Perché l’Europa insiste a suicidarsi?

Thomas Fazi tenta una diagnosi

Per chi è esterno, la politica europea è difficile da decifrare oggigiorno, e questo è particolarmente evidente nella risposta del continente all’evolversi della situazione in Ucraina.

Dalla rinascita politica di Donald Trump e dalla sua iniziativa di negoziare la fine del conflitto russo-ucraino, i leader europei hanno agito in modi che sembrano sfidare la logica fondamentale delle relazioni internazionali, in particolare il realismo, secondo cui gli Stati agiscono principalmente per promuovere i propri interessi strategici.

Invece  che sostenere gli sforzi diplomatici per porre fine alla guerra, i leader europei sembrano intenzionati a ostacolare le aperture di pace di Trump, indebolire i negoziati e prolungare il conflitto.

Dal punto di vista degli interessi fondamentali dell’Europa, questo non è solo sconcertante, è irrazionale. La guerra in Ucraina, meglio descritta come un conflitto per procura NATO-Russia, ha inflitto immensi danni economici alle industrie e alle famiglie europee, aumentando drasticamente i rischi per la sicurezza in tutto il continente.

Si può sostenere, naturalmente, che il coinvolgimento dell’Europa nella guerra sia stato fuorviante fin dall’inizio, frutto di arroganza ed errori di calcolo strategici, tra cui l’errata convinzione che la Russia avrebbe subito un rapido collasso economico e una sconfitta militare.

Tuttavia, qualunque sia stata la logica alla base della risposta iniziale dell’Europa alla guerra, ci si potrebbe aspettare che, alla luce delle sue conseguenze, i leader europei avrebbero colto con entusiasmo qualsiasi via praticabile verso la pace – e con essa, l’opportunità di ripristinare i rapporti diplomatici e la cooperazione economica con la Russia. Invece, hanno reagito con allarme alla “minaccia” della pace.

Lungi dall’accogliere l’opportunità, hanno raddoppiato gli sforzi: hanno promesso un sostegno finanziario e militare a tempo indeterminato all’Ucraina e hanno annunciato un piano di riarmo senza precedenti che suggerisce che l’Europa si sta preparando a una situazione di stallo militarizzato a lungo termine con la Russia, anche in caso di una soluzione negoziata.

Come si può  dare un senso a questa posizione apparentemente autodistruttiva? Questo comportamento può apparire irrazionale se valutato alla luce degli interessi generali o oggettivi dell’Europa, ma diventa più comprensibile se visto attraverso la lente degli interessi dei suoi leader. Quattro dimensioni interconnesse possono contribuire a spiegare la loro posizione: psicologica, politica, strategica e transatlantica.

Ipotesi psichiatrica:

Da una prospettiva psicologica, i leader europei si sono sempre più distaccati dalla realtà. Il divario crescente tra le loro aspettative iniziali e la traiettoria effettiva della guerra ha creato una sorta di dissonanza cognitiva, portandoli ad adottare narrazioni sempre più deliranti, tra cui appelli allarmistici a prepararsi per una guerra totale con la Russia.

Questa disconnessione non è meramente retorica; rivela un disagio più profondo, poiché la loro visione del mondo si scontra con fatti scomodi sul campo. La psicologia offre anche spunti di riflessione sulla reazione dell’Europa a Trump.

Nella misura in cui Washington ha sempre considerato la NATO come un modo per garantire la subordinazione strategica dell’Europa, la minaccia del presidente di ridurre gli impegni degli Stati Uniti nei confronti dell’alleanza potrebbe offrire all’Europa l’occasione di ridefinirsi come attore autonomo.

Il problema è che l’Europa è rimasta bloccata in una relazione subordinata con l’America per così tanto tempo che, ora che Trump minaccia di destabilizzare la sua storica dipendenza in termini di sicurezza, l’Europa non è in grado di cogliere questa opportunità; sta invece tentando di replicare l’aggressiva politica estera degli Stati Uniti, di “diventare” inconsciamente l’America.

Ecco perché, dopo aver sacrificato volontariamente i propri interessi sull’altare dell’egemonia statunitense, ora si atteggiano a ultimi difensori di quelle stesse politiche che li hanno resi irrilevanti fin dall’inizio.

Questa non è tanto una dimostrazione di vera convinzione quanto un riflesso psicologico: un debole tentativo di mascherare l’umiliazione di essere stati smascherati dal loro protettore come semplici vassalli, una vuota farsa di “autonomia”.

