LEONE XIV
elementi per una prima e non definitiva valutazione
“Sto come un Papa!” è il popolare modo di dire per significare una situazione personale di particolare agiatezza e favore. Suppone l’idea che il papa sia una persona servita e riverita e senza problemi. In realtà quando il Signore chiama al soglio di Pietro è la Sua Croce che Egli ti carica sulle spalle. Altro che potere e riverenza!
Lo sguardo commosso, persino un po’ perplesso, del nuovo Pontefice, i suoi occhi umidi, quando egli è apparso giovedì 8 maggio sera al balcone della basilica di san Pietro, ha fatto toccare con mano come ci si sente sotto quel peso caricato su fragili spalle umane.
È presto per poter esprimere un giudizio più ampio su Leone XIV ma intanto prendiamo in considerazione alcuni “dettagli” che certamente ai più paiono insignificanti ma che a chi sa leggerli nella luce della fede lasciano un margine di speranza.
I media all’opera per falsificare gli eventi
Il media system si è immediatamente attivato per sottolineare la sua continuità con Francesco I. Che certamente, per alcuni aspetti, non potrà mancare. Ma la capacità di analisi dei nostri giornalisti è pari alla misura della libertà di stampa attribuita dalle rilevazioni internazionali all’Italia, posta in basso nelle classifiche insieme a diversi Paesi africani (con tutto il rispetto per questi ultimi, sia chiaro!). Il fatto è che i nostri giornalisti sono propagandisti dell’ideologia liberal dominante e come tali sono indotti, consapevolmente o meno, a distorcere il dato di realtà per farlo rientrare nel loro schema ideologico.
Ed è così che nei Tg Rai serali di venerdì 9 maggio è stata evidenziata con particolare enfasi la correzione che il cardinale Robert Francis Prevost avrebbe fatto all’attuale vicepresidente americano J. D. Vance circa la questione dell’Ordo Amoris. In realtà non c’è stata alcuna correzione perché Prevost ha semplicemente espresso su X, dunque non in un trattato di teologia né in un articolo, il suo apprezzamento verso i rilievi mossi a Vance dal National Catholic, quotidiano del cattolicesimo progressista statunitense, che aveva avanzato riserve critiche al vicepresidente adombrando, con ogni probabilità, il modello di un cristianesimo intriso di umanitarismo e di utopia. Non sappiamo cosa abbia inteso Prevost con il suo post in favore dei critici di Vance ma certamente avrà in tema un suo giudizio molto più articolato di quello espresso su un social e oggi strumentalmente riesumato dai media.
Vance, lungi dal parlare di gerarchie sociali come hanno fatto intendere i media, aveva ricordato, a proposito dell’immigrazione, che la Grazia e l’Amore non aboliscono la natura e che esiste pertanto un ordine nell’amare il prossimo: prima chi ci è più vicino per legami familiari, nazionali, e poi gli altri. Vance non ha detto nulla di inedito né in sé di errato visto che tale “dottrina” è parte della morale cattolica ed è stata avvallata da grandi teologi nel corso dei secoli. In sostanza egli ha detto, per ricorrere ad un esempio, che un padre non può togliere il pane ai propri figli per darlo ad altri, magari con il pretesto della carità. Questa non sarebbe carità ma una sua distorsione. Certamente se il pane è abbondante il problema non si pone ed allora non darlo anche ai figli degli altri in caso di bisogno non sarebbe cristiano. Ma si presume che Vance avesse voluto parlare della situazione estrema di scarsità delle risorse disponibili. D’altro canto, però, il vicepresidente trumpiano ha dimenticato che nell’ordine dell’amore ha posto anche la prossimità spaziale, quindi anche l’immigrato o il povero con i quali non si hanno legami naturali, familiari o nazionali, e che però si incontrano per strada e ci tendono la mano.
Ora il principio etico al quale si è richiamato Vance risale a Tommaso d’Aquino ma ancora prima ad Agostino d’Ippona e, a volerla dire tutta, all’insegnamento di sempre della Chiesa e quindi a Gesù Cristo. Nella parabola del “buon samaritano”, laddove è affermata la carità di prossimità spaziale anche in assenza di legami di natura, non viene affatto negata la legittimità dei naturali legami familiari, o nazionali, ma soltanto che tali legami non devono essere disgiunti, per quanto possibile, dalla Carità che impegna altrettanto l’amore nel caso della prossimità di sola vicinanza spaziale.
