biechi esaltatori del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco”, ad esprimere simpatie per le politiche di contenimento e regolarizzazione dell’immigrazione. Assistere a quotidiane scene di timorosa tolleranza delle pubbliche Autorità verso i comportamenti delinquenziali dei presunti disperati, a fronte di una durezza inusitata da parte delle stesse Autorità verso i cittadini autoctoni, porta inevitabilmente molti italiani, soprattutto tra i ceti popolari che temono la concorrenza economica dei nuovi arrivati, a nutrire sentimenti di approvazione verso i populisti. Ma la colpa è loro, dei cittadini, o delle abdicanti Autorità sottomesse al dogma globalista egemone e pertanto inadempienti nel far rispettare le leggi e troppo sollecite nell’anteporre i migranti agli italiani nei diritti sociali e nell’acceso ai servizi pubblici? A bussare alle nostre porte spesso non sono poveri nell’atteggiamento di chi, con umiltà, porge la mano ai fratelli ma giovani africani, solitamente alloggiati in hotel extralusso a spese dei contribuenti: questi ultimi, sì!, sempre più impoveriti dagli esiti fallimentari della globalizzazione. Troppo spesso i migranti sono soltanto in cerca delle commodities occidentali, dal telefonino all’auto ultima versione. Altro che importatori di “nuovi valori pauperistici” come cianciano la “anime belle” del nostrano terzomondismo culturalmente accattone, dalla Boldrini in giù.

NICOLA PORRO

Un altro contestatore, di scuola liberista, del Papa è il noto giornalista ed anchorman televisivo Nicola Porro il quale sul suo sito ha pubblicato un duro attacco al Pontefice per l’enciclica. Porro ha indicato, quale ispiratore del Pontefice, il vescovo salvadoregno, martire, Oscar Arnulfo Romero, erroneamente qualificato come “teologo della liberazione”. Un vistoso svarione che ogni buon cattolico dovrebbe rispedire al mittente. Romero teologo della liberazione?! Non la pensava così Giovanni Paolo II quando, in visita in San Salvador, ruppe il protocollo per pregare sulla tomba del martire. Romero fu ucciso, durante la Santa Messa, dagli sgherri dei latifondisti che sfruttavano i campesinos. In occasione della sua visita nel piccolo Paese latinoamericano, Papa Wojtila affermò pubblicamente che “Romero è nostro” per così sottrarlo alla accusa di essere stato un prete marxista. Smontando la leggenda, che solo perché difendeva i contadini ne aveva fatto un filomarxista, Giovanni Paolo II sbloccò la causa di canonizzazione di Romero rimasta incagliata per quella falsa narrazione sulla sua figura. Molti tradizionalisti ignorano che Romero a malincuore accettò certe riforme del Vaticano II. Voleva che i suoi preti continuassero a portare la talare e con difficoltà abbandonò l’uso del latino liturgico. Il suo tradizionalismo non gli impedì tuttavia, come giusto, di difendere i contadini. E li difendeva in nome della Dottrina Sociale Cattolica, non in nome di Karl Marx. Romero avrebbe voluto per il suo Paese un governo “centrista”, non marxista. Papa Wojtila lo ha canonizzato in quanto martire della fede. Insomma i liberisti alla Porro non la raccontano giusta. Le loro critiche non sono affatto mosse da preoccupazioni di fede ma da motivi politici. All’ultima enciclica di Papa Francesco possono avanzarsi critiche per altri aspetti – li vedremo – ma non perché condanna l’individualismo. In questo infatti è perfettamente allineata con Tradizione e Magistero. Non dimentichiamo che l’individualismo è, sin dagli albori della Modernità, un agente della scristianizzazione e che il suo fondamento originario è nell’“eritis sicut Dei” di Genesi 3,5. Nicola Porro, che applaude alla globalizzazione capitalista, si lamenta perché Papa Bergoglio insegue, a suo giudizio, un modello di globalizzazione terzomondista che piace molto alla sinistra arcobaleno. Ma se Papa Bergoglio appoggiasse la globalizzazione finanziaria e capitalista per Porro non ci sarebbero problemi. E’ ora che i cattolici, in particolare quelli tradizionalisti, si mettano bene in testa che i liberisti non sono i loro amici ma sono nemici di Cristo come, se non più, lo sono stati gli ormai quasi estinti comunisti. Nei rapporti con i liberisti ed i liberali, un cattolico dovrebbe seguire la regola magna per la quale: “dai nemici mi guardi Iddio che dai falsi amici mi guardo io!”.

DESTINAZIONE UNIVERSALE DEI BENI

Su “Il Giornale”, nei giorni scorsi, campeggiava un articolo nel quale, sin dal titolo, si puntava l’indice contro Papa Bergoglio per aver messo in discussione la “sacralità” della proprietà privata. Leggendo poi l’articolo si veniva a scoprire che, per il suo autore, lo scandalo stava nel fatto che il Papa ha parlato della proprietà come di una “funzione sociale”. Può essere che per il quotidiano di Sallusti questa sia una novità ma non per il magistero sociale cattolico che ha sempre escluso una concezione assolutista della proprietà. Si tratta di uno degli insegnamenti ricorrenti e fondamentali nella Dottrina Sociale Cattolica. Un insegnamento le cui radici, se si fa attenzione, sono radicate nel Vangelo stesso. Ciò che oggi, con terminologia meno spirituale e più didascalica, il Magistero definisce “destinazione universale dei beni” non è una invenzione di Papa Francesco ma è contemplato a chiare lettere nel Catechismo, e non solo in quello di san Giovanni Paolo II ma anche, sotto altra forma, in quello di san Pio X.

Anzi, l’appartenenza di detto principio all’etica cristiana è testimoniata, lungo i secoli, dagli scritti di innumerevoli Papi, Santi e Mistici che, trattandone in chiave caritativa, hanno sempre indicato nella condivisione fraterna un segno della trasformazione interiore dell’uomo per opera della Grazia Divina. Il termine “condivisione” significa “dividere insieme” e quindi rimanda direttamente all’idea di una redistribuzione dei beni con assegnazione di una quota degli stessi a ciascuno dei componenti la comunità. Non, pertanto, un accentramento con attribuzione delle proprietà all’ente astratto designato a rappresentare impersonalmente l’insieme delle persone in comunione, ossia ciò che noi moderni chiamiamo statualizzazione. La Cristianità medioevale non ha conosciuto una concezione assoluta, ossia individualista, della proprietà, come quella moderna. Nei secoli medioevali sussisteva una forte confusione tra proprietà e possesso. Una confusione della quale è prova, in quei secoli, la fitta rete di usi civici e comunitari sulle terre signorili, come anche il demanio comune, che finivano per limitare il potere nobiliare, mentre in ambito cittadino le Arti, nonostante le loro gerarchie interne, organizzavano in modo condiviso, non concorrenziale, la produzione “industriale”.

