Per una teologia politica su CATTOLICESIMO, SOCIALISMO ED ORDOLIBERISMO

L’ESSENZA DEL MARXISMO

Il marxismo è una filosofia del tutto inconciliabile con il Cristianesimo. Ad iniziare dall’idea faustiana e prometeica che lo pervade e per la quale il Regno sarà realizzato immanentisticamente e per opera umana e solo umana. Questo antropocentrismo ateistico, in un’ottica marxiana, comporta che non ha alcun rilievo l’idea della giustizia sociale, quale principio etico religiosamente fondato, perché tutto si riduce a mero movimento storicistico della materia biologicamente ed economicamente considerata.

Nella filosofia dell’immanenza, in tutte le sue forme dal liberalismo al marxismo, compito e destino dell’uomo è il mero accrescimento del suo potere sul mondo. Ecco perché anche nella prospettiva marxiana – ed è questa l’essenza vera e profonda del marxismo, non certo il “socialismo” che di per sé non è né esclusivamente marxiano né strettamente riconducibile alla sola filosofia immanentista moderna avendo esso piuttosto a che fare con l’eterna e naturale istanza di Giustizia che alberga per Divina Volontà nel cuore umano – l’uomo, mediante l’affermazione del presunto fondamento ateistico (che quindi nega il Dio trascendente della Rivelazione abramitica) ed ad un tempo panteistico del mondo (in Marx la materia svolge la stessa funzione dell’“anima mundi”, quale sostrato spirituale immanente che agisce la realtà fenomenica, supposta dalle filosofie oliste antiche e moderne) e del suo divenire dialettico, acquisisce l’auto-consapevolezza della propria originaria potenza quale espressione ultima dell’evoluzione storica della materia bio-sociale.

Per questo, animale nel quale la materia, intesa quale sostanza omnipervadente lo spazio cosmico, diventa cosciente (una evidente aporia: come può ciò che di per sé, ontologicamente, è incosciente acquisire, dal proprio interno, auto-coscienza e come può sussistere coscienza se essa non ha nulla di imperituro ed è determinata dal costante divenire delle condizioni socio-economiche dell’umanità?) l’uomo, nella prospettiva marxiana, ha il dovere, che costituisce anche la sua liberazione, di riappropriarsi – in un atto che sebbene storicisticamente determinato non è esente da un soggiacente volontarismo (valorizzato ad esempio nella versione leninista del marxismo) – del dominio sul reale. Perché in un tale atto di riappropriazione si esprimerebbe sul piano storico, attraverso l’eliminazione della divisione del lavoro e dello Stato nonché l’estinzione del Dio trascendente ormai superfluo per un uomo pienamente padrone dell’essere cosmico, il movimento finale con il quale, dialetticamente, la materia indivisa dell’origine, dopo aver alienato sé stessa nell’apparenza fenomenica ossia nella proprietà divisa e nella gerarchia sacrale e statuale, ritrova, quale compimento ultimo e finale della sua immanente teleologia, la stessa originaria unità indivisa, ma potenziata, sotto forma di comunismo.

Nel pensiero marxiano, insieme alle contorsioni tipiche dell’idealismo kantiano-fichtiano-hegeliano, è dunque presente anche un’apoteosi della volontà di potenza che evidenzia la chiara sussistenza, per ovvio collegamento interno al medesimo ambito filosofico immanentista, di un nesso tra lo stesso Marx e Nietzsche. Sia l’uno che l’altro si prefiggono lo scopo di ricondurre nel dominio autocentrico dell’uomo, finalmente potenziato, il mondo, inteso quale sovrastrutturale proiezione fenomenica dell’io alienato dalla castrante e consolatoria Trascendenza abramitica (ebraico-islamico-cristiana) che, sul piano politico, si esprime nell’Autorità dello Stato. Ecco perché, per Marx, il Dio trascendente e lo Stato sarebbero soltanto a servizio del dominio di classe, mentre per Nietzsche, la cui filosofia è profondamente anarchica in un senso molto vicino a Bakunin, il Dio trascendente e l’Autorità che a Lui si richiama sono l’espressione del depotenziamento della volontà prometeica di potenza dell’uomo: la “morte di Dio” è, pertanto, il presupposto necessario ed indispensabile per la comparsa definitiva, sul proscenio della storia, dell’“OltreUomo”.

Quindi quando si vuole argomentare di giustizia sociale, e persino di “socialismo”, non è al marxismo che si deve guardare. Sono esistiti socialismi non marxisti. E’ esistito persino un socialismo nazionale. Anch’essi non esenti dalla tara immanentista del marxismo. Ma perlomeno non sono privi di una possibile, benché potenziale e raramente attuale, apertura spirituale verso l’Alto, troppo poco sondata dai suoi stessi esponenti (salvo conversioni personali).