La Rai ha, invece, sottolineato il rimprovero del cardinal Prevost a Vance, quasi a voler dire che il futuro Papa è un progressista in quanto avrebbe negato l’insegnamento tradizionale che però è anche quello di sant’Agostino. Proprio lui che è un agostiniano?! Prevost, da quanto si sa, è molto ben ferrato in teologia sicché è difficile ipotizzare che la sua “correzione” a Vance abbia seguito la scia banale del politicamente corretto prescindendo dalla dottrina tradizionale per ridursi ad un generico afflato umanitario. Ma per i media queste sono questioni di poco conto perché ciò che fa notizia è la presunta opposizione di Prevost a Trump. In tal modo il nuovo Papa viene ascritto d’ufficio allo schieramento liberal benché, a quanto pare, la sua elezione sia stata orchestrata in modo tale da mettere d’accordo tutti, compresi i conservatori. L’ordine di scuderia, del momento, seguito dai media è quello di eliminare l’anomalia trumpiana. E tutto fa brodo allo scopo. I veri lati oscuri del trumpismo sono ben altri, ad esempio la complicità con Israele nella sua attuale politica genocida. Ma questi lati oscuri, guarda caso, sono proprio quelli a non essere nell’occhio dei nostri media perché in Occidente Israele è intoccabile.
Ora a noi Prevost appare piuttosto come il meno statunitense dei cardinali statunitensi e questo genera equivoci sulle sue posizioni politiche nello scenario americano. Intendiamo dire che il nuovo Papa, pur nativo di Chicago – la città la cui Università è da sempre la roccaforte della scuola classica di economia, ossia del liberismo, e nella quale negli anni settanta si affermò il monetarismo di Milton Friedman, che avrebbe ispirato la rivoluzione neoconservatrice reaganiana degli anni ottanta – è stato missionario in Perù prendendo contatto con realtà sociali di sfruttamento capitalistico al limite del disumano e maturando la convinzione che la fede non può essere giustificazione di tali politiche neoliberiste, alle quali poi la risposta, anch’essa tragica, arriva dalla lotta armata rivoluzionaria o, in teologia, dalla aberrante teologia della liberazione che altro non è che marxismo camuffato in termini teologici. Tenendo conto di questa sua esperienza diventa comprensibile la distanza di Prevost da quei conservatori “farisei” ciechi di fronte agli esiti del liberismo selvaggio e che sono preoccupati soltanto di difendere i propri privilegi e la propria ricchezza accumulata contro qualsiasi imperativo etico cristiano di distributismo. Da qui, probabilmente, il suo post critico verso Vance che, forse, non ha tenuto conto quanto d’altronde una politica protezionista, se ben applicata con prudenza e saggezza, possa essere benefica in termini di occupazione e reindustrializzazione in una America nella quale, come del resto in tutto l’Occidente, la globalizzazione ha gettato nella povertà più disperata la working class e impoverito lo stesso ceto medio, avvantaggiando soltanto il capitalismo trasformatosi da patrimoniale in finanziario e da nazionale in globale. Ma fare di Prevost, per un post su X, un progressista ci pare, al momento, azzardato e distorsivo della sua storia personale. Bollare il capitalismo e il conservatorismo anglosassone non significa essere automaticamente “comunisti” o esponenti woke. Anche perché è noto che Prevost è alieno dallo sposare le posizioni morali della sinistra arcobaleno, dal Lgbt allo sdoganamento dell’omosessualismo, del transgender, di eutanasia e aborto, e quelle della sinistra clericale ad iniziare dalla possibilità per le donne di accedere al sacerdozio.
Un pacifico, non un pacifista
Un altro esempio di distorsione mediatica lo ha offerto Massimo Gramellini con un suo articolo, sul Corriere della Sera del 9 maggio scorso, tutto impostato sulla continuità sostanziale di Leone XIV con Papa Bergoglio anche se nella forma, fin dal suo apparire in san Pietro con tutti i paramenti pontificali a suo tempo rifiutati da Francesco I, egli ha mostrato di discostarsene. Ci dice Gramellini che Leone “l’americano” non si mai autocitato nel suo discorso alla folla in piazza e che ha pronunciato ben nove volte la parola “pace”. Gramellini ha cercato di far passare Leone XIV come un papa che si annuncia in sintonia con il pacifismo dell’ordine internazionale liberale – quello che ha fallito, perché in realtà maschera giuridica dell’unilateralismo nei rapporti internazionali, ma che l’establishment occidentale, eurista in particolare, fa passare come “aggredito” dalla Russia per cui dobbiamo armarci – e quindi ha tentato di presentate il nuovo Papa quale cappellano dell’Occidente post-cristiano. Un classico dell’ideologia liberale, tanto nella sua versione conservatrice che in quella progressista.