La “destinazione universale”, nel magistero sociale cattolico, è sempre stata intesa non come comunismo ma come redistribuzione dei beni. Beni attribuiti, mentre vengono condivisi o distribuiti, alle persone e non a fredde entità burocratiche. L’etica sociale cristiana è di per sé intrinsecamente distributiva. Come aveva compreso Gilbert Keith Chesterton che, non a caso, chiamò la sua proposta di riforma sociale “distributivismo”. Non potendo esistere giuridicamente beni senza proprietario, il comunismo – quello reale e non quello immaginario, ed utopico, che tale resterà sempre – lungi dall’essere “proprietà popolare” altro non è che “proprietà di Stato” (d’altronde legittima, questa, oggi in certi ambiti come il demanio pubblico, i beni culturali, le fonti energetiche, le strutture scolastiche e sanitarie ed anche in certe industrie chiave per l’indipendenza nazionale o perché “monopoli naturali”). Il comunismo non ha nulla a che vedere con un approccio redistributivo della ricchezza. Tanto è vero che, nei sistemi comunisti, la ricchezza resta accumulata al vertice della gerarchia politica e sociale, in mano alla nomenklatura, mentre la base popolare della piramide sociale è costretta alla miseria. Nella proprietà di Stato, infatti, le facoltà ed i poteri insiti nel diritto di proprietà sono esercitati, e goduti, dagli amministratori pubblici e non dai membri associati della comunità popolare. La narrazione degli Atti degli Apostoli, 4,32-35, sulla condivisione dei beni nella prima comunità cristiana, troppo spesso citata per supporre la sussistenza di una prassi comunistica nel Cristianesimo nascente, dice ben altro (11). Nella prima comunità cristiana i beni erano consegnati all’Autorità sacrale la quale li redistribuiva a seconda delle necessità di ciascuno ed in modo che nessuno fosse privo di mezzi di sussistenza. Non si trattava della statizzazione, posto anche che lo Stato moderno non esisteva ed era ben lungi dall’apparire sulla scena storica quale forma del Politico. Non si trattava pertanto dell’attribuzione della proprietà ad un ente astratto ed impersonale, manovrato dagli amministratori (12). Era, quella apostolica, distribuzione dei beni alle membra della comunità dei fedeli, ossia alle singole persone. Gli Apostoli non trattenevano per sé i beni loro consegnati ma li distribuivano ai fedeli in modo equo, che non significava per forza in modo egalitario sussistendo evidenti diversità tra il padre di famiglia e chi non aveva figli. La nomenklatura sovietica, invece, accentrava nelle proprie mani, dietro il paravento giuridico della “proprietà di Stato”, i beni pretendendo di amministrare, e godere, le proprietà nazionali in nome e per conto del popolo. A quest’ultimo, in teoria, sarebbe spettata la redistribuzione della ricchezza prodotta dalle industrie di Stato ma in realtà, in assenza di produzione, mortificata dalla pianificazione centralista, al popolo non restava altro da spartire che la miseria nelle lunghe fila davanti ai negozi semi vuoti, mentre i privilegiati di partito godevano dei beni dirottati negli spacci a loro riservati.

Un fine giurista come Giacinto Auriti perorava la “proprietà di popolo” piuttosto che quella di Stato. Probabilmente Auriti oggi sarebbe accusato di essere “populista”. E’ innegabile che molti giocano sulle apparenti similitudini per dare della “destinazione universale dei beni” una interpretazione comunista piuttosto che distributivista. Tuttavia affermare che in tema di concezione cristiana della proprietà ci sarebbe nell’enciclica di Papa Bergoglio una rottura con il precedente Magistero è scorretto. Già nella “Rerum Novarum” di Leone XIII (1891) il principio guida era quello della “proprietà per tutti” e, quindi, anche della “comproprietà”, la quale giuridicamente ha anche il nome, significativo, di “comunione” e discende dall’istituto romano della “communio”. Non la collettivizzazione, dunque, ma la condivisione comunitaria dei beni tra persone membra della stessa Comunità politica. Condivisione la quale non può che realizzarsi favorendo la più ampia possibile diffusione della proprietà privata popolare. Cosa che implica, è evidente, politiche intese alla (re)distribuzione ed alla benefica circolazione dei beni piuttosto che intese all’accumulazione finanziaria e capitalista nella forma delle società anonime come anche all’accumulazione statualistica nella forma della nazionalizzazione integrale di tutti i beni e mezzi di produzione. Se un comunista coerente non può non invocare la collettivizzazione, ossia la statizzazione, delle terre, il cristiano sceglie la quotizzazione per distribuire la terra a chi la lavora, come, ad esempio, tentò di fare Pëtr Arkad’evič Stolypin, il ministro riformatore russo di epoca zarista (13). Siamo davanti a differenti strategie sociali con esiti differenti e storicamente comprovati. Nell’Unione Sovietica di Stalin la carestia conseguente alla collettivizzazione forzata provocò, in Ucraina, 11 milioni di morti (l’Holodomor, degli anni ‘30). La riforma agraria realizzata nell’Italia del dopoguerra – le cui basi erano state già poste nel periodo precedente la guerra con l’assegnazione delle terre bonificate ai contadini – ha invece redistribuito il latifondo creando aziende rurali a coltivazione diretta che hanno contribuito allo sviluppo nazionale. Se è vero che Marx auspicava la scomparsa dello Stato, quando l’uomo nuovo comunista avrebbe creato un sistema produttivo spontaneamente funzionante nell’assenza (non nella diffusione!) della proprietà, in realtà le forme storiche del comunismo, nessuna esclusa, non sono riuscite ad andare oltre la statualizzazione della proprietà, quindi oltre la proprietà di Stato posseduta dalla nomenklatura di partito, perché, come detto, non è possibile, salvo il caso delle “res nullius”, che sussista un bene senza proprietario.

QUALI DUNQUE LE “DEBOLEZZE” DELL’ENCICLICA?

Le riserve sull’enciclica di Papa Bergoglio, per quanto fin qui detto, non possono attenere ai suoi aspetti sociali ma semmai a quelli di ordine più teologico laddove, a nostro giudizio, secondo un approccio che non è certo soltanto del Pontefice regnante ma che investe ormai da decenni l’intera teologia contemporanea, non viene ben demarcata e ribadita la distinzione analogica tra piano spirituale e piano naturale. Un tragico equivoco che produce l’immagine di una Chiesa prona al mondo, prona al globalismo (non importa se poi di segno occidentalista, come vorrebbero i conservatori, o di segno terzomondista, come vorrebbero i modernisti).

«Per fugare ogni dubbio al riguardo – scrive Franco Cardini –, va anzitutto chiarito che pur ammesso (e sospendo il giudizio su quanto possa essere anche concesso) che il Concilio Vaticano II, del quale secondo molti la “Fratelli tutti” sarebbe coerente prosecuzione, andasse nella direzione di quel che Jacques Maritain aveva definito “l’inginocchiarsi della Chiesa dinanzi al mondo”, la direzione intrapresa da Bergoglio è totalmente opposta. Il pensiero unico dell’ideologia mercatista, che pretenderebbe addirittura di sostituire le “libere leggi (sic) del mercato” alla funzione equilibratrice del potere pubblico (ed è appunto quanto purtroppo sta accadendo, con il deep state delle lobbies che guida i differenti poteri statali della terra riducendo la classe politica alla funzione di “comitato d’affari”), ha origine – “spontanea” sulle prime, poi teorizzata – nel primato dell’individualismo e del binomio economia-finanza sulla società europea a partire dal XVI secolo e nella sostituzione dell’economia-mondo al precedente sistema “a compartimenti stagni” di culture che poco o nulla comunicavano tra loro. Ciò ha determinato nel mondo l’avanzata dell’oppressione e dello sfruttamento colonialistici, alla quale ha corrisposto in Europa il processo di secolarizzazione e lo svuotamento pratico del messaggio cristiano anche in quei paesi nei quali, almeno fino al XVIII secolo, la Cristianità (che non equivale tout court al Cristianesimo) appariva trionfante» (14).