LAVORO PROPRIETA’ E CAPITALISMO

Esiste, e per chi professa la fede cattolica deve essere una stella polare, ancor più ed ancora prima della Dottrina Sociale Cattolica, una dimensione comunitaria, quindi anche sociale, del Cattolicesimo intrinsecamente radicata nella Tradizione. Sant’Agostino affermava che la Verità, cercata dall’uomo, gli impone, quando egli la trova, per la spontanea e gratuita gioia della scoperta dell’Amore Infinito, la necessità della Carità, perché solo chi vola in Alto è poi anche capace di conoscere nella sua profondità il cuore umano, con tutte le sue meraviglie ma anche le sue debolezze ed i suoi bisogni sia spirituali che vitali, ed amare il prossimo.

Questa dimensione comunitaria del Cattolicesimo è al tempo stesso lontana tanto dalla teologia della liberazione quanto, opposto errore, dalla teologia dell’accumulazione o teologia del capitalismo (Novak, Nehaus, Weigel), che incanta la “destra cattolica” come la prima ha a suo tempo incantato la “sinistra cattolica”. Oggi, però, nell’età del globalismo finanziario, defunta la teologia della liberazione, è la teologia del capitalismo, l’ordoliberismo, a rappresentare l’ideologia – e sottolineiamo il termine ideologia (il perché sarà chiaro dopo) – prevalente nonché l’avversario più mortifero per il Cattolicesimo.

Se giustissima è la condanna del capitalismo non per questo si deve demonizzare la proprietà quando essa riconosce la sua origine nel risparmio prodotto dal lavoro. Il riconoscimento, quale integrazione della persona umana, della proprietà frutto del lavoro, un principio, questo, della tradizionale sociologia cattolica, è alla base della concezione organica dello Stato e dell’economia corporativista, contemplati, non da oggi, dalla Dottrina Sociale Cattolica quali proposte per una migliore convivenza terrena dell’umanità.

Tuttavia, nello scenario attuale, il totalitarismo, abbandonate le sue forme arcaiche naziste e comuniste, si è imposto globalmente nella forma definita da Pio XI definiva “imperialismo internazionale del denaro” e che, negli anni trenta del secolo scorso, quel Papa identificava come uno dei tre nemici del Cattolicesimo. Non possiamo sapere se, questa, è l’ultima forma nella quale il male – inteso non come concetto astratto ma come persona angelica – contenderà al Signore il cuore dell’uomo, o se ci saranno altre ed ulteriori seduzioni, ma attualmente essa è il nemico principale.

La distinzione tra proprietà e capitale usuraio è un caposaldo sia del Magistero sociale cattolico sia di altre culture politiche le quali, per quanto filosoficamente fondate su presupposti alieni alla fede cattolica, tuttavia, sul terreno politico-sociale, convergono con la prospettiva comunitaria ed organicista del Cattolicesimo. Sicché è questione di verificare fino a che punto è possibile una comune azione contro il nemico principale sul presupposto di uno sforzo inteso a mostrare che certe aspirazioni sociali sono molto meglio argomentabili ed anche praticabili se ripensate sulle basi metapolitiche del Cattolicesimo. Del resto, come diceva san Paolo, il nostro compito di cristiani è quello di esaminare tutto e prendere solo ciò che è buono.

 

IL MANIFESTO DI VERONA

In questo senso è possibile, ad esempio, prendere in considerazione alcuni princìpi espressi dal Manifesto di Verona del 1943, cosiddetto “dei 18 punti”, il quale tentò di introdurre in Italia la “socializzazione” nei pochi mesi di tragica e tormentata esistenza della Repubblica Sociale Italiana. Detto documento politico affermava il giusto principio che la proprietà se frutto del lavoro è sacrosanta (articolo 9 “Base della Repubblica sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione”; articolo 10 “La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve però diventare disintegratrice della personalità fisica e morale di altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro”; articolo 11 “Nell’economia nazionale tutto ciò che per dimensioni o funzioni esce dall’interesse singolo per entrare nell’interesse collettivo, appartiene alla sfera d’azione che è propria dello Stato. I pubblici servizi e, di regola, le fabbricazioni belliche debbono venire gestite dallo Stato a mezzo di Enti parastatali”; articolo 15 “Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il Partito iscrive nel suo programma la creazione di un Ente nazionale per la casa del popolo, il quale, assorbendo l’Istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto – una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto – costituisce titolo di acquisto”: si noti che la Costituzione repubblicana ed antifascista del 1948 contempla dichiarazioni di principio del tutto simili).