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Ipotesi “esistenziale”

Sono in gioco anche calcoli più pragmatici. Per l’attuale generazione di leader europei, ammettere il fallimento in Ucraina equivarrebbe a un suicidio politico, soprattutto visti gli immensi costi economici sostenuti dalle loro stesse popolazioni.

La guerra è diventata una sorta di giustificazione esistenziale per il loro governo. Senza di essa, i loro fallimenti sarebbero esposti al pubblico.

In un momento in cui i partiti istituzionali sono sottoposti a crescenti pressioni da parte di movimenti e partiti “populisti”, questa è una vulnerabilità che non possono permettersi.

Porre fine alla guerra richiederebbe anche riconoscere che il disprezzo della NATO per le preoccupazioni di sicurezza russe ha contribuito a innescare il conflitto, una mossa che minerebbe la narrativa dominante dell’aggressione russa e implicherebbe i passi falsi strategici dell’Europa stessa.

Di fronte a questi dilemmi, i leader europei hanno scelto di consolidare la loro posizione. La continuazione del conflitto – e il mantenimento di un atteggiamento ostile nei confronti della Russia – non solo fornisce loro un’ancora di salvezza politica a breve termine, ma serve anche come pretesto per consolidare il potere in patria, reprimere il dissenso e prevenire future sfide politiche.

Ciò che in superficie può apparire come un’incoerenza strategica, a un esame più attento riflette un disperato tentativo di gestire il decadimento interno proiettando la propria forza all’estero.

Nel corso della storia, i governi hanno spesso esagerato, gonfiato o addirittura inventato minacce esterne per scopi di politica interna – una strategia che persegue molteplici obiettivi, dall’unire la popolazione e mettere a tacere il dissenso alla giustificazione dell’aumento della spesa militare e all’espansione del potere statale.

Questo vale certamente per ciò a cui stiamo attualmente assistendo in Europa. In termini economici, c’è la speranza che un aumento della produzione per la difesa possa contribuire a rilanciare le anemiche economie europee – una rozza forma di keynesismo militare. Non sorprende, a questo proposito, che il Paese in testa alla carica di rimilitarizzazione sia la Germania, la cui economia è stata la più duramente colpita dalla guerra in Ucraina.

I piani di rimilitarizzazione dell’Europa saranno senza dubbio una manna per il complesso militare-industriale del continente, che sta già registrando progressi record, ma è improbabile che raggiungano i cittadini europei, soprattutto perché una maggiore spesa per la difesa comporterà inevitabilmente tagli in altri settori, come pensioni, sanità e sistemi di previdenza sociale.

Janan Ganesh, editorialista del Financial Times, ha espresso la logica di fondo: “L’Europa deve ridimensionare il suo stato sociale per costruire uno stato di guerra”.

Ipotesi “in fondo, una dittatura fa’ comodo”

I veri obiettivi del programma di riarmo europeo non sono probabilmente  nemmeno tanto economici, bensì politici.

Negli ultimi 15 anni, l’Unione Europea si è evoluta in un edificio sempre più autoritario e antidemocratico. Soprattutto sotto la presidenza di von der Leyen, la Commissione Europea ha sfruttato crisi dopo crisi per aumentare la propria influenza su aree di competenza che in precedenza erano considerate appannaggio dei governi nazionali – dai bilanci finanziari alla politica sanitaria, dagli affari esteri alla difesa – a scapito del controllo democratico e della responsabilità.

Negli ultimi tre anni, l’Europa si è sempre più militarizzata, poiché von der Leyen ha sfruttato la crisi ucraina per porsi alla guida della risposta dell’Unione, trasformando di fatto la Commissione e l’UE nel suo complesso in un braccio armato della NATO.

Ora, sotto la copertura della “minaccia russa”, von der Leyen intende accelerare drasticamente questo processo di centralizzazione delle politiche dell’Unione. Ha già proposto, ad esempio, l’acquisto collettivo di armi per conto degli Stati membri dell’UE, seguendo lo stesso modello “io compro, tu paghi” utilizzato per l’approvvigionamento del vaccino contro il Covid-19.

Ciò conferirebbe di fatto alla Commissione il controllo sull’intero complesso militare-industriale dei Paesi dell’UE, l’ultimo di una lunga lista di colpi di stato istituzionali guidati da Bruxelles. Non si tratta solo di incrementare la produzione di armi. Bruxelles sta perseguendo una militarizzazione completa e a livello sociale.