Benché bisogna riconoscere, sottoscrivendone il giudizio, che Cardini colga senza dubbio l’“antimodernità” di Papa Bergoglio, laddove la modernità si identifica soprattutto con l’egemonia dell’economia, ed in particolare dell’elemento finanziario su quello reale, tuttavia siamo meno entusiasti di lui riguardo al fatto che, se non l’enciclica, perlomeno l’uso che ne verrà fatto, che anzi già se ne sta facendo, non finisca per rappresentare una Chiesa maritaniamente “inginocchiata al mondo”. Purtroppo in un’epoca orwellianamente fondata sull’immagine mediatica, come la nostra, la rappresentazione vale più del contenuto effettivo.

Secondo Massimo Cacciari l’enciclica sarà poco letta (anche per le sue circa 130 pagine: un tempo le encicliche erano di 10-15 pagine, molto più sobrie) e soprattutto sarà molto poco ascoltata perché la globalizzazione, anche quella di ideali terzomondisti, non sa che farsene della Trascendenza ed anzi pretende di autofondarsi senza alcun altro riferimento se non quello della potenza umana. Il mondo applaudirà certamente Papa Bergoglio, come già sta facendo, ma soltanto perché – probabilmente a torto ma, come detto, ciò che conta nel mondo virtuale è la rappresentazione –  avverte i contenuti della sua enciclica troppo “a-cristici”, quasi privi del riferimento fondamentale ed invalicabile che distanzia il Cristianesimo dall’umanesimo, posto che quella dell’“umanesimo cristiano” resta una pia ed illusoria speranza di anime devote ma tiepide. Poco importa, purtroppo, che nei suoi contenuti effettivi l’impressione che, dell’enciclica, veicolano i media e che cavalcano i globalisti non corrisponda al vero. Quanti perderanno, come noi e come Cardini, il loro tempo in una riflessione esegetica su di essa? Per questo un maggior rigore nel rimarcare con forza la verità della distinzione analogica tra Trascendenza ed immanenza, in modo che nessun commentatore avrebbe potuto forzare il testo, a nostro umile giudizio sarebbe stato necessario.

Il rischio maggiore per l’enciclica di Papa Bergoglio è di prestare ingenuamente il fianco alla strumentalizzazione da parte di quelle forze economiche globaliste, pur criticate nel documento, che prosperano sulla transnazionalità e che guardano alle plurime identità storiche, culturali e spirituali, dei popoli – l’unica natura umana è comunque, per volontà divina, sempre modulata in modo diversificato e plurale – come ad “interruzioni del flusso finanziario” generatore, per il Vertice Mondiale del Capitale che vorticosamente sta portando il mondo al disastro, di profitti e di potere. La sinistra umanista – quella in Italia del Partito (pseudo)Democratico, dei Zingaretti, dei Renzi, dei Gentiloni, delle Boldrini e via elencando – che applaude a Papa Bergoglio è lo strumento, il braccio, politico del globalismo finanziario. Il suo ruolo è oggi di servizio per il Capitale Anonimo ed Apolide che ne usa l’utopia umanitaria e “no border” per dissolvere le plurime identità popolari nel calderone magno del Mercato Globale. Il punto debole dell’enciclica, a nostro giudizio, è questo ovvero una deficienza esegetica in ordine al globalismo quale “falso universalismo”. Un deficit che, per altro verso, si accompagna ad una dura ostilità – del resto per molti aspetti cristianamente giustificata – verso i sovranismi, però, va detto apertamente, incompresi nel loro carattere di disperata, benché inconcludente, ribellione al Potere Totalitario Planetario.

Uno dei  primi capitoli dell’enciclica ha per titolazione la dicitura “senza frontiere”. Una leggerezza lessicale che finisce ,probabilmente involontariamente, per prestare il fianco ai globalisti la cui prospettiva è l’utopia del “no border” funzionale, anche quando si tratta del globalismo di segno anarco-terzomondista, alla strategia del capitale multinazionale intenta, per l’appunto, a realizzare un mondo unificato in nome del Mercato Mondiale. L’unificazione del mondo nel totalitarismo di mercato, infatti, per affermarsi ha bisogno dell’accettazione universale dei “diritti Lgbt” – espressione di una cultura iper-individualistica che favorisce il consumo futile e la reificazione della sessualità sulla base di una libido portata al soggettivismo estremo – e dell’abbattimento delle identità popolari come dei confini nazionali allo scopo di non interrompere il circuito finanziario globale che alimenta il capitalismo multinazionale. Ossia del capitalismo terminale responsabile, poi, della depredazione del terzo mondo che provoca gli esodi, contro cui insorgono i populismi, nonché la guerra tra poveri dell’Occidente e poveri delle periferie del mondo. Mentre è giustamente respinto per il suo carattere tribale e xenofobo (15), fa difetto nell’enciclica lo sforzo per meglio comprendere le cause del populismo. Ci si limita a dire che esso è “peccato”, ma questo non basta. Il populismo è la disperata reazione al globalismo delle multinazionali e, per questo, non può essere sic et simpliciter condannato senza contemporaneamente riconoscere quanto di autentico può esserci in esso, come fece, a suo tempo, Jacques Maritain nei confronti dei fascismi che pur respingeva ma dei quali invitava a non far cadere i motivi profondi da cui essi trassero la loro forza poi piegata a finalità  incompatibili, se radicalizzate in senso neopagano, con la prospettiva cristiana.