Un riduzionismo che mostra tutta l’incapacità dei Gramellini di ogni sorta, risma, e schieramento politico a capire i termini nei quali Leone XIV si è presentato al mondo intero. Che non sono affatto quelli supposti dall’editorialista del Corsera. Il saluto del nuovo Papa non è stato un saluto di pace qualsiasi, non aveva nulla di “umanitario”. Leone XIV ha salutato esattamente come Gesù Cristo Risorto salutò i suoi apostoli allorché apparve loro nella Sua Carne Immortale: “Pace a voi” (Gv. 20, 19-20). Dove Pace è scritto con la maiuscola ad indicare uno degli attributi del Sacerdozio Regale ed Eterno – al modo di Melchisedek – propri di Cristo che, infatti, ha promesso ai suoi di dare loro la pace ma non come la dà il mondo (Gv. 14,27). Non dunque la “pace” del pacifismo umanitario, perché il cristiano è certamente uomo di Pace, persino pacifico – essere “miles pacificus” era la consegna dell’investitura cavalleresca a sottolineare che anche l’uomo armato deve sottomettere la sua forza militare, che non è negata, ad un’etica di giustizia e amore, quella della difesa, già veterotestamentaria, della “vedova e dell’orfano” –, ma non sarà mai un “pacifista” perché egli aspira per l’appunto alla Pace di Cristo che il mondo non può dare: la Pace in interiore homine.
Leone XIV lo ha detto esplicitamente nel suo primo discorso – “… questo è il primo saluto del Cristo risorto, il buon Pastore, che ha dato la vita per il gregge di Dio. (…). Questa è la pace di Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio … che ci ama tutti …” – ma per Gramellini si tratta della pace che proviene dal mondo ed ha cercato di presentare il nuovo Pontefice, se non nella forma almeno nella sostanza, come un secondo Papa Francesco, a sua volta – purtroppo dobbiamo dire con la sua “complicità” – rielaborato mediaticamente alla stregua di un qualsiasi filantropo a capo di una organizzazione non governativa tra le tante impegnate a costruire un mondo senza frontiere, cosmopolita, arcobaleno, un mercato mondiale di benessere planetario, un sistema internazionale pacificato fondato su astratti “diritti dell’uomo” che poi, alla prova dei fatti, si rivelano puntualmente meri strumenti di costrizione unilaterale.
Visto da conservatori e tradizionalisti
D’altro canto, nonostante cardinali conservatori come Leo Burke abbiano espresso soddisfazione per l’elezione di Robert Francis Prevost, negli ambienti conservatori e in quelli tradizionalisti l’atteggiamento va dalla chiusura preventiva al sospetto pregiudiziale fino, nel migliore dei casi, al moderato attendismo. Ripetiamo: è presto per un qualsiasi giudizio definitivo ma intanto non è corretto prescindere da certi segni opponendosi alla speranza.
Senza dubbio non accontenterà coloro i quali aspettano un Papa che si affacci dal balcone per dichiarare urbi et orbi che gli ultimi sessant’anni della storia della Chiesa sono stati uno scherzo, e come tali aboliti, la scelta di un nome tale da segnalare la volontà di sottolineare, come già fece Benedetto XVI, la continuità della Chiesa, che non è nata con il Vaticano II. Costoro tuttavia moriranno aspettando. Invece bisogna partire proprio dal nome scelto dal nuovo Pontefice per tentare una prima, e come detto del tutto parziale e non definitiva, valutazione. Nella speranza che essa sia poi confermata dai fatti.
ll problema di molti conservatori e tradizionalisti – il discorso comunque non va assolutamente generalizzato – è quello di non saper adeguatamente distinguere tra la Tradizione e le variabili forme di organizzazione politica e sociale. Se la prima è immutabile nei suoi principi di Verità, benché poi dinamica nelle modalità storiche di comunicarli, le seconde invece sono assolutamente modificabili in quanto legate ai percorsi della storia, delle relazioni umane, delle possibilità tecniche, delle trasformazioni economiche. Non distinguere significa dare ragione a Marx per il quale la Tradizione sarebbe la sovrastruttura ideologica a giustificazione di una struttura sociale di dominazione e sfruttamento delle classi alte su quelle basse. Chi non distingue perverte la Tradizione a strumento di disegni di conservazione politico-sociale di assetti non sempre conformi non solo alla giustizia umana ma anche all’Amore di Dio. Invece proprio il fatto che si possa amare la Tradizione anche se la realtà nella quale siamo stati chiamati a vivere non è più quella medioevale, né quella dell’Ancien Règime, è la prova migliore che Essa non è una proiezione di assetti storici, non dipende da assetti sociali dati, e che Essa ci deve spingere piuttosto alla critica dell’attuale assetto capitalistico-finanziario globale.