Il Manifesto di Verona, inoltre, richiamandosi, implicitamente, alla Carta del Lavoro del 1927, elaborata da Giuseppe Bottai, ed alla Carta del Carnaro del 1920, elaborata dal sindacalista mazziniano Alceste De Ambris e da Gabriele D’Annunzio durante l’impresa di Fiume (si notino le date: come già evidenziato, decenni in anticipo sulle analoghe dichiarazioni della vigente Costituzione repubblicana, antifascista, del 1948), afferma, insieme al riconoscimento della proprietà privata, anche il principio per cui essa è la più importante funzione sociale, sicché deve essere sottoposta a direzione e controllo in modo che il suo esercizio non diventi lesivo dell’altrui umana e sociale dignità. La proprietà capitalistica, ed a maggiore ragione quella che oggi tende ad evaporare nella virtualità finanziaria del capitalismo monetario, ha invece, come conseguenza del suo avere per obiettivo unico, cui tutto sacrificare, la minimizzazione dei costi per la massimizzazione dei profitti, sempre avuto la connaturata tendenza a ledere l’altrui dignità. Per questo tutte le culture anti-liberiste ma non marxiste hanno sempre teso a porre limiti, vincoli e controlli sulla proprietà affinché essa rimanga frutto del lavoro e non leda i diritti del prossimo. Cosa certo difficile e spesso difficoltosa, ma non impossibile ed anzi doverosa.

E’ interessante, proprio a proposito dei 18 punti del Manifesto di Verona, il principio che distingue nettamente tra l’imprenditore che è anche un operatore nella sua azienda, e quindi ne è un lavoratore anche se al vertice della gerarchia aziendale, il quale veniva equiparato sindacalmente, quale controparte organica, agli altri lavoratori, tecnici, impiegati ed operai, ed il capitale finanziario mero apportatore all’azienda dei mezzi finanziari, obbligazionari, azionari e creditizi, al quale, salvo il compenso dell’investimento, nessun diritto e nessuna rappresentanza era riconosciuta in seno ai consigli di co-gestione, costituiti esclusivamente dagli imprenditori del primo tipo e dalle rappresentanze degli altri lavoratori (articolo 16 “Il lavoratore è iscritto d’autorità nel sindacato di categoria, senza che ciò impedisca di trasferirsi in altro sindacato quando ne abbia i requisiti. I sindacati convergono in una unica Confederazione che comprende tutti i lavoratori, i tecnici, i professionisti, con esclusione dei proprietari che non siano dirigenti o tecnici. Essa si denomina Confederazione Generale del Lavoro, della tecnica e delle arti. I dipendenti delle imprese industriali dello Stato e dei servizi pubblici formano sindacati di categoria, come ogni altro lavoratore. Tutte le imponenti provvidenze sociali realizzate dal Regime Fascista in un ventennio restano integre. La Carta del Lavoro ne costituisce nella sua lettera la consacrazione, così come costituisce nel suo spirito il punto di partenza per l’ulteriore cammino”).

Né, appunto, salvo il “frutto del capitale azionario”, era al capitale finanziario riconosciuto il diritto, nella costituzione economica del fascismo repubblicano e sociale, a partecipare alla ripartizione degli utili netti tra tutte le componenti organiche dell’azienda, ossia l’imprenditore/lavoratore ed i suoi lavoratori/collaboratori (articolo 12 “In ogni azienda – industriale, privata, parastatale, statale – le rappresentanze dei tecnici e degli operai cooperano intimamente – attraverso una conoscenza diretta della gestione – all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili tra il fondo di riserva, il frutto al capitale azionario e la partecipazione agli utili per parte dei lavoratori. In alcune imprese ciò potrà avvenire con una estensione delle prerogative delle attuali Commissioni di fabbrica. In altre, sostituendo i Consigli di amministrazione con i Consigli di gestione composti da tecnici e da operai con un rappresentante dello Stato. In altre ancora, in forma di cooperativa parasindacale”).

Questa concezione, espressa dal miglior e più autentico fascismo, era lontanissima da qualsiasi visione liberista dei rapporti sociali senza per questo cadere nel marxismo: tanto è vero che Mussolini la definì “la realizzazione italiana, nostra, mediterranea, umana, del socialismo”. Se avesse aggiunto anche un “cattolica” non sarebbe andato probabilmente molto lontano dal vero.

NICOLINO BOMBACCI

Alla stesura del Manifesto di Verona cooperò con entusiasmo anche Nicolino Bombacci, “comunista in camicia nera”, il quale già co-fondatore, con Antonio Gramsci ed Amadeo Bordiga, del Partito Comunista Italiano, dopo aver conosciuto direttamente in Russia l’esperimento sovietico, comprese che il socialismo, quale istanza etica di giustizia al quale da sempre idealisticamente aspirava, non era affatto quello, totalitario ed antiumano, che l’Urss per tale propagandava.