Dispiace inoltre che nell’enciclica populismo e liberiso siano accomunati in modo del tutto acritico. Si tratta di un errore di valutazione grave e molto vistoso che fa intravvedere l’incompetenza filosofico-politica di padre Antonio Spadaro, consulente del Papa. Come ha osservato Claudio Cerasa: «Combattere la  chiusura, come chiede il Papa, significa chiedere di combattere anche chi, come il Papa, invita a diffidare in economia della società aperta. (…) l’enciclica di Francesco aiuta a smontare la dottrina economica del suo Pontificato» (16). Cerasa, che è liberista, ricorda al Papa che laddove trionfa la società aperta trionfano liberismo e individualismo sicché nella misura in cui l’ostilità pontificia per i populismi è motivata, come sembra potersi desumere dal tenore dell’enciclica, dalla loro autorefenzialità  non inclusiva – che, come abbiamo già osservato da parte nostra, spesso è soltanto difesa scomposta dall’aggressione del capitale finanziario transnazionale – egli cade nell’equivoco per il quale essi sarebbero l’espressione delle peggiori tendenze egoistiche del capitalismo liberista. Qui il giudizio  pontificio è strabico perché se è vero che esistono populismi liberisti e grossolani, come quelli di Trump e Bolsonaro, se è vero che ideologi alla Bannon cercano di strumentalizzare la fede spogliandola di ogni riferimento autentico alla Trascendenza per ridurla a mera componente storico-culturale dell’identità nazionale, è altrettanto vero che sulla scena politica si sono fatti avanti anche populismi socialisti, di sinistra, come “France Insoumise” di Jean-Luc Melenchon in Francia (così attiguo al lepenismo socialpatriottico), che si oppongono alla globalizzazione in nome di un sano pluralismo identitario non aggressivo verso l’altro da sé e, quindi, non xenofobo. Manca insomma nel magistero di Papa Bergoglio il necessario approfondimento sull’argomento populismo che sappia cogliere le differenze interne ad un fenomeno complesso e variegato. Papa Francesco si limita a racchiudere tutto il fenomeno in una generica condanna, per molti aspetti giusta e necessaria, a causa della strisciante xenofobia, ma nel complesso troppo generica e poco meditata. Questa carenza meraviglia nel Papa argentino. Anche il peronismo, che lo stesso Bergoglio ha ben conosciuto nei suoi anni giovanili in Argentina, era un populismo ed oltretutto un populismo annoverabile nella categoria del “fascismo di sinistra”. In quanto tale il peronismo è assolutamente privo di contenuti xenofobi laddove la sua avversione era semmai rivolta verso il capitale straniero onde assicurare l’indipendenza economica nazionale. Nell’enciclica il Papa cerca di differenziare il populismo dal popolo probabilmente perché ha memoria dell’esperienza peronista nel quale l’anticapitalismo non si accompagnava alla xenofobia. Ciononostante il peronismo, cui egli aderì da giovane, resta pur sempre un populismo sicché, in proposito, si potrebbe perfino sospettare che nella avversione indiscriminata di Papa Bergoglio verso i populismi agisca un qualche  processo inconscio di rimozione del suo “peccato giovanile”.

« il Papa – osserva Francesco Boezi su “Il Giornale” del 5 ottobre scorso – ragiona sui migranti all’interno di un’opera in cui ribadisce la ferma contrarietà al sovranismo, al neo-liberalismo ed alle forme assolute di capitalismo. In realtà, anche il sovranismo ha spesso criticato la “finanziarizzazione” dell’economia reale, e dunque anche il sovranismo, in termini ideologici, è etichettabile come un avversario della “cattiva” distribuzione delle risorse mondiali (…). (…) Jorge Mario Bergoglio, quando indica le soluzioni, non favorisce le ipotesi di ripristino delle identità nazionali, ma suggerisce piuttosto la necessità di una “governance globale”, che passa anche dalla riforma dell’Onu: “La vera qualità dei diversi Paesi del mondo – fa presente il vescovo di Roma – si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici”. Il multiculturalismo [rectius, il globalismo], insomma, non può che rappresentare l’unica panacea. E questa è una riflessione che, con buone probabilità, non troverete tra i testi ratzingeriani (e woitiliani), molto più centrati sulla difesa delle singole tradizioni nazionali. E se non fosse sufficientemente chiaro basterebbe leggere quello che papa Francesco afferma poco dopo, sempre nell’enciclica firmata ad Assisi nella ricorrenza del Santo d’Italia: “Oggi nessuno Stato nazionale isolato – insiste Bergoglio – è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione”. I muri, insomma, sono un fenomeno autolesionista, mentre le aperture garantiscono fratellanza. Diventa quasi banale riavvolgere il nastro per ricordare come Ratzinger, d’altro canto, si sia distinto per aver messo nero su bianco una sorta di elogio del valore delle mura, degli inflazionati “confini”: “…i muri in ultima analisi siamo noi stessi e lo possiamo essere solamente nella misura in cui siamo pronti a lasciarci squadrare come pietre…”» (17).

In effetti, Giovanni Paolo II nella “Centesimus Annus” (1991), ai numeri 50 e 51, evitando di opporre fede e nazione e riconoscendo la legittimità naturale dell’appartenenza identitaria così si esprime: «Da tale ricerca aperta della verità, che si rinnova ad ogni generazione, si caratterizza la “cultura della Nazione”. (…). In questo contesto, conviene ricordare che anche “l’evangelizzazione si inserisce nella cultura delle Nazioni”, sostenendola nel suo cammino verso la verità ed aiutandola nel lavoro di purificazione e di arricchimento. (…). Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. (…). Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel “cuore dell’uomo” … ».

La nostra non vuole essere, naturalmente, una perorazione della causa dei populismi – le cui ambiguità, quelle che il Papa giustamente respinge, ci sono perfettamente note – ma solo una spiegazione del perché, a nostro giudizio, sembra sfuggire al regnante Pontefice il necessario collegamento tra globalismo quale azione e populismo quale reazione. Sicché, la mancata aperta riconferma di una chiara posizione di rifiuto teologico – si noti bene: teologico! – anche del globalismo inteso come “falso universalismo” o, con prospettiva addirittura escatologica, come “universalismo anticristico”, finisce per dare l’impressione  di un cedimento, per l’appunto teologico, ai globalisti.  Il Papa si fa così tirare per la tonaca da chi di Cristo e della Chiesa fa volentieri a meno perché ad essi basta l’Umanità (quella con la massonica “U” maiuscola) in quanto sono gli eredi di coloro che, a suo tempo, hanno perseguitato sia Cristo che la Chiesa innalzando strumentalmente quel principio di etica cristiana che è la “giustizia sociale”. Giustizia che, poi, essi non hanno mai per davvero realizzato, realizzando al contrario sistemi iniqui ed ingiusti come quelli criticati. Giustizia che solo la conversione del cuore, quella di Francesco d’Assisi, può veramente realizzare. Giustizia che non è contraria alla Caritas, anzi si basa su di Essa.

In sintonia con le preoccupazioni cristiane per la prospettiva anticristiana di un mondo unificato nella indistinzione  immanente prodotta dal mercato globale, Giulio Tremonti, in una intervista ad “Avvenire”, ripresa dal sito “Il Paragone”, ha sostenuto che siamo a un bivio storico con la possibilità di rivedere una volta per tutte le regole, a partire da quelle economiche, o di andare dritti verso la catastrofe del nulla spirituale che sarà anche catastrofe materiale. Per Tremonti la pandemia è stata «… l’incidente che ha messo fine ai trent’anni della globalizzazione costruita sulla divinizzazione del mercato. È il momento di una nuova Bretton Woods (…) [per interrompere] l’asimmetria tra economia e politica, tra regole e realtà che ha generato il disordine contemporaneo». Tremonti, a differenza di altri commentatori, coglie il lato positivo della posizione di Papa Bergoglio laddove dice che le strade possibili sono due: «O si fa marcia indietro, con il rischio di tornare ai nazionalismi, o si riscrivono le regole comuni (…). (…).Va ripensata l’architettura complessiva [in quanto se] (…) A livello globale è indubbio che le disuguaglianze siano diminuite (…) sono aumentate all’interno dei singoli Stati, perché il processo è avvenuto troppo rapidamente e quindi superficialmente. In questo senso, per esempio, le migrazioni sono un dramma soprattutto per i Paesi d’origine, che perdono forza economica, giovani, futuro. Il libero mercato, purtroppo, ha finito per idealizzare soltanto la ricchezza, a scapito delle Nazioni (…). (…) La deformazione ideologica del mercatismo ritiene che l’unico standard possibile sia mercato + democrazia. Ma la realtà è ben più complessa e bisogna ridare spazio all’intermedio: le patrie, dove riposano le ossa dei genitori, le comunità, le famiglie e quindi le singole persone. Il Papa ci ricorda che altrimenti l’individuo è livellato. E non può avere fratelli». Le osservazioni di Tremonti richiamano ancora una volta  il numero 50 della citata “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II laddove, dopo aver ricordato che fede e nazione non si oppongono, Papa Wojtila aggiunge che: «Quando, però, una cultura si chiude in se stessa … allora essa diventa sterile e si avvia alla decadenza».