Dalla Tradizione derivano certamente indicazioni etiche per una migliore vita di relazione tra uomini e popoli – e si tratta di etica distributista (nient’affatto comunista) testimoniata sin dal passo degli Atti degli Apostoli 4,32-35 – ma sappiamo quanto sia preventivamente necessaria la metanoia del cuore affinché esse possano operare. Quella metanoia che sovente è mancata o manca, anche in chi si riempie la bocca di apparente fermezza dottrinale o liturgica. Un Papa che sapesse mettere insieme l’amore e la tutela della Tradizione con la Dottrina Sociale Cattolica, che non è ingessata sulla conservazione di forme sociali di qualsiasi tipologia, sarebbe nella Chiesa di quest’epoca – quando oltretutto si approssima la quarta rivoluzione industriale con la sua forza cibernetica distruttrice dei legami sociali e umani – una benedizione del Cielo. A dispetto di conservatori e progressisti che della fede sanno prendere rispettivamente – potremmo dire quasi ereticamente laddove eresia semanticamente significa “scelta della parte come tutto” – soltanto o i “principi non negoziabili” o la “giustizia per i poveri”. Non sappiamo se Papa Prevost sarà questo tipo di Papa ma sperarlo, al momento, non è illecito. Anzi dovrebbe essere motivo di preghiera.
Leone XIII
Il nuovo Pontefice è un agostiniano ma ha scelto per nome quello del Papa che, con l’enciclica “Aeterni Patris” (1879) ha ripristinato la scolastica tomista in tempi moderni, come teologia ufficiale della Chiesa. Potrebbe sembrare una contraddizione solo se si trascura il fatto che Agostino, insieme a Dionigi Pseudo-areopagita, sta alla base di Tommaso d’Aquino. Papa Gioacchino Pecci, Leone XIII, infatti, non ha mai ridotto la Sapienza cristiana, che è anche il titolo di una delle sue più importanti encicliche, al solo tomismo tanto è vero che, celebrando l’anniversario del santo francescano, egli definì san Bonaventura, massima espressione del platonismo cristiano, e l’Aquinate, massima espressione dell’aristotelismo cristiano, “due lumi nella Chiesa”. In questo senso Papa Pecci si dimostrò molto più medioevale e “tradizionalista” di tanti tradizionalisti odierni. Infatti nell’età di mezzo, prima della ingessatura, pur storicamente necessaria e comprensibile nelle sue circostanze storiche, della Riforma Tridentina, la Chiesa conosceva e ammetteva una vasta pluralità di orientamenti spirituali e teologici senza che l’uno fosse preferibile agli altri. È noto che la “Nouvelle Théologie”, base del Vaticano II, aveva per obiettivo il ritorno alla patristica, riscoperta a partire dal XIX secolo, e alla situazione della pluralità medioevale, contro una neoscolastica a tal punto irrigiditasi da aver tradito nella sostanza lo stesso pensiero dell’Aquinate. Se questa era però l’intenzione non tutto è andato per il verso giusto come hanno dimostrato gli esiti dell’ultimo Concilio. Le cause di questa distorsione sono molte e su di esse non possiamo soffermarci qui adeguatamente.
L’attenzione mediatica circa la scelta del nome del nuovo Pontefice è subito andata tutta, banalmente, al ricordo dell’enciclica più famosa di Leone XIII, la “Rerum Novarum” (1891), reputata come la prima enciclica sociale della Chiesa. In realtà la Dottrina Sociale cattolica non è stata inventata da Papa Pecci ma da Cristo in Persona. Papa Pecci, ultimo Pontefice del XIX secolo e primo del XX, non ha fatto altro che tradurne i principi nella realtà del suo tempo che era quella della seconda rivoluzione industriale, prendendo le distanze dalle sterili posizioni nostalgiche dei tradizionalisti dell’epoca ma nella ferma continuità della Tradizione. Il futuro Leone XIII era stato presule in Belgio e aveva visto le trasformazioni tecniche e sociali in atto mentre i cattolici del tempo avversavano, non senza ampie ragioni morali, la modernizzazione ma non distinguendola dalla modernità intesa come visione ateistica del mondo.
In Italia, ad esempio, all’indomani del processo unitario, che aveva travolto anche il potere temporale del Papa, i cattolici si erano organizzati nell’Opera dei Congressi opponendo alle nuove forme di organizzazione industriale della produzione la nostalgia per le antiche gilde e arti medioevali, oltretutto romanticamente immaginate come forme aggregative prive di conflitto sociale. Tuttavia le intelligenze più avvedute tra i cattolici di fine ottocento si erano rese conto che tale nostalgia da un lato rappresentava una utopia conservatrice e dall’altro era politicamente improponibile, sicché si erano messe a studiare quali forme avrebbe potuto e dovuto assumere un nuovo organicismo, un nuovo tipo di corporativismo, su cui ricostruire la Dottrina Sociale per proporre riforme e soluzioni politiche adeguate ai tempi e in sintonia con la Tradizione.
