Lettera aperta a Massimo Gramellini

Queste riflessioni sono state suscitate dalla lettura del «Buongiorno» del 4 luglio 2015, che riporto integralmente.

 

Cara Laura, ragazza belga di 24 anni sprofondata fin dall’infanzia nel buco nero della depressione, ho letto che hai appena chiesto e ottenuto il via libera all’eutanasia, cioè la possibilità di morire per mano dello Stato. Sgombro subito il campo da un pregiudizio. I mali dell’anima sanno essere strazianti e talvolta irreversibili come quelli del corpo; il fatto che siano invisibili non significa che siano meno gravi. E do naturalmente per scontato che ogni tentativo di inocularti il desiderio di vivere sia stato esplorato senza risultati. Che nessuna pasticca di serotonina o assolo di chitarra degli U2 sia riuscito a riaccendere in te la scintilla vitale. La questione va allora spostata su un altro piano. Se sia giusto che lo Stato si sostituisca a te nel porre fine alla tua vita.

Per noi laici la vita è un dono, ma anche una responsabilità individuale. Ogni essere umano ha diritto di poter spegnere l’interruttore quando ritiene che le sofferenze fisiche e morali gli siano divenute insopportabili: lo scrivo con la consapevolezza dolorosa di chi in famiglia ha pagato l’esercizio di questa libertà. Però contesto che chi è giunto a tali drammatiche conclusioni possa delegare quel compito alla comunità. A meno che sia un malato terminale o in coma o molto anziano, e non sia quindi in grado di svolgerlo da solo. Ma i medici hanno certificato che tu sei cosciente, mobile, nel pieno possesso delle tue facoltà. E allora non tocca a noi darti il permesso o addirittura l’opportunità di morire. Solo tutto il nostro aiuto per vivere.  

 

 

Gentile dottor Gramellini,

tanto io quanto Lei sappiamo che lettere come la mia non cambiano niente: ognuno resterà della propria idea, salvo rare, e in taluni casi auspicabili, eccezioni. Purtuttavia il Suo «Buongiorno» sul caso di Laura, la ventiquattrenne belga decisa a conferire allo Stato la possibilità di irrogarle la morte, necessita d’una precisa replica. Procederò ora in ordine più o meno sparso.

Anzitutto che per «noi laici» la vita sia «un dono» è opinione, in questa piuttosto bizzarra comitiva, non condivisa da tutti, e forse solo da una stretta minoranza. Un dono implica un donatore e chi non crede in un Principio superiore o si colloca in uno spazio – troppo comodo, invero – di kantiana sospensione del giudizio, non può nemmen di lontano concepire l’esistenza d’un donatore di vita. E in ogni caso qualsiasi “entità” i laici possano chiamare in causa come surrogato è del tutto priva di una coscienza tale che possa suscitare l’idea del dono.

Scrive subito dopo che la vita è anche «una responsabilità individuale». Non voglio adoperare la teologia o argomentazioni filosofiche, ma solo una sana logica: se la vita è una responsabilità, com’è possibile che non scegliamo noi di nascere? Insomma, se ci si assume una responsabilità significa che si è coscienti almeno della genesi d’un fatto, d’un gesto, d’un dato. Ma se la cosiddetta morale laica pone in dubbio un inizio extra-umano se non addirittura lo nega e blatera di «caso» e di «natura», com’è possibile che un individuo in un simile buio intellettuale (per non parlare di quello del cuore) possa assumersi la responsabilità di qualcosa?

C’è poi il titolo del Suo intervento, che richiama consapevolmente la terribile pellicola Misery non deve morire. Comprendo l’arte retorica di catalizzare sin da subito l’attenzione di un lettore, il Suo, che in ogni caso La legge “a prescindere”, per dirla con Totò. Ma, e Lei lo sa ovviamente bene, pare oltremodo macabro richiamare alla memoria, per il caso di Laura, una pellicola in cui una psicopatica violenta e potenzialmente assassina cerca di tenere in vita, torturandolo di tanto in tanto, il proprio eroe, finalmente in proprio possesso.