Il problema del rapporto tra nazione e fede e della distinzione tra un legittimo identitarismo non aggressivo ed il nazionalismo xenofobo non è nuovo nel magistero, compreso quello preconciliare. In proposito il richiamo immediato è alla “Mit brennender sorge” (1937) di Papa Pio XI laddove Papa Sarti denunciava, sebbene in un ben più tragico contesto, il nazionalismo neopagano proprio mentre elogiava il sano patriottismo naturale e cristiano: «Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi e, divinizzandoli con culto idolatrico, perverte e falsifica l’ordine, da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme. (…).Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio, Creatore del mondo, re e legislatore dei popoli, davanti alla cui grandezza le nazioni sono piccole come gocce in un catino d’acqua».

Marcello Veneziani, da parte sua, coglie nell’enciclica, gli stessi aspetti di debolezza che anche noi abbiamo indicato, benché egli, con una tonalità eccessivamente “cons” che a noi, come abbiamo detto, non piace, concede una patente di legittimità a personaggi ambigui come Trump. Il noto intellettuale infatti su La Verità dell’8 ottobre scrive che: « Bergoglio situa …la … Chiesa come terza via, nel mezzo tra due finti opposti: liberismo e populismo. Lo rimarca un altro suo esegeta e megafono, Andrea Riccardi, patron della Comunità di Sant’Egidio (“la terza via del papa tra liberismo e populismo”, Corsera). In realtà il sottinteso … è l’esatto contrario: liberismo e populismo, capitalismo e nazionalismo non sono opposti ma per [il Papa] … sono affini; anzi sono la stessa cosa. Da Trump in giù. E a questo proposito … Bergoglio conferma il pensiero di Del Noce sui catto-progressisti. (…). (…) Giovanni Paolo II, e … molti suoi predecessori, predicava davvero la terza via ma gli opposti da avversare erano il capitalismo individualistico e il comunismo liberticida ambedue nemici di Dio. E le nazioni, l’amor patrio, rientravano per quel papa a pieno titolo nel legame paterno e materno con la terra dei padri e la madrepatria».

MA CHI E’ IL “PROSSIMO” PER IL BUON SAMARITANO?

Nella misura in cui la fratellanza sul piano trascendente dello Spirito viene confusa con l’Umanità, che nega il legittimo pluralismo delle identità popolari e delle patrie – ossia le appartenenze comunitarie da Dio volute sul piano naturale ed immanente – si cade inevitabilmente in svarioni come quello di Luigino Bruni il quale, su “Avvenire”, ha elogiato l’enciclica perché a suo giudizio, in ordine ai migranti, avrebbe abbattuto le distanze tra vicino e lontano all’interno dell’alveo, guarda caso, dell’“Umanità”. Bruni tuttavia dimentica che il prossimo non è il lontano ma appunto il vicino. I  “comunitarismi”, che Bruni invita a dissolvere nell’indistinta globalità, ponendo in primo piano i legami naturali, culturali e storici, non fanno altro che porre un primato di solidarietà politica e sociale (mentre la Carità è altra cosa, per l’appunto spirituale) perché guardano al prossimo inteso come vicino dato che il lontano non può essere, se non altro per ragioni spaziali, prossimo.

Ambiguità come quelle di Luigino Bruni offrono il fianco all’arruolamento della Chiesa nel fronte dei globalisti ossia nelle schiere di coloro che mettono sullo stesso piano l’universalismo cattolico e la globalizzazione tecno-economica che mira alla realizzazione dell’auto-governo planetario dell’Umanità ateisticamente deificata. Papa Bergoglio, nella sua enciclica, non manca di riconoscere la legittimità del pluralismo identitario ma si ha l’impressione che esso resti secondario rispetto al “primato della migrazione”. Si giunge a ricomprendere, sic et simpliciter, nella destinazione universale dei beni il diritto dello straniero di aver parte al patrimonio della comunità nazionale presso la quale si trova senza aver contribuito, o prima di aver contribuito, alla formazione di detto patrimonio. Non si può chiedere ad una Comunità politica di anteporre i migranti ai propri cittadini così come non si può chiedere ad un padre di anteporre l’estraneo ai membri della propria famiglia. Ed infatti l’etica cristiana non lo ha mai chiesto. L’accoglienza dello straniero è doverosa, per il singolo cristiano, sul piano spirituale – laddove il cristiano dovrà adoperarsi caritativamente, anche con i propri beni, per l’immigrato effettivamente bisognoso – ma non sul piano della Città politica alla quale gli stessi cristiani appartengono per natura restando, secondo il principio di prossimità, legati innanzitutto ai propri connazionali. D’altro canto anche lo straniero, indifeso e povero, diventa prossimo per spazialità quando bussa alla porta di casa o alle frontiere nazionali. Ma mentre la Carità della Chiesa non può avere confini di sorta, la solidarietà dello Stato ha limiti e soprattutto non può non prevedere una regolamentazione dell’accoglienza onde evitare il disordine indotto dalle conseguenti tensioni sociali o anche solo dalla paura. Si tratta di un difficile equilibrio, per il cristiano, quello tra la Carità e l’appartenenza naturale al proprio gruppo nazionale e sociale. Un equilibrio che tuttavia non è possibile realizzare semplicemente offuscando la distinzione dei diversi piani ontologici.