Questa ambizione si riflette nell’applicazione sempre più rigorosa della politica estera UE-NATO: dalle minacce e pressioni utilizzate per costringere leader non allineati come Viktor Orbán in Ungheria e Roberto Fico in Slovacchia al rispetto delle regole, fino al divieto assoluto di candidati politici critici nei confronti dell’UE e della NATO, come avvenuto in Romania.

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Negli anni a venire, questo approccio militarizzato è destinato a diventare il paradigma dominante in Europa, poiché tutte le sfere della vita – politica, economica, sociale, culturale e scientifica – saranno subordinate al presunto obiettivo di sicurezza nazionale, o meglio sovranazionale. Questo verrà utilizzato per giustificare politiche sempre più repressive e autoritarie, con la minaccia di “interferenza russa” invocata come pretesto universale per tutto, dalla censura online alla sospensione delle libertà civili fondamentali – oltre, naturalmente, all’ulteriore centralizzazione e verticalizzazione dell’autorità dell’UE – soprattutto considerando l’inevitabile reazione che queste politiche sono destinate a generare. In altre parole, la “minaccia russa” servirà come ultimo disperato tentativo di salvare il progetto UE. Infine, c’è la dimensione transatlantica. Sarebbe un errore considerare l’attuale frattura transatlantica esclusivamente attraverso la lente degli interessi divergenti delle leadership europea e americana.

Al di là di queste differenze, potrebbero esserci dinamiche più profonde in gioco. Non è irragionevole supporre che gli europei possano, a un certo livello, coordinarsi con l’establishment democratico statunitense e la fazione liberal-globalista dello stato permanente statunitense – la rete di interessi radicati che abbraccia la burocrazia americana, lo stato di sicurezza e il complesso militare-industriale.

Queste reti, ancora attive nonostante la dichiarata “guerra allo stato profondo” di Trump, hanno un interesse comune nel far deragliare i colloqui di pace e nell’intralciare la presidenza di Trump. In altre parole, quello che in apparenza sembra uno scontro tra Europa e Stati Uniti potrebbe in realtà essere, in senso più profondo, una lotta tra diverse fazioni dell’impero statunitense – e, in larga misura, all’interno dello stesso establishment statunitense – combattuta attraverso i rappresentanti europei.

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Ipotesi transatlantica

Dopotutto, molti dei leader europei di oggi hanno forti legami con queste reti. Gli Stati Uniti hanno, ovviamente, una lunga storia di influenza politica in Europa. Nel corso dei decenni, hanno costruito solidi legami istituzionali con gli apparati statali dei paesi dell’Europa occidentale, in particolare tra i loro servizi di difesa e di intelligence.

Inoltre, l’establishment statunitense esercita una notevole influenza sul dibattito pubblico europeo attraverso i principali media di lingua inglese e i think tank. Questi think tank, come il German Marshall Fund, il National Endowment for Democracy, il Council on Foreign Relations e l’Atlantic Council, contribuiscono a plasmare le narrazioni politiche che dominano la società europea – e oggi sono in prima linea nel promuovere l’idea che “nessun accordo è meglio di uno cattivo”.

Le sue origini risalgono alla Guerra Fredda, con gli Stati Uniti che promuovevano attivamente l’integrazione europea come baluardo contro l’Unione Sovietica. In altre parole, l’UE, soprattutto nelle sue prime fasi, è sempre stata legata all’atlantismo, e questo non ha fatto che intensificarsi dopo la Guerra Fredda. Per questo motivo, l’establishment tecnocratico dell’UE – in particolare la Commissione Europea – è stato storicamente più allineato con gli Stati Uniti rispetto ai governi nazionali europei.

Ursula von der Leyen, soprannominata “la presidente americana d’Europa”, è un esempio lampante di questo allineamento, lavorando instancabilmente per mantenere l’impegno dell’UE nei confronti della strategia geopolitica aggressiva americana, in particolare per quanto riguarda Russia e Ucraina.

Uno strumento chiave di questa alleanza è sempre stata la NATO, che oggi svolge un ruolo chiave nel contrastare i tentativi di Trump di modificare l’approccio degli Stati Uniti nei confronti della Russia. In questo contesto, la posizione dell’Europa, sebbene apparentemente rivolta a Trump, deriva dal riconoscimento che elementi all’interno della classe dirigente statunitense si oppongono fermamente alle aperture di Trump a Putin, nutrono una profonda animosità nei confronti della Russia e considerano le minacce del Presidente di disimpegnarsi dalla NATO e di minare altri pilastri dell’ordine postbellico come una sfida strategica ai sistemi che hanno sostenuto l’egemonia americana per decenni.