Rimasto pertanto in Italia, nonostante l’instaurarsi della dittatura fascista, e trovatosi in gravi difficoltà economiche, con in più un figlio gravemente malato, fu aiutato, segretamente, da Mussolini (e non fu il suo l’unico caso di antifascisti aiutati o salvati dal duce), che gli trovò un impiego presso un ente cinematografico, e da altri gerarchi della sinistra fascista come Leandro Arpinati, Dino Grandi ed Edmondo Rossoni. Bombacci, che sin da subito aveva intuito l’inespressa potenzialità di socialità anticapitalista del fascismo, si avvicinò al regime fino ad aderirvi intellettualmente – mai prese anche per opposizione interna la tessera del partito fascista – soprattutto nella speranza di uno sviluppo socialmente più avanzato del corporativismo: una speranza, questa, che molti, in Italia ed all’estero, coltivavano.

Sicché, quando nel 1943, ci fu la rottura tra le forze conservatrici e monarchiche ed il fascismo, che tornò alle sue origini repubblicane, socialiste e sindacaliste, Bombacci si presentò a Mussolini con l’intenzione di contribuire, finalmente, alla “realizzazione del socialismo”: così egli disse al duce mantenendo fede alla sua promessa tanto è vero che, morendo fucilato, il 28 aprile 1945, insieme agli altri gerarchi catturati a Dongo, invece di gridare “viva il fascismo” o “viva Mussolini” o “viva l’Italia”, urlò, un attimo prima di essere ucciso dalla scarica di fucileria, il suo “viva il socialismo”.

Ai lavoratori, negli anni della Rsi, si rivolgeva in termini da lui sinceramente sentiti e condivisi come questi: “il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito. Ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario” (cfr. Rinascita, 28 aprile 2014).

Alle camice nere, invece, il 15 marzo 1945, si rivolgeva così, chiamandole “compagni” e non “camerati”: «Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l’amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre. Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione, credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell’inganno».

Nicolino Bombacci spese la sua vita dando tutto per la causa dei lavoratori e facendosi “francescanamente” umile tra gli umili, orgoglioso della dignità delle sue povere origini. Il 21 dicembre 1944, in una riunione per spiegare agli operai le nuove norme sulla socializzazione delle imprese così li ammoniva: «Socializzazione è altruismo, è dignità di lavoro, è benessere, è dirittura politica e morale del lavoratore, purché questi sia onestamente attivo, sollecito nel dovere verso la collettività, doveri consorziati al diritto acquisito, scevro da scorie borghesi di egoismi individuali … Se sarete egoisti … sarete peggio dei vostri padroni».

C’è qualcosa di cristianamente eroico e generoso in queste sue convinzioni, che ci rendono cara la figura di questo galantuomo e che mostrano non un approccio materialistico ma, appunto, spirituale ed etico al problema della giustizia sociale, la quale sembra in lui diventare quasi un riflesso dell’amore agapico e comunitario: “Se sarete egoisti sarete peggio dei padroni!”. Ma il buon Nicolino Bombacci – questo è l’errore di tutti i socialisti etici, cristiani o meno – non teneva in debito conto proprio quanto pur ammoniva ai suoi operai: il povero, l’operaio, il lavoratore possono essere ben peggiori dei loro padroni perché non sono, per mera virtù sociologica o per mera appartenenza di classe, di per sé “altruisti” e disposti al sacrifico comunitario.

Anche il povero, l’operaio, il lavoratore è soggetto alla ferita ontologica che dai tempi primordiali ha segnato la natura umana deviandola dall’Amore Infinito, al Quale essa era aperta per originaria vocazione creaturale, verso l’egoismo autoreferenziale e solipsista. Ed anche se tale ferita non ha del tutto corrotto l’uomo – si tratta appunto di “ferita” e non di “corruzione” assoluta, come invece hanno ritenuto, erroneamente, Lutero ed Hobbes – tuttavia essa continua ad avere il suo peso ed a produrre i suoi effetti anche nell’ambito politico e sociale, nelle relazioni tra gli uomini.

Il paolino “uomo nuovo” che deve sostituire l’“uomo vecchio” può nascere solo dalla Grazia che trasforma in interiore homine il cuore umano. Le ideologie hanno creduto di poter trasformare la natura umana senza alcun intervento soprannaturale e sono naufragate nell’eterogenesi dei fini, spesso in modo tragico. Per questo, poi, molti utopisti e rivoluzionari hanno finito per rovesciare le proprie posizioni in un disincantato conservatorismo dai tratti sovente machiavellici. Tuttavia se avessero guardato alla storia della santità – un capitolo della storia trascurato dagli stessi storici o, se pur da essi trattato, preso in considerazione con approcci esclusivamente sociologici che impediscono, se assolutizzati, la comprensione dell’oggetto di studio – avrebbero potuto intuire che, sì!, esiste la possibilità per una trasformazione dell’uomo ma che tale possibilità è legata al suo abbandono fiducioso alla Trascendenza kenotica, che non resta lontana dall’uomo, chiusa nella Sua Maestosità, ma si piega, senza perdere la Sua Maestà Divina, sulle sue debolezze e miserie per innalzarlo nell’Amore.