Leone XIII fu il Papa che seppe interpretare questo sforzo ma – a differenza di come oggi invece viene presentato – senza fare una apologia acritica dei tempi nuovi. Infatti la sua nota enciclica sociale si apre con una premessa fortemente critica verso la modernità. Bisogna citare non solo le prime due parole, che danno titolo all’enciclica, ma anche la terza per capire le intenzioni di partenza di Papa Pecci. L’enciclica infatti si avvia parlando della “cupiditas” delle cose nuove, delle “rerum novarum”, senza mancare poi di ribadire la condanna dell’“usura divoratrice” tante volte bollata dalla Chiesa nel corso dei secoli.
«L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto»: questo è l’incipit dell’enciclica leonina ed è evidente che il presupposto è una condanna degli esiti della modernizzazione i quali vengono ricondotti ad un peggioramento antropologico indotto dall’“ardente brama di novità”, che potremmo altrimenti tradurre con “volontà di potenza”, faustismo. Certo, c’è anche l’eco di una visione troppo idilliaca del “buon tempo antico”, ma senza dubbio vi è una acuta analisi di tipo spirituale.
Leone XIII, fedelissimo alla Tradizione, non assunse dunque un approccio nostalgico. Nella sua enciclica, con grande apertura a soluzioni moderne confliggenti sia con il liberalismo del tempo (non senza aver rigettato il socialismo) sia con il vecchio conservatorismo politico alla Edmund Burke o alla Joseph De Maistre, chiedeva, ben consapevole del ruolo che esso era chiamato a svolgere nella nuova realtà, l’intervento dello Stato, il riconoscimento della dignità del lavoro che non è merce sicché il salario non può essere soggetto alla legge della domanda e dell’offerta in patti individuali tra imprenditore e singolo lavoratore, e in particolare, contro il dissolvimento individualista introdotto dall’illuminismo, invocava la riorganizzazione delle nazioni attraverso le nuove forme di associazione che la stessa industrializzazione aveva prodotto.
Qui, nell’intuizione della valorizzazione delle nuove forme associative, vengono in evidenza, congiuntamente, tutta la continuità tradizionale e tutta la modernità di Papa Pecci. Egli non si limitò a ribadire, nostalgicamente, le forme miste di associazione tra “padrone e operaio”, come le antiche gilde, ma benedisse anche le forme associative moderne di “soli operai”. In sostanza Papa Pecci riconosceva nel sindacalismo moderno il nucleo di un nuovo corporativismo cattolico, libero benché organizzato e coordinato dallo Stato, quale via per la risoluzione del conflitto sociale mediante la partecipazione condivisa del lavoro nel capitale e la giusta redistribuzione della ricchezza, esito della produzione, tra tutti coloro che contribuiscono a crearla, dai vertici dirigenziali fino all’ultimo operaio. Una soluzione non gradita, per complementari motivi, sia ai liberali sia ai socialisti, in quanto per gli uni come per gli altri il motore della storia e dello sviluppo deve essere per forza il conflitto.
Leone XIII non abbracciava sic et simpliciter la modernità, e neanche la modernizzazione, ma proponeva quale doveva essere il fondamento, innanzitutto spirituale, per una ricostruzione organica delle società, che già furono cristiane, contro individualismo e contrattualismo illuministici e secondo principi tradizionali ma ben calati, senza nostalgie, nella realtà industriale. Dietro questa modernità sintonizzata con la Tradizione, di Papa Pecci, c’era la lezione di Giuseppe Toniolo, uno dei rari accademici cattolici dell’Italia postunitaria, beatificato da Benedetto XVI, e della sua Unione cattolica per gli studi sociali. Toniolo, storico dell’economia – egli in particolare avversava la libera circolazione dei capitali, convinto com’era che la finanza deve rimanere strumentale all’economia reale e non diventare mezzo di arricchimento a tutto vantaggio dei pochi percettori di rendita avulsa dal lavoro e dalla produzione – fu il modernizzatore della Dottrina Sociale Cattolica in relazione ai suoi tempi e propugnatore di quelle soluzioni organiciste neo-corporativiste secondo quell’approccio moderno poi consacrato dall’enciclica leonina.