«[Il] centro concettuale della “Fratelli tutti” – scrive Franco Cardini –  [è] … lo splendido capitolo secondo “Un estraneo sulla strada” (commi 56-86), dove partendo dal vangelo di Luca, 10, 25-37, attraverso una magistrale concordanza di passi vetero- e neotestamentari, si giunge alla grande parabola del Buon Samaritano e all’episodio dell’incontro tra Gesù e la Samaritana al pozzo di Sichem per culminare nell’inaggirabile massima del vangelo di Matteo, 25,35: “Ero straniero e mi avete accolto”, che con le sue consonanze rispetto alle indicazioni di Gesù a proposito del Giudizio Divino (visitare i carcerati, assistere gli ammalati, accogliere gli stranieri come necessario presupposto alla Vita Eterna) costituiscono un viatico indispensabile per il tempo presente» (18). Tuttavia anche la parabola evangelica del “Buon Samaritano”, richiamata nell’enciclica, perde il suo significato, più vero, se si obnubila la distinzione tra Spirituale e naturale. La parabola in questione non impone affatto lo scioglimento, in un anonimo ed astratto “amore universale”, dei legami di natura ma soltanto il dovere della Carità soprannaturale che non è in contrasto con l’appartenenza politica e comunitaria di natura. Il Buon Samaritano della parabola si china a soccorrere lo straniero ma non per questo abbandona la sua famiglia ed il suo popolo. Anzi, dopo aver soccorso lo sventurato, lo affida all’albergatore, pagandone di tasca sua le spese, proprio perché egli deve continuare nel suo viaggio onde provvedere al sostentamento della propria famiglia. La vittima dei briganti nella parabola è il prossimo spaziale, come può essere oggi il migrante, ma soccorrerla non impone il voltar le spalle al prossimo per legami nazionali o familiari. In nome dell’“amore per l’Umanità”, dell’amore per i “lontani”, sono stati perpetrati i più efferati genocidi.

Il nocciolo del problema sta sempre lì: l’offuscamento della distinzione tra Soprannaturale e naturale sottolineata dalla verità tradizionale per la quale “Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit”. Il che sta a significare che lo Spirito non annulla la natura, e quindi neanche il legittimo pluralismo comunitario dei popoli, ma la perfeziona perché la suppone, per via dell’analogia entis, come propria base immanente. L’offuscamento della distinzione dei piani è il dramma attuale della Chiesa che la fa apparire alla stregua di un agente della globalizzazione, terzomondista o occidentalista che sia. Cristianamente parlando l’amore di Patria, fintantoché non sconfina nell’odio verso l’altro, è santo e benedetto da quel Dio che ha voluto la molteplicità dei popoli a fronte dell’Unità universale dello Spirito e della Chiesa, sicché imitare questa unità sul piano immanente comporta seri rischi anticristici. L’attuale Papa emerito Benedetto XVI aveva ben chiaro il problema sin da quando, negli anni immediatamente postconciliari, ammoniva sull’impellente necessità di una chiarificazione. Joseph Ratzinger, in anni nei quali l’impostura globalista non era ancora così palese come adesso, scriveva: «Partendo dal messaggio d’amore del Nuovo Testamento, va oggi sempre più prendendo piede una tendenza a risolvere completamente il culto cristiano nell’amor fraterno, nella “fraternità umana”, senza lasciar più alcun posto all’amore diretto di Dio o alla sua venerazione: si riconosce solo la dimensione orizzontale, mentre si nega la dimensione verticale del rapporto diretto con Dio. Da quanto abbiamo detto si vede assai facilmente perché questa concezione, che a prima vista appare così simpatica, finisca invece per svuotare di contenuto, oltre che il cristianesimo, anche la vera umanità. La fraternità che pretende di bastare a se stessa si trasformerebbe proprio così nel più evidente egoismo dell’autoaffermazione. Essa rinuncia alla sua definitiva apertura, alla sua disponibilità e abnegazione, se non accetta anche di avere bisogno della redenzione di questo amore da parte di Colui che solo ha saputo realmente amare a sufficienza. E nonostante tutta la buona volontà, finirebbe per fare torto a sé e agli altri, perché l’uomo non si esaurisce unicamente nei rapporti di fraternità umana, ma si realizza solo nei rapporti con quell’amore disinteressato che glorifica Dio stesso (19).

Parole che è importante riprendere oggi più che mai, anche per colmare con questa sorta di “nota previa” del Papa Emerito, e contemplativo, le carenze che rendono, sotto questo profilo, pericolosamente debole l’enciclica, pur necessaria e provvidenziale, del Papa regnante ed operativo.

Luigi Copertino

 

NOTE

 