Il buon Nicolino Bombacci scontava, come tutti i socialisti etici, una troppo ingenua e pelagiana sottovalutazione del peccato originale. La mattina del 29 aprile 1945 il suo corpo fu appeso per i piedi al distributore di benzina di Piazzale Loreto, a Milano, insieme al suo amico Benito Mussolini.

Eventi e uomini di un altro tempo ma che testimoniano quanto dicevamo: il “socialismo” – noi preferiremmo il termine “comunitarismo” – non ha a che fare con il materialismo prometeico marxista ma esprime una istanza Etica di Giustizia antica quanto l’umanità.

Infatti, benché in forme variamente declinate e – cosa assolutamente da non sottovalutare da un punto di vista cattolico – filosoficamente fondate su prospettive non avvicinabili a quelle cristiane, è tuttavia innegabile una comune convergenza, sul piano della concezione sociale tra il Cattolicesimo, con la sua dimensione sociale e comunitaria, ed un certo tipo di “socialismo non marxista” alla Proudhon, alla Sorel, alla Panunzio. Resta però, come detto, il punto non seriamente eludibile, che segna uno spartiacque insormontabile senza abbandono da parte non cattolica dell’immanentismo, del diverso fondamento teologico e filosofico posto a presupposto della politica sociale e sul quale nessun cattolico può cedere.

Un esempio di convergenza pratica è stata la Mit­be­stim­mung (co-determinazione), applicata in Paesi come la Germania del secondo dopoguerra nelle grandi e medie imprese, superiori ai duemila dipendenti: si trattò, infatti, di una riforma patrocinata tanto dal cattolicesimo sociale bavarese quanto dalla socialdemocrazia contribuendo potentemente alla ricostruzione e rinascita economica tedesca.

FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA ED ORDOLIBERISMO

Purtroppo, però, oggi lo strapotere della finanza è egemone non solo sulla politica ma anche sull’economia reale: i primi a lamentarsi di questa finanziarizzazione dell’economia sono quegli imprenditori legati, quali lavoratori, all’azienda, in genere sono piccoli e medi imprenditori, e che vi lavorano a stretto contatto con la manodopera. Si tratta proprio di quella tipologia di imprenditore non parassita, che a differenza di finanzieri e di banchieri non si limita ad apportare capitale finanziario, alla quale anche il Manifesto di Verona faceva positivo riferimento.

D’accordo, per non essere accusati di radicalismo utopico, ammettiamo, perché siamo realisti, che anche l’elemento finanziario ha un suo ruolo nell’economia. Ma – ecco il punto della questione – deve essere un ruolo di servizio all’economia reale ed alla produzione e non un ruolo di egemonica superfetazione “succhia-sangue” a danno dei produttori.

Ora, in Europa in particolar modo, l’ordoliberismo, benché indirettamente, ha consentito il prevalere innaturale ed ingiusto della finanza sulla produzione reale. Infatti, se è vero che i teorici dell’ordoliberalismo tedesco, del secondo dopoguerra, non pensavano a questo esito, è pur vero che la loro concezione – quella che, distinguendo, con improprio richiamo alla concezione medioevale, tra “ordine giuridico” ed “ordine economico”, tra ordinamento e mercato, in un modo radicalmente separatista ossia incapace di cogliere le inevitabili inferenze tra questi ordini che impongono anche interventi pubblici sul e nel mercato, vuole lo Stato autoritariamente garante nella sua “cornice istituzionale” del mercato: insomma lo Stato come Gendarme del libero mercato – a questo, ossia all’egemonia della finanza speculatrice, ha portato. O almeno l’ha agevolata.

E’, infatti, innegabile che una delle strade per le quali la finanziarizzazione si è gradualmente imposta passa per la sciagurata idea, ordoliberale, per cui la Banca Centrale deve essere del tutto indipendente dallo Stato, non deve monetizzare il bilancio pubblico (neanche per la spesa di investimento a sostegno della domanda, sia nei periodi di crescita sia nei momenti di recessione economica) e che, quindi, lo Stato si deve approvvigionare finanziariamente esclusivamente attraverso la tassazione ed il ricorso al credito sui mercati finanziari. Gli ordoliberali, in tal modo, sono vittime di una pericolosa contraddizione perché, da un lato, vorrebbero la riduzione della spesa pubblica, per contenere ai minimi possibili la tassazione, e, dall’altro, non si avvedono che mettendo lo Stato alla mercé esclusiva dei mercati finanziari diventa difficile, pur tagliando la spesa, ridurre il carico fiscale su famiglie ed imprese dal momento che ci sono sempre gli interessi, alti o bassi, sul debito, piccolo quanto si vuole ma pur sempre debito verso i privati, da pagare ad ogni scadenza semestrale, annuale o decennale.