Ridurre tuttavia il ruolo magisteriale di Leone XIII soltanto alla “Rerum Novarum”, come si suol fare, è svalorizzare l’importanza che egli ha avuto nella Chiesa degli ultimi due secoli. Non è comprensibile la sua stessa enciclica sociale se avulsa dall’intero “corpo magisteriale” che egli ha lasciato e alla luce del quale va valutata l’intera sua opera apostolica. «… la rinascita cattolica – scrive Augusto Del Noce – deve essere, secondo il pensiero di Leone XIII, inscindibilmente religiosa, filosofica e politica; “politica” perché richiesta come necessaria per la salvezza temporale della società umana; ma questa politica deve appoggiarsi su una filosofia che sia a sua volta preambolo della fede. Si intende questa unità quando nelle encicliche di Leone XIII si vedano insieme un programma e un punto d’arrivo; il punto d’arrivo di un lungo e tortuoso processo, quello del pensamento cattolico dell’epoca storica che aveva preso inizio dalla Rivoluzione francese. Il Gilson osserva pure che se si leggono le principali encicliche di Leone XIII nell’ordine logico e non cronologico … ci si accorge che ci si trova davanti a quel che si potrebbe chiamare il “Corpus Leoninum” della filosofia cristiana del XIX secolo e che si è indotti a riconoscere che “Leone XIII prende posto nella storia della filosofia come il più grande filosofo cristiano del secolo XIX e uno dei più grandi di tutti i tempi”. (…) è [però] mancata l’attenzione al carattere organico, per un’attitudine analitica nei riguardi delle varie parti, considerate come distinte e sostanzialmente autonome. Così, i … cattolici … [hanno letto] la “Rerum Novarum” come se fosse isolabile dall’insieme del “Corpus Leoninum”» (1).
Con ciò, il filosofo torinese ha messo in evidenza che il magistero di Leone XIII va preso integralmente nel suo insieme dato che egli è stato sì il Papa che ha aperto ai tempi nuovi ma in continuità con la Tradizione, come dimostrano le altre sue encicliche nelle quali affrontò il tema della libertà che non può essere avulsa dal primato della Verità e quindi della democrazia che non può cedere, per usare un linguaggio più prossimo a noi, al relativismo, al nichilismo e alla tecnocrazia scientista, pena la sua fine, e con tali premesse ribadì fermamente la condanna del liberalismo come falsificazione della libertà (“Libertas”), dell’Americanismo inteso come pragmatismo e attivismo mondano (“Longinqua oceani”), della massoneria (“Inimica vis”) come del comunismo (“Quod Apostolici Muneris”). In sostanza Leone XIII non può essere letto senza tener conto dei dogmi fondamentali della fede cattolica, ad iniziare da quello del peccato originale e, pur nel riconoscimento della sua bontà creaturale, della imperfezione e debolezza dell’uomo, che negano alla radice ogni orgogliosa affermazione – essenza della modernità – di autocostruzione del sé umano e sociale senza Dio.
Un evento mistico
C’è un avvenimento nella vita di Leone XIII che, in questi giorni sull’onda dell’entusiasmo per Leone XIV presunto continuatore della linea di Francesco I, pochi hanno ricordato e che invece, nella prospettiva di fede, è determinante per capire il XX secolo, il quale si aprì alla sua morte – egli tornò alla casa del Padre nel 1903 –, ma anche per capire la nostra epoca, quella del passaggio, forse ancora più equivoco e ambiguo, dalla modernità solida alla post-modernità liquida, per certuni addirittura gassosa. Un avvenimento mistico e profetico.
Un giorno del 1886, mentre assisteva a una Santa Messa, Leone XIII, come testimoniarono gli astanti a lui vicini, d’improvviso drizzò lo sguardo a fissare intensamente qualcosa che con tutta evidenza egli solo vedeva in una direzione sovrastante il capo del sacerdote celebrante. Il suo sguardo era terrorizzato. La visione, qualunque cosa fosse, gli incuteva orrore. Riavutosi, il grande Pontefice si alzò bruscamente e allontanando tutti i presenti, preoccupati dal suo evidente turbamento, si chiuse nello studio e ne uscì dopo mezz’ora con un foglio, che ordinò fosse copiato e diramato a tutti i vescovi. Quel foglio conteneva il testo della preghiera a Michele Arcangelo “defende nos in proelio” (2). Più tardi Leone XIII confidò al cardinale G. B. Nasalli Rocca, che ne ha lasciato testimonianza, d’aver visto, nella visione di quel giorno, gli spiriti infernali che si addensavano in Roma per cercare di abbattere “ciò che trattiene” l’aperta irruzione nella storia del “mysterium iniquitatis”. Secondo un’altra testimonianza, nella visione in questione, Leone XIII assistette ad un dialogo tra Cristo e Satana durante il quale quest’ultimo sfidava Nostro Signore a concedergli il tempo di un secolo, inteso in senso ampio e largo ossia non cent’anni calcolati al minuto, per distruggere la Chiesa. Cristo, per provare la Chiesa e separare il grano dal loglio, acconsentiva alla sfida lasciando mano libera all’antico Avversario ma ammonendolo che non sarebbe riuscito nel suo intento qualsiasi tentativo avrebbe messo in opera.