Questo collegamento potrebbe forse spiegare le politiche “irrazionali” di alcuni leader europei, almeno dal punto di vista degli interessi oggettivi dell’Europa: prima, il loro cieco sostegno alla guerra per procura condotta dagli Stati Uniti in Ucraina, e ora la loro insistenza nel continuare la guerra a tutti i costi.

Secondo questa narrazione, gli obiettivi dell’establishment transatlantico appaiono piuttosto chiari: demonizzare Trump, dipingendolo come un “appeaser di Putin”; e alimentare le ansie europee sulla loro vulnerabilità militare, anche gonfiando la minaccia russa, al fine di spingere l’opinione pubblica ad accettare un aumento della spesa per la difesa e la continuazione della guerra il più a lungo possibile.

Nessuna delle due parti in questa guerra civile transatlantica ha veramente a cuore gli interessi dell’Europa. La fazione trumpiana considera l’Europa un rivale economico, con lo stesso Trump che critica ripetutamente l’UE, definendola un'”atrocità” progettata per “fregare” l’America – e ora sta valutando l’imposizione di pesanti dazi doganali sull’Europa. D’altra parte, la fazione liberal-globalista considera l’Europa un fronte critico nella guerra per procura contro la Russia.

In questo contesto, uno scenario in cui gli europei prolungassero la guerra in Ucraina – almeno nel breve termine – potrebbe essere visto come un compromesso tra le due fazioni. Gli Stati Uniti potrebbero districarsi dal pantano ucraino, perseguendo al contempo un riavvicinamento con la Russia e spostando la propria attenzione sulla Cina e sulla regione Asia-Pacifico, il tutto attribuendo la colpa del mancato raggiungimento della pace direttamente a Zelensky e agli europei.

Nel frattempo, il continuo coinvolgimento dell’Europa nella guerra ne garantisce la continua separazione economica e geopolitica dalla Russia e ne rafforza la persistente dipendenza economica dagli Stati Uniti, soprattutto nel contesto dell’aumento della spesa per la difesa, gran parte della quale confluirebbe nel complesso militare-industriale statunitense.

Allo stesso tempo, i rappresentanti europei dell’establishment liberal-globalista continuerebbero a usare la minaccia russa per consolidare il proprio potere.

Nel complesso, questa soluzione potrebbe essere considerata accettabile da entrambe le parti.

In altre parole, come ha suggerito il ricercatore geopolitico Brian Berletic, quella che spesso viene presentata dai media come una “spaccatura transatlantica” senza precedenti potrebbe in realtà essere più una “divisione del lavoro” in cui gli europei mantengono la pressione sulla Russia mentre gli Stati Uniti rivolgono la loro attenzione alla Cina.

Da questa analisi emerge il quadro di una classe politica europea in preda a una profonda crisi di legittimità, intrappolata tra pressioni esterne e decadenza interna.

Lungi dall’agire nell’interesse razionale e strategico delle proprie nazioni, i leader europei appaiono sempre più vincolati alle strutture di potere transatlantiche, agli imperativi politici interni e ai riflessi psicologici plasmati da decenni di dipendenza e negazione.

La loro risposta alla guerra in Ucraina – e alla rinnovata presenza di Trump sulla scena globale – riflette meno una strategia geopolitica coerente che un frenetico tentativo di preservare un ordine in rovina con ogni mezzo necessario.

In questo contesto, le azioni dell’Europa non sono semplicemente fuorvianti;

sono sintomatiche di una disfunzione più profonda al cuore del progetto stesso dell’UE.

La militarizzazione della società, l’erosione delle norme democratiche, il consolidamento del potere tecnocratico e la repressione del dissenso non sono misure temporanee da guerra: sono i contorni di un nuovo paradigma politico, nato dalla paura, dalla dipendenza e dall’inerzia istituzionale.

Mascherati nel linguaggio della sicurezza e dei valori, i leader europei non stanno difendendo il continente, ma ne stanno consolidando la subordinazione, sia all’egemonia in declino di Washington che ai loro regimi in declino.

This article was originally published in the April edition of the TI Observer, the magazine of the Beijing-based Taihe Institute.

Thomas Fazi

Website: thomasfazi.net

Twitter: @battleforeurope

Latest book: The Covid Consensus: The Global Assault on Democracy and the Poor—A