Questa dell’indipendenza della Banca Centrale dallo Stato è una idea centrale per l’ordoliberalismo tedesco ed è l’eredità della grande paura germanica per l’iperinflazione dopo l’esperienza del 1920-23. E’ stata però del tutto dimenticata dagli ordoliberali la deflazione del 1929-1933, che costituì l’altra tragica esperienza del popolo tedesco negli anni tra le due guerre mondiali. E’ qui le date, storicamente parlando, non sono casuali corrispondendo esse, in ordine, al Trattato di Versailles, ossia all’umiliazione – una vera e propria vendetta anglofrancese – della Germania sconfitta, ed all’ascesa del nazismo che non fu provocata dall’inflazione ma dalla deflazione.

Rendere la Banca Centrale indipendente dallo Stato significa fare un favore alla finanza apolide e speculatrice, significa operare politicamente per i finanzieri confermando l’intuizione di Giacinto Auriti (che in verità la riprendeva da Ezra Pound) per la quale “i politici sono i camerieri dei banchieri”.

Non è pertanto un caso che, su Il Sole 24 ore del 17 luglio 2015, Donald Tusk, attuale presidente del Consiglio Europeo, in una intervista, rilasciata contemporaneamente a sei giornali europei, alla domanda «Sembra considerare le idee di Paul Krugman radicali, pericolose per l’Europa», risponde «Vi sono idee intellettualmente molto brillanti, ma che purtroppo non hanno molto a che fare con la realtà politica. Abbiamo bisogno di nuove idee perché le sfide sono nuove, ma abbiamo bisogno soprattutto di una discussione che sia realistica e pragmatica. Se devo cercare ispirazioni per trovare soluzioni sagge e responsabili alla crisi di oggi, guardo ai pensatori ordoliberali tedeschi, molto pragmatici, nessuna ideologia, senza illusioni”.

Quel che traspare da una risposta del genere è evidente. In primo luogo che l’ordoliberalismo è l’ideologia dell’Unione Europea – diciamo ideologia perché anch’essa è tale anche se pretende di non esserlo –, una ideologia che cerca di far passare l’idea della coincidenza oggettiva tra la sua concezione del mondo e la realtà del mondo medesimo (in tal modo “istituzionalizzando” il liberismo e tacitando come irrealisti tutti i suoi critici, secondo un modo molto poco liberale di approcciare alla discussione). In secondo luogo che l’ordoliberalismo tende a nascondersi dietro il richiamo, ipocrita, ad un presunto realismo an-ideologico il quale sconfina con la pretesa di essere in sintonia con il diritto naturale (le leggi del mercato diventano in tale contesto “diritto naturale divinamente sancito” e quindi intoccabili).

Qui – ed i cattolici, tragicamente, non se ne accorgono soprattutto se di sentimenti conservatori – siamo di fronte ad una chiara strumentalizzazione del diritto di natura e soprattutto del Cattolicesimo che gli ordoliberali assumono, indebitamente, a base teologica e filosofica della loro concezione neomercantilista. Nella Pontificia Università Lateranense operano in cattedra professori, ascoltati editorialisti di Avvenire, di cultura ed ispirazione ordoliberale, come Flavio Felice e Luca Diotallevi in stretti rapporti con cattolici liberali quali tra gli altri Rocco Buttiglione e Dario Antiseri, che gestiscono anche il Centro Studi Tocqueville-Acton con il dichiarato compito di divulgare l’ordoliberalismo per la sua asserita conformità alla Dottrina Sociale Cattolica, intesa naturalmente come giustificazione teologica del cattolicesimo liberale e dell’economia sociale di mercato (nell’accezione orizzontalistica propria, appunto, dell’ordoliberalismo e non in quella nella quale il sociale deve comunque prevalere, anche mediante una più forte presenza pubblica che non sia solo di vigilanza ma anche di intervento, sul mercato). Sono docenti certamente preparati e zelanti nello svolgere la loro missione divulgatrice: i loro articoli sono sempre molto interessanti per studiare e capire la loro cultura politica.

A nostro giudizio si tratta di una deriva pericolosa per il Cattolicesimo perché esso, nella prospettiva ordoliberale, viene ridotto a puntello teologico del sistema neoliberista. I grandi teologi cattolici, come Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino, diventano, per questi cultori cattolici dell’ordoliberalismo, dei precursori di Lord Acton e di Alexis de Tocqueville.