La storia della Chiesa e quella del mondo nel corso del XX secolo, come anche in relazione a questo primo quarto del XXI secolo, lette alla luce di tale visione profetica assumono contorni ben precisi che inducono a riflettere sul significato “apocalittico” dei nostri tempi. Non stiamo parlando affatto – sia ben chiaro! – di fine del mondo e non stiamo affatto prospettando millenaristiche instaurazioni del Regno di Dio in terra. Ci riferiamo esclusivamente a una manifestazione particolare, legata ai nostri tempi, dell’eterno dramma storico dell’umanità posta costantemente al bivio tra Bene e male, che poi è l’essenza del Libro della Rivelazione. Del resto, anche senza ricorrere all’ultimo libro della Bibbia, la progressiva sconfitta temporale della Chiesa e la scomparsa quasi totale della fede tra gli uomini è il segno che nei Vangeli Cristo stesso indica ai suoi quale futuro escatologico.
Altri Leone
Un altro Papa Leone, il primo della serie, detto Magno, visse in un’epoca travagliata e ambigua, per certi versi simile alla nostra. Crollava l’impero romano sotto la pressione delle invasioni barbariche, la civiltà retrocedeva, le città si spopolavano mentre la gente si rifugiava nelle campagne ponendo le prime basi del feudalesimo, la cultura sembrava scomparire e molte opere oggi ci sono infatti ignote perché andate perdute negli incendi e nei saccheggi, la Chiesa stessa era tormentata da dissidi interni e divisa in fazioni in lotta tra loro, le eresie – dal pelagianesimo al manicheismo (tale era all’epoca considerato ma oggi sappiamo che era un’altra religione di matrice gnostica) dal monofisismo all’arianesimo fino al priscillianesimo – la scuotevano da ogni parte, Roma stessa era stata saccheggiata più volte dai goti di Alarico e dai vandali di Genserico. Tutto lasciava pensare alla “fine del mondo”. Invece in un tale scenario drammatico Leone I Magno, nel vacillare del potere politico imperiale, emerse quale figura di ampia credibilità morale, cui guardarono i popoli della parte occidentale dell’impero, tanto che l’imperatore lo inviò ambasciatore a incontrare Attila in marcia verso Roma. E Leone un po’ per il suo carisma e un po’ con le offerte di denaro imperiale convinse il capo degli unni a tornare sui suoi passi. In figure epocali come Leone Magno e, poco più tardi, Benedetto da Norcia già si annunciavano tempi nuovi, i tempi della futura Cristianità medioevale. Il dramma della fine del mondo antico non era affatto la “fine del mondo”.
Era un Leone anche il Papa sotto il quale esplose la rivoluzione luterana che avrebbe frantumato definitivamente la Cristianità occidentale. Nient’affatto santo né magno come il suo predecessore tardo-imperiale, Leone X, figlio di Lorenzo de’ Medici, non comprese affatto quanto stava accadendo scambiando la questione tedesca per una “bega tra monaci” fino a quando, troppo tardi, intervenne con la bolla “Exsurge Domine”. Lutero era un agostiniano ma a differenza di Agostino, che fu un grande confutatore degli “spiritualisti” della sua epoca, egli si lasciò influenzare dall’ermetismo gnostico, riemerso sull’onda dell’umanesimo rinascimentale, e sconfinò nell’eterodossia giungendo a negare, appunto per l’influsso dell’odio verso la carne che caratterizza le posizioni gnostiche, la reale presenza corporea di Cristo nell’Eucarestia come anche la corporeità della Chiesa ridotta ad invisibile e intimistica interiorità soggettiva. Nonostante l’inadeguatezza di Giovanni di Lorenzo de’ Medici, resta significativo il fatto che la rivoluzione religiosa, inauguratrice della modernità, sia avvenuta sotto un Papa Leone. Quasi a voler indicare, in questo nome, un katéchon da abbattere. “Leone della Tribù di Giuda” è tradizionalmente espressione usata per indicare la tribù regale di provenienza del re David dalla cui discendenza, secondo l’Antico Testamento, si sarebbe manifestato il Messia e alla quale appartenevano Maria Vergine e Giuseppe. Lo stesso appellativo è, poi, usato dall’Apocalisse per il Messia della Seconda Venuta. Su un piano più letterario, il nome pontificale scelto dal nuovo Papa ci richiama l’Aslan delle “Cronache di Narnia”, il romanzo religioso a sfondo escatologico di C. S. Lewis, che è figura di Cristo ed è un leone.