Il laicismo, non solo il Suo ma nella sua propria essenza, emerge con prepotenza tra le righe dell’articolo, ma neppur troppo tra le righe: Laura, dice Lei in buona sostanza, ha il diritto di andare a sondare i misteri dell’aldilà – diritto che ovviamente solo un laico può inventarsi, a dispetto di qualche milione di anni in cui l’umanità in tutto l’orbe terracqueo non l’ha pensata così – ma, per carità, non carichi noi, Stato democratico, di siffatta mansione: se vuole, la fanciulla se la sbrighi da sola. Lei scrive «contesto che chi è giunto a tali drammatiche conclusioni possa delegare quel compito alla comunità». In base a cosa contesta questa possibilità e invece non ha alcunché da replicare, anzi, a che un individuo possa decidere di commettere suicidio? Una doppiezza tutta laica. Poi soggiunge: «A meno che sia un malato terminale o in coma o molto anziano, e non sia quindi in grado di svolgerlo da solo». Traduzione: se il soggetto è incapace di darsi la morte, allora ecco che lo Stato può surrogarne non solo la volontà, ma altresì la persona giuridica. Insomma, lo Stato, sempre democratico e sempre laico, se ne lava le mani, intervenendo giusto solo in quei casi e mediante quelle modalità che non solo lo esulano da autentiche responsabilità, ma rischiano persino di farlo apparire uno Stato etico, la migliore delle repubbliche possibili.

Ancora: «i medici hanno certificato che tu sei cosciente, mobile, nel pieno possesso delle tue facoltà». Dopo lo Stato, Lei chiama in causa il medico: ecco, a Suo implicito giudizio di laico, qual è l’altra autorità da interpellare. Pare che sulla faccia di questo sventurato pianeta non vi siano altre voci autorevoli, se non quelle appunto della laicità e della scienza.

Ma è un segno dei tempi, questa degenerazione: già Baudelaire intuì che i Lumi ci avrebbero portato verso l’oscurità. In epoche meno indecenti della nostra e in contesti non certo clericali l’argomento eutanasia – che sarebbe meglio chiamare, a seconda dei casi, «omicidio di Stato» o «suicidio indotto di Stato» – per il futuro Leviatano si auspicava un ruolo ben diverso. Per esempio in Utopia di Tommaso Moro, non certo un baciapile, lo Stato aveva il coraggio di assumersi la responsabilità d’esortare un moribondo a togliersi di mezzo oppure di consentire ad altri, lo stesso Stato, ad agire in tal senso. D’altra parte da uno Stato laico (ciò che non è certo quello di Utopia) non ci si può aspettare di meglio: il termine laico è infatti sinonimo, come spiega bene Niccolò Tommaseo, di «laido» e deriva dal verbo greco laikázo, ossia fornico, mi prostituisco e, in Aristofane trova il suo massimo compimento, filologicamente ineccepibile, in «farsi fottere». Perché poi, alla fine e in sostanza, la logica laica o quella comunque svincolata da ordinamenti non suscettibili di vacillamenti e delle oscillazioni tipiche della mente (o dell’anima, se ci si crede), ti si ritorce contro, è la serpe in seno, allevata dopo, beninteso, essersi sbarazzati dall’ingombrante antidoto, la non più cara e sicuramente vecchia, vecchissima fede. Dostoevskij lo aveva ben capito, e insegnato: l’idea umana, il pensiero teorico, puro e umano, a priori, è quello che di fatto riconduce irremeabilmente la responsabilità (oibò) dell’assassinio (ri-oibò) del vecchio Karamazov non certo su quell’escrescenza umana di Smerdjakov, puro strumento, mano sinistra e sinistra mano, dell’autentico responsabile: lo stesso, affascinantissimo Ivan.