  1. F. Borgonovo “Ad Assisi riposa un soldato, non un ecologista”, La Verità 05.10.2020.
  2. F. Cardini “Fratres omnes” in Minima Cardiniana 296/3 dell’11.10.2020, in www.francocardini.it.
  3. Gli esponenti dell’attuale “neopaganesimo”, di radici illuministico-nicciane, nel loro livore anticristiano e nella loro simpatia, per motivi politici, filoislamica, spesso dimenticano che gli stessi problemi del rapporto tra Trascendenza ed immanenza, in ordine ad eguaglianza e fraternità, si ritrovano puntualmente anche nell’Islam, il quale del resto è una delle tre fedi abramitiche.
  4. F. Cardini “Fratres omnes” cit..
  5. F. Cardini “Fratres omnes” cit..
  6. Nella critica di Veneziani – sia chiaro! – c’è del vero ma c’è anche molto di strumentale, secondo un approccio da “destra conservatrice ed occidentalista”. Veneziani cade in aperta contraddizione con sé stesso e con molti dei suoi libri. Non possiamo, infatti, non osservare che questo Veneziani, critico del Papa e che definisce cristiana tout court l’America, sostiene tesi un po’ diverse da quelle che sosteneva, ad esempio, quando dirigeva “Pagine Libere” (la rivista culturale della Cisnal alla quale collaboravamo anche noi). Quel Veneziani era “socialfascista”. L’attuale Veneziani è invece molto “cons”. Veneziani, a differenza di altri critici conservatori del Papa, è perfettamente consapevole che la funzione sociale della proprietà, chiamata in causa dall’enciclica, non solo appartiene al novero tradizionale del magistero sociale cattolico, compreso quello preconciliare, ma appartiene anche a documenti “fascio-socialisti” come la dannunziana Carta del Carnaro. Per questo, da parte nostra, non possiamo non domandarci se Veneziani non sia diventato un corifeo dell’Occidente (cristiano?!) del quale, un tempo, in memorabili libri da lui scritti ha invece messo a nudo le contraddizioni. Certo anche quello era il Veneziani che restava sulla soglia della Chiesa senza entrarvi e che, nel suo “Processo all’Occidente” (Sugarco, 1990), si ispirava al non cristiano Heidegger, sommessamente imputando l’esito nichilista della modernità occidentale, secondo appunto la errata lezione di un certo heideggerismo e di un certo niccianesimo, al “fallimento” del Cristianesimo. Tuttavia quel Veneziani sapeva riequilibrare le sue tesi “a-cristiane” alla luce del grande magistero filosofico cattolico di Augusto Del Noce. Abbiamo nostalgia del Veneziani di allora, che ci sembra oggi “perduto”.
  7. D. Nieri “Fratelli tutti, in una modernità che ci vuole fratelli di nessuno” in Minima Cardiniana 295/3, www.francocardini.it, 05.10.2020.
  8. “Un cambio di paradigma dopo il virus della paura – parla Gotti tedeschi”, 27 maggio 2020, in “Osservatorio Globalizzazione”, reperibile sul web.
  9. D’altro canto la distinzione che Gotti Tedeschi propone, sulla scorta degli studi del Todeschini, tra un capitalismo cattolico “buono” ed un capitalismo protestante “cattivo” è significativa del fatto che quando si è Christi fidelis, come il nostro banchiere, qualsiasi opzione filosofica, culturale, scientifica, non può che essere in coscienza vagliata attentamente alla Luce della Rivelazione per, come diceva san Paolo, esaminare tutto ma prendere solo ciò che è buono. Orbene, la tesi differenziale, in ordine al capitalismo, proposta da Gotti Tedeschi, ha senza dubbio un qualche fondamento di verità, anche storica, ma a condizione di non pretendere di costruire una narrazione non corrispondente alla pienezza dei fatti. Perché bisogna prendere atto che il “capitalismo buono”, quello quattrocentesco dei francescani – i monti di pietà –, non corrispondeva affatto ad una visuale liberista moderna, benché i francescani, desumendoli dalla concreta  prassi della loro attività creditizia, abbiano intuito alcuni paradigmi poi meglio sviluppati dalla letteratura economica nei secoli successivi. Nel corso della storia, il “capitalismo buono”, ispirato ad un’etica di solidarietà e condivisione distributiva delle risorse, è sempre stata una presenza, purtroppo, di nicchia. Il capitalismo sic et simpliciter, ossia il capitalismo nella sua cruda nudità come lo conosciamo, è caratterizzato, sin dagli inizi in età umanistica, da spirito di accumulazione autoreferenziale. Da parte nostra siamo convinti, riguardo alla presunta genesi “cattolica” del capitalismo, che abbia compreso molto meglio la realtà storica un Amintore Fanfani. Per lo storico aretino, infatti, lo spirito individualista, necessario al capitalismo, nacque, tra XIV e XV secolo, quale aperta ribellione alla tradizionale visione comunitaria medioevale, sicché il proto-capitalismo quattrocentesco dei Comuni italiani (ad esempio, la Firenze medicea) fu l’inizio di una emancipazione dell’economia dall’etica cattolica tradizionale, in particolare sul problema del prestito ad interesse. Il “capitalismo buono” dei francescani, al quale fa riferimento Gotti Tedeschi, è stato, pertanto, piuttosto il tentativo di adattamento dottrinale ed etico alla nuova nascente realtà moderna del capitalismo tout court, con l’intenzione di contenerla nell’alveo tradizionale pur concedendo qualcosa ad essa. L’ammissione di un modico interesse, come rimborso per i costi di gestione dei monti di pietà, legittimata da Papa Leone X, non a caso un Medici, serviva a rendere sostenibile una forma di “credito sociale” volto a tutelare i ceti artigianali ed i contadini dalla speculazione e dall’usura ormai libera, ossia del tutto emancipata da remore etiche. Questo acclarato, e senza dimenticare che lungo i secoli la concezione cattolica del credito ha sempre tentato di differenziarsi da quella non cattolica , non è quindi possibile parlare sic et simpliciter di un capitalismo che si sviluppa dalla matrice religiosa cattolica e dunque conseguente all’etica cristiana.
  10. Cardini “Fratres omnes” cit..
  11. Atti degli Apostoli, 4,32-35 «La comunità dei credenti era un cuore solo e un’anima sola, e nessuno diceva suo quello che gli apparteneva, ma tra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza alla resurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto, e lo deponevano ai piedi degli apostoli; ciò veniva poi distribuito a ciascuno secondo il bisogno». Si noti che questa “condivisione redistributiva” non è poi scomparsa all’interno della Chiesa. Essa ebbe continuazione tanto nell’organizzazione monastica quanto nella vita civile e laicale che, pur nell’adattamento necessario alle esigenze dei laici i quali si sposano ed hanno famiglia, fu fortemente influenzata da questa eredità evangelica, come interpretata dai monaci, sia nelle tecniche di produzione (i benedettini insegnarono ai contadini migliori tecniche agrarie ed inventarono per artigiani e mercanti la partita doppia) sia nell’etica sociale. Nella Regola di San Benedetto la proprietà viene considerata, per i monaci, non certo per i laici, un vizio: «Capitolo XXXIII – Il “vizio” della proprietà: Nel monastero questo vizio dev’essere assolutamente stroncato fin dalle radici,  “Tutto sia comune a tutti”, come dice la Scrittura, e “nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa”». Benedetto, in questo, era molto platonico. Il grande filosofo ateniese, infatti, immaginava che nella sua Repubblica modello, la casta governatrice dei filosofi avrebbe vissuto in comunità di beni ma al popolo, la terza funzione “produttiva” dell’organizzazione sociale dell’antichità, non solo indoeuropea, egli riconosceva il diritto di proprietà diffuso. Ma a confutare la tesi per cui il Santo di Norcia sia stato un precursore del comunismo moderno sovvengono i successivi contenuti della Regola: «Capitolo XXXIV – La distribuzione del necessario: Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno”, si legge nella Scrittura. Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze – Dio ce ne liberi! – ma che si tenga conto delle eventuali debolezze; quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi, mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza, invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto e così tutti i membri della comunità staranno in pace» / «Capitolo LV – Gli abiti e le calzature dei monaci: “In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che “Si dava a ciascuno secondo le sue necessità”. Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio». Nell’“Omelia sulla avarizia” di San Basilio troviamo scritto: «Se ciascuno prendesse per sé solo ciò che basta per le sue necessità, lasciando ciò che resta a disposizione di quanti ne hanno bisogno, forse nessuno sarebbe ricco, ma neppure vi sarebbe qualcuno povero». Si noti che Karl Marx nella “Critica del programma di Ghota”, laddove formula il noto adagio «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni», si richiama, strumentalmente, all’etica caritativa della prima comunità cristiana, come narrato dagli Atti degli Apostoli, ma  negando il Principio trascendente, che è alla base della conversione del cuore, il padre del comunismo moderno ha preparato la strada al totalitarismo ed alla dittatura non del proletariato bensì della nomenklatura di partito sul proletariato, senza ottenere affatto quel che invece i primi cristiani ed i monaci, loro succedanei, riuscirono, pur nei limiti della nostra fragilità umana, a realizzare ovvero la “condivisione fraterna dei beni”.