Un Papa mariano
Tuttavia il cardinale Robert Francis Prevost ha dichiarato che la scelta del nome è stata da lui fatta con riferimento a Leone XIII e non ad altri papi che portarono tale nome. Dobbiamo, quindi, stare a tale dichiarazione e questo, pertanto, ci riporta a Papa Pecci e al suo magistero. Ma anche all’episodio mistico che segnò il suo pontificato. E qui va fatta un’ulteriore considerazione. Se san Michele Arcangelo, per la Tradizione, è colui che superò la prova opponendo il suo “Quis ut Deus”, “Chi è come Dio” – espressione latina corrispondente all’ebraico Micha’el – al “Non serviam” del primo degli Arcangeli, il più vicino a Dio, Lucifero tentato dall’orgoglio, d’altro canto è a una donna, la “Donna vestita di sole”, che è stata assegnata la missione di schiacciare la testa ofidica e di proteggere i cristiani nel corso dei secoli. Papa Pecci fu un papa molto mariano che ha propagandato senza posa la preghiera del Santo Rosario. Robert Francis Prevost è stato eletto nel giorno della memoria della Madonna del Rosario di Pompei allorché nella Chiesa si recita la famosa supplica alla Vergine scritta, come risposta all’enciclica “Supremi Apostolatus Officio” (1883) di Papa Pecci, dal beato Bartolo Longo, la cui canonizzazione è già stata decisa e sarà effettuata quest’anno, grande amico di Leone XIII il quale di buon grado si prestò all’incoronazione dell’icona fatta forgiare dal beato.
Il nuovo Papa ha significativamente chiuso il suo discorso di presentazione Urbi et Orbi, dal balcone di San Pietro, con l’invocazione dell’intercessione della Santa Vergine per la Pace e con la recita dell’Ave Maria. Dicono che egli abbia una devozione molto filiale verso la Madonna e, altro elemento da valutare, che celebrasse, da cardinale, la Messa in rito antico benché in forma privata su speciale indulto chiesto con convinzione e ottenuto.
Alla luce di questo nostro ampio excursus riteniamo che, in attesa di ulteriori conferme, se arriveranno, come ci si augura, forse Papa Leone XIV sarà chiamato a svolgere un ruolo cruciale nella Chiesa attuale. Siamo al momento solo al livello di ipotesi che speriamo siano trasformate in realtà. Tuttavia, nell’attesa e nella preghiera, è lecito sperare che il Signore abbia finalmente deciso che il tempo concesso al suo Avversario debba aver termine e di riprendersi il timone dell’Arca di Salvezza inviando un Papa che, anche se di compromesso, possa almeno placare un poco i marosi della tempesta da ultimo addensatisi, foschi e carichi di violenza e forieri di guerre, su di Essa per travolgerla. E con essa il mondo.
Luigi Copertino
NOTE
- Cfr. Augusto del Noce “Il suicidio della rivoluzione”, Rusconi, Milano, 1978, pp. 258-259.
- Questo il testo della preghiera: “San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia. Sii tu il nostro sostegno contro le perfidie e le inside del demonio. Dio eserciti il suo dominio su di lui, supplici ti preghiamo! E tu, Principe della Milizia Celeste, con la potenza divina ricaccia nell’inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano nel mondo per la rovina delle anime. Amen”. La preghiera di Leone XIII da quel giorno fu recitata alla fine di ogni Messa, entrando a pieno titolo nel canone, per essere poi travolta dalla riforma liturgica di Annibale Bugnini. Il quale, a quanto pare, riuscì a far passare le sue idee, cripto protestanti in materia liturgica, ingannando contemporaneamente sia Paolo VI che gli altri membri della Commissione preposta alla riforma. Al primo, perplesso, egli raccontava che le proposte riformatrici erano state avvallate unanimemente dalla Commissione e ai membri di questa, altrettanto perplessi, raccontava che le proposte avevano il gradimento del Papa. Sarebbe stato più tardi scoperto, rimosso e inviato quale nunzio a Teheran. Tuttavia Papa Montini non pensò di modificare in senso più tradizionale la nuova liturgia, salvo che per la formula della consacrazione eucaristica, introdotta da Bugnini, dopo che i cardinali Oddi e