CARL MENGER: UN SOGGETTIVISTA CONTRO IL REALISMO

Però il diavolo sa fare le pentole ma non i coperchi e così accade che, leggendo quanto questi ordoliberali vaticani scrivono, si scopre che l’economista principale di riferimento è Carl Menger, il quale è stato nel XIX secolo il padre del marginalismo. Per i marginalisti il valore economico dei beni è commisurato alla sensazione soggettiva della loro utilità marginale proporzionale al bisogno. L’esempio classico è quello dell’assettato per il quale il primo bicchiere d’acqua ha un valore altissimo ma già il secondo ne ha di meno e così via mano a mano che la sete viene placata fino alla sazietà e quindi alla percezione della disutilità dell’acqua.

Quel che sfuggiva, però, a Menger è che l’acqua, come cantava san Francesco, non perde né la sua utilità né la sua bellezza creaturale, né la sua gratuità ontologica, anche quando non abbiamo sete o abbiamo placato la nostra sete. «Laudato, sii, mi Signore, per Sora Aqua, la quale è molto utile et umile et preziosa et casta»: il serafico san Francesco ringraziava l’Altissimo e Onnipotente Bon Signore di questo grande dono, un dono prezioso per la vita biologica ma ancor più per quella spirituale: benedetta, infatti, dal sacerdote diventa l’acqua benedetta, un sacramentale oggi in disuso, ma non nel Medioevo. È possibile immaginare con quale fervore san Francesco pensava all’acqua uscita dal Costato di Cristo, l’acqua vera fonte della nostra Salvezza: «E subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).

Santa Chiara d’Assisi era animata dallo stesso francescano fervore come testimoniò, nel Processo di Canonizzazione, Sora Angeluccia: «Avendo una volta la preditta Madre madonna Chiara udito cantare dopo Pasqua vidi aquam egredientem de templo ex latere dextro, tanto se ne rallegrò e lo tenne a mente, che sempre, dopo mangiare e dopo Compieta se faceva dare a sé et alle Sore sue l’aqua benedetta, e diceva ad esse Sore: “Sorelle e figliole mie, sempre dovete recordare e tenere nella memoria vostra quella benedetta aqua, la quale uscì dal lato destro del nostro Signore Iesu Cristo pendente in croce”» (Fonti Francescane 3111).

Insomma, la realtà non è mai riconducibile alla nostra povera e limitata soggettività, perche essa, la realtà, è un dono gratuito di un Infinito Amore che per amore ha creato anche l’uomo. Quindi agli ordoliberali poniamo la domanda: come è possibile mettere insieme Tommaso d’Aquino, con il suo realismo per il quale tra soggetto e realtà oggettiva c’è contemporaneamente distinzione ed armonica  corrispondenza (adequatio rei et intellectus), dipendendo l’uno e l’altra da un Terzo che li trascende entrambi quale fondamento ontologico della loro stessa esistenza, con un Carl Menger che, in fondo, nel suo pensiero è debitore dell’idealismo perché riduce la realtà oggettiva a mera percezione, nel suo caso utilitarista, del soggetto?

Carl Menger intendeva, da liberale, polemizzare con Karl Marx per il quale il valore economico dei beni è una realtà oggettiva, insita nella materialità dei beni stessi, sicché l’operaio producendo un bene incorpora in esso il valore oggettivo del suo lavoro ma, poi, non viene retribuito integralmente di tale valore, in corrispettivo monetario, perché il capitalista, che introita il profitto della vendita di quel bene, si appropria di quasi tutto il valore economico lasciando all’operaio solo un minimo di sussistenza (è, questa, la teoria marxiana del plus-valore).

Ora, siamo d’accordo: Marx radicalizza in modo indebito ed erroneo perché non è esattamente vero che l’imprenditore, il quale quando non è semplicemente apportatore di capitale finanziario è anche lui un lavoratore, si appropria parassitariamente del plus-valore, il quale dovrebbe spettare tutto all’operaio come se l’azienda potesse funzionare solo grazie al lavoro operaio e non anche a quello intellettuale, direttivo, tecnico, amministrativo. E’ però vero – non lo diceva solo Marx perché lo ha ripetuto Keynes su presupposti diversi e polemici con Marx – che l’imprenditore, almeno quello della antiche ferriere ma anche quello odierno, postmoderno, diventato anonimo nella forma del grande capitale azionario transnazionale che sembra tornare, ciecamente per i suoi stessi interessi, a nulla concedere alla domanda e quindi a comprimere i salari per tutto assegnare alla sola offerta ossia al solo capitale – provoca la sua stessa rovina perché non tiene conto che è la domanda a creare l’offerta, non il contrario, sicché sottopagando i lavoratori prepara le condizioni del fallimento del sistema di mercato.