  12. Non è possibile fare parallelismi neanche con la prassi monastica per la quale la proprietà appartiene non ai monaci ma dell’abbazia o al convento, dunque ai sensi del diritto canonico ad un ente morale governato dall’abate, perché in realtà tanto la Chiesa quanto le singole sue realtà, dai conventi alle parrocchie, hanno nella Persona di Cristo un contenuto personale, anzi “il” contenuto personale per eccellenza, essendo la Chiesa il Corpo Mistico di Cristo. In tal senso l’abate, lungi dal rappresentare il “popolo dei monaci”, dai quali pure è eletto, rappresenta, quale “vicario di Cristo” nella comunità monastica, l’Amore redistributivo di Dio. Quando nel XVI secolo la secolarizzazione del Politico giunse ad una svolta epocale, lo Stato moderno nacque come “corpus misticum politicum” quale immanentizzazione dell’idea ecclesiale del Corpus Misticum Christi. Una inversione che ha portato, tra l’altro, alla concezione assolutista della proprietà, tanto individuale che statale. Tuttavia va osservato che la stessa logica di anonimia e spersonalizzazione della proprietà è anche alla radice della accumulazione capitalista come realizzatasi nella società di capitali. Nell’organizzazione capitalista moderna, che ha poi dato vita al capitalismo transnazionale e globale delle multinazionali, la proprietà dei beni aziendali è attribuita alla società anonima nella quale è concentrato il capitale azionario. La società anonima è un ente giuridico fittizio ed astratto, ossia privo di reale contenuto personale, sicché in essa i beni aziendali sono effettivamente amministrati e goduti dagli amministratori mentre gli azionisti sono soltanto meri creditori di una quota del dividendo societario il cui ammontare è, però, stabilito dai vertici amministrativi che controllano la maggioranza del pacchetto azionario. Il titolo azionario, infatti, non rappresenta una quota di proprietà reale ma soltanto il diritto di credito vantato verso la società anonima, personificazione fittizia priva di reale contenuto umano, quale corrispettivo dell’originario conferimento ad essa del capitale di partecipazione sociale. Tra la Società anonima del capitalismo finanziario e lo Stato comunista sussiste la medesima logica di annientamento della persona umana nella sua realtà ontologica e nei suoi diritti e doveri comunitari.
  13. Stolypin, che viene ricordato da Solgenicyn come colui che avrebbe potuto aprire una strada diversa nella storia della Russia contemporanea, fu promotore di una riforma agraria intesa a distribuire la terra ai contadini, sostenuti da una apposita banca pubblica di credito sociale agevolato, allo scopo di procurare all’Autorità dello Zar una solida base popolare, stabilmente fondata sulla terra e la moderna agricoltura. Stolypin riuscì a creare un ceto di contadini proprietari delle loro terre e conduttori diretti di piccole e medie aziende rurali. Un ceto che, più tardi, fu sterminato da Stalin. Il dittatore georgiano, infatti, vide in questo ceto di contadini il maggior gruppo di opposizione ai suoi progetti di industrializzazione forzata dall’Urss, mentre la propaganda di partito li dipingeva come “sobillatori”, “controrivoluzionari”, “ricchi ed agiati”. Pëtr Stolypin è stato troppo riformatore per i reazionari e troppo tradizionalista per i rivoluzionari. Aveva quindi nemici a destra e nemici a sinistra. La meta finale delle sue riforme voleva essere una Nazione con leggi basate sulle tradizioni storiche ma proiettata al futuro. Le sue idee riformatrici, in favore del lavoro e dei lavoratori, somigliavano molto a quelle propugnate dal cattolicesimo sociale ottocentesco perché mettevano al centro l’idea del bene comune. Ma egli era anche un patriota sicché il bene comune in senso etico-spirituale assumeva in concreto il volto  del bene della Patria. I modelli occidentali, secondo Stolypin, non potevano essere utili per la Russia, che doveva conservare integrità ed unità sulla base delle sue tradizioni storiche. Di tale identità russa la Chiesa ortodossa era da lui considerata la massima custode dal momento che la fede cristiana ortodossa aveva forgiato la Nazione preservandola anche nei momenti più difficili. «Noi dobbiamo tener conto – così egli perorava i suoi progetti riformatori davanti alla Duma – delle profonde radici nazionali. Se desideriamo che le nostre riforme funzionino, esse devono prima venir accettate dall’anima della Nazione».  Non è inverosimile dire che, in qualche modo, nell’odierna Russia putiniana sia ancora possibile sentire un’eco della voce di Stolypin. Fu assassinato, il 18 settembre 1911, in un attentato, a Kiev da un certo Dmitrij Grigorievic Bagrov, figlio di una famiglia ebrea benestante. Incallito giocatore d’azzardo e pieno di debiti, Bagrov era diventato un confidente della polizia segreta. Infiltrato nelle file dei Socialisti rivoluzionari era però stato scoperto dai suoi compagni di partito. Questi gli imposero come unica possibilità di riscatto, a pena della vita, quella di attentare ad una personalità del regime zarista. L’attentato contro Stolypin fu il gesto riparatore con cui Bagrov sperò di evitare la morte. Rapidamente processato Bagrov  fu impiccato solo cinque giorni dopo la morte di Stolypin. Questa strana rapidità nello sbarazzarsi dell’attentatore ha dato adito al sospetto che a guidare la sua mano assassina non furono solo i rivoluzionari ma, probabilmente, anche, tramite la polizia segreta, gli ambienti conservatori di corte contrari alle sue riforme sociali.
  14. F. Cardini “Fratres omnes” cit..
  15. Tuttavia si dovrebbe cercare di comprendere da dove viene la xenofobia della quale si nutrono certi populismi. Essa viene dalla paura che è cosa del tutto umana. Paura dei ceti medi e dei lavoratori occidentali, che subiscono l’impoverimento indotto da una scriteriata globalizzazione e che pertanto votano populista, di perdere i mezzi di sostentamento della famiglia. Paura della violenza di molti migranti – ci sono innegabili situazioni di violenza importata – e paura di accogliere chi non capisce la nostra cultura e che a nostra volta non capiamo. Si tratta in qualche modo della stessa paura che dovevano provare i cittadini romani del V secolo di fronte all’immigrazione – che tale fu piuttosto che invasione – delle popolazioni barbariche. Quegli epigoni della passata grandezza di Roma non potevano certo immaginare che dal dramma dei loro tempi sarebbe emersa un’altra magnifica civiltà. Un evento che all’epoca fu possibile per la presenza operativa del Cristianesimo. Una presenza oggi meno incisiva che in passato sicché qualsiasi prospettiva di integrazione o di formazione di nuove identità culturali, nell’Unicità spirituale di una comune fede universale, è attualmente, a viste umane, cosa assolutamente remota.
  16. C. Cerasa “Così il Papa smonta le teorie di Francesco”, su Il Foglio del 6 ottobre 2020.
  17. Considerando, da un diverso punto di vista, l’enciclica di Papa Bergoglio la provvidenziale risposta al fallimento della globalizzazione David Nieri, dal canto suo, osserva: « …il Covid ha mostrato chiaramente i preoccupanti limiti di un sistema economico-sociale che pareva – a detta di molti – destinato a raggiungere lo zenit delle magnifiche sorti, anche se in realtà, da almeno tre decenni, il benessere “occidentale” ha iniziato gradualmente a scemare, mostrando inevitabili segni di cedimento. Che forse, in molti, non abbiamo voluto vedere, né tantomeno analizzare. Il Covid-19 … ha lavorato su un terreno fragile, poco fertile e in secca dal punto di vista umano. È stato, è e sarà (ancor più) un disastro. E allora, come se ne esce? … [credendo] che l’immigrato sia un nemico, un pericolo per l’“identità occidentale”– quale? –, e che tre barconi rappresentino un rischio per la coesione sociale – quale? È qui che si manifesta, in tutta la sua evidenza, il limite di una politica ormai ridotta a manichino del potere economico di turno, nell’ottica di un capovolgimento del “primato”: è l’economia che detta i tempi alla politica, non viceversa. E ne detta anche l’agenda, che ci vuole avversari su tutti i fronti, nemici del prossimo e nemici di noi stessi». Cfr. D. Nieri “Fratelli tutti, in una modernità che ci vuole fratelli di nessuno” cit..
  18. F. Cardini “Fratres omnes” cit..
  19. J. Ratzinger “Introduzione al Cristianesimo”, Queriniana, pp.278 – 279.