In finale di articolo c’è da allibire. Ricompare il noi, lo stesso, immagino, di «noi laici». «Non tocca a noi darti il permesso o addirittura l’opportunità di morire. Solo tutto il nostro aiuto per vivere». Sulla prima parte dell’estratto, niente da eccepire: alle ovvietà non si oppongono rettifiche. Sulla seconda invece c’è qualcosa da appuntare. Come intende Lei questo «aiuto per vivere»? Anzitutto il Suo pezzo esordisce parlando di depressione: sono almeno cinquant’anni o poco meno che un’intera corrente (scientifica? scientifica!) di studiosi, tutti laici peraltro, ha posto in dubbio la terminologia concentrazionaria psichiatrica, psicoanalitica, psicologica, psicofarlocca. Le implicazioni dell’uso criminogeno delle parole sono incommensurabili, ma basti, a solo titolo d’esempio, il concetto di stigma introdotto da quel “reazionario” di Erving Goffman oppure alle considerazioni di Thomas Szasz sulla malattia mentale. Lei, caro dottore, ha già condannato Laura alla morte civile e psicologica asseverando una diagnosi che fa acqua da tutte le parti e che già in quanto diagnosi coincide con una sentenza di condanna. Ci sono centinaia di studi e decine di autorevolissimi studiosi che hanno chiarito la faccenda. Le scorciatoie giornalistiche, ovvero le volgari semplificazioni stanno più o meno bene quando si parli della politica nostrana o di calcio, ma non quando si parla di vita. Ripeto, perché è importante: lo stigma è una condanna a morte, che può condurre alla morte; alcuni soggetti, per molto meno, per questa colpevole superficialità hanno anticipato tutti, Stato, laici, cliniche, partiti e quant’altro e si sono tolti di mezzo per la vergogna. «I mali dell’anima», Lei scrive ancora, con quella consueta borietta gazzettiera. Che un laico parli di anima solleva molte e non leggere perplessità, ché è come un cannibale sorpreso a tessere l’elogio della dieta vegetariana a una riunione di Animal Amnesty: lo farà solo per mimetizzarsi, ingraziarsi gli astanti e poi mangiarsene un paio. L’espressione, ancorché suggestiva come bei sogni, qui non è appunto credibile: c’è un evidente tentativo di mangiare con le parole la povera Laura, prima ancora di darla in pasto alla laicità, o laicismo (questa o quella parola per me pari sono): nell’articolo prima la si blandirà con accenni alla serotonina (e perché non a quella contenuta nel cioccolato?) e assoli di U2 (de gustibus…), poi però, in buona sostanza, la si getterà in pasto a se stessa per morire. Noto qui inoltre una stridentissima, urticante contraddizione: se esiste un male, una malattia (stigma imposuit), esisterà pure una persona malata e in questo caso, per soprammercato, di depressione. Ora, Stato o non Stato, libertà individuale o meno, Lei trova logico, umano, buono, edificante conferire la responsabilità della propria vita a una persona malata? Perché – seguo la “logica” del Suo intervento – se una persona sta male forse, dico forse, non è del tutto in grado di disporre delle proprie facoltà mentali. E se la faccenda sta così, chi può assumersi la responsabilità, ancora!, di lasciarla morire di propria mano? Il laico, forse?

Sin qui quanto si legge: ovviamente, per non farci perder troppo tempo, ho evitato di far le pulci a tutto il Suo articolo, limitandomi a un florilegio. Adesso occorre però una noticina anche su quanto invece è del tutto assente dal Suo articolo. Per esempio la parola «coscienza».

Un’assenza assai eloquente, che però inchioda chi la tace al proprio forse insanabile vulnus, che non è solo logico ed ermeneutico, bensì fondativo, epistemologico, trascendente. Spero laico non voglia dire anche ottuso e arrogante, visto che nella prospettiva che Lei affresca con mirabile penna, si elude un problema che, dall’India vedica sino a oggi, nessuno, nemmeno madama scienza, ha potuto eludere, se non infilandola, come una pessima colf, sotto il tappeto. Sì, perché quando parlo di coscienza non faccio riferimento al concetto inteso in sagrestie da Controriforma, bensì di qualcosa di assai più cruciale, ossia – e sarò blandissimo e ben lungi dall’esaurire la fondamentale idea – la percezione di essere qualcosa di non autonomo, di essere dipendente in maniera radicale da una Realtà che ci sovrasta e ci attornia. Vexata quaestio, dirà Lei, e ne convengo. Andando per le corte che non sono però spicce, Le pongo una domanda plastica, con l’autentico rispetto che questo argomento impone: Se Lei avesse potuto pensare e parlare come fa oggi quand’era nel ventre di Sua madre e qualcuno Le avesse detto che sua madre non esisteva e Lei ci avesse creduto, che cosa sarebbe accaduto? La risposta non la deve a me – ci mancherebbe – forse però alla sua coscienza, declinata come più le aggrada, forse sì.

Sul resto della lettera, La prego invece di darmi una risposta articolata e sensata; se però volesse liquidare me (pazienza) e la faccenda con due battute degne della televisione, si astenga dal prendermi in considerazione.

Cordiali saluti.

 

Luca Bistolfi*

 

PS: Perdoni la lunghezza di questa replica. Ma un tale argomento non può, non deve essere aperto, risolto e chiuso nello spazio di un «buongiorno».

 

 

 

* Luca Bistolfi ha svolto per anni l’attività di giornalista culturale e politico presso diverse testate nazionali, coltivando parallelamente quella di saggista e traduttore. Ha tenuto diverse conferenze in Italia e all’estero su diversi temi, legati in particolare all’Est Europa. Ha collaborato e collabora con il nostro tempo, Studi Cattolici, Eurasia. Rivista di studi geopolitici, Linea, l’Officina, East Journal. Ha pubblicato un’inchiesta storica sulla Morte di Wagner (Effepi, Genova, 2011) e ha tradotto e curato il saggio La fine dei Ceausescu (Aliberti, Reggio Emilia, 2012) di Grigore Cartianu, prima e unica dettagliatissima ricostruzione uscita in Italia sulla fine dei dittatori romeni. Di prossima uscita è un suo lavoro su Carmelo Bene e una raccolta di scritti sulla musica classica.