Ma, polemizzando con Marx, Carl Menger, tuttavia, senza avvedersene (checché ne pensino i suoi estimatori cattolici, questo non era affatto nelle sue preoccupazioni), finisce indirettamente per polemizzare, da soggettivista convinto, anche con Tommaso d’Aquino e con tutta la tradizione, teologica e filosofica, cattolica del realismo ontologico e gnoseologico. Forse – lo diciamo senza alcun intento di provocazione e senza alcun tentativo di commistione filosofica che, anzi, respingiamo risolutamente – sotto questo profilo, quello relativo al valore intrinseco o soggettivo delle cose, si può cogliere una assonanza tra l’approccio, tutto sommato realista, di Marx con il realismo dell’Aquinate (fatte, naturalmente, salve tutte le altre insormontabili ed abissali differenze tra i due). E se è vero che anche la soggettività svolge un suo ruolo ed ha un suo spazio di legittimità, e di capacità di intuire il Vero, non è possibile affermare questo spazio di legittimità al di fuori di un contesto che rimandi costantemente alla realtà oggettiva, nella distinzione tra soggetto ed oggetto (che solo nel Terzo superiore possono trovare un punto di unità che non è però di fusione e di indistinzione). Che pertanto rimandi all’Unico Oggettivo che ci trascende tutti.

MA SIAMO SICURI CHE L’EUROPA ORDOLIBERALE SIA L’EUROPA TRADIZIONALE?

Chiudiamo con una nota sulla assoluta consapevolezza degli ordoliberali circa l’identità dei loro attuali antagonisti politici. Gli ordoliberali conoscono bene quali sono i loro avversari politici, molto più di quanto questi ultimi conoscano il loro comune avversario ordoliberale. Nella stessa sopra citata intervista, Donald Tusk afferma di essere rimasto impressionato dalla – “molto simbolica” la definisce – alleanza tattica tra la sinistra radicale e la destra radicale nel Parlamento Europeo durante il dibattito con il premier greco Tsipras. Egli ricorda, dimostrando buona ma assolutamente parziale e strabica conoscenza storica, che questo tipo di alleanza in passato “ha preceduto le più grandi tragedie nella Storia europea” ed aggiunge che questa alleanza “coltiva un sentimento anti-europeo, in contrasto con la tradizionale visione dell’Europa” perché “E’ anti-liberale e anti-mercato”.

Ecco qui, come volevasi dimostrare, che, poste così le cose, diventa impossibile ai critici dell’attuale assetto eurocratico poter obiettare qualunque argomento perché se essi contestano l’assetto ordoliberale dell’Unione Europea diventano ipso facto “nazional-bolsevichi”, “neonazisti” o “neocomunisti”, anche se questi fenomeni sono proprio generati, per reazione, dall’ordoliberismo e sono il frutto avvelenato delle politiche di austerità e di rigore mercantilista.

Ora, a parte il fatto che nella ricostruzione storica di Tusk nulla si dice delle responsabilità anglofrancesi, conseguenti a Versailles, di quanto accade in Europa tra il 1920 ed il 1945, quel che è più impressionante è l’affermazione per la quale questa Unione Europea concepita sulla finanza e per la finanza, sulla Germania ordoliberale e per la Germania ordoliberale, sia niente di meno che “la tradizionale visione dell’Europa”!!! E noi, poveri ingenui, che pensavamo che le radici dell’Europa fossero nella Roma cristiana come nell’Atene dei filosofi (toh! Guarda un po’ chi ci troviamo sul cammino alla ricerca delle nostre radici) e nella Gerusalemme dei profeti biblici, compresa l’appendice del profetismo postbiblico islamico, annunciatori dell’Incarnazione del Verbo di Dio?!

Coloro che, come lo scrivente, la Tradizione l’hanno sempre difesa non possono certo oggi accettare questa parodia – non usiamo il termine “parodia” a caso ma con l’intenzione dichiarata di riferirci alla “scimmia di Dio”! – di “tradizione europea” in salsa ordoliberale. Da qui, benché sia giusto e sempre necessario sottolineare senza sosta le differenze abissali sussistenti tra noi cattolici e le altre culture filosofiche e politiche, l’urgenza attuale di volgere ogni sforzo contro l’avversario principale, anche se dovessimo trovarci a fianco alleati di diverse provenienze. Anzi dobbiamo, paolinamente, cercare di rendere coscienti questi possibili alleati su quanto nelle loro posizioni c’è di giusto e di vero e su quanto, invece, è solo frutto di un prometeismo, senza senso e senza speranza, a tutto vantaggio dell’ordoliberismo oggettivamente al servizio, e non ci interessa se contro quelle che erano le prospettive dei suoi maestri e dei suoi attardati epigoni, dei “mercati finanziari”.

Luigi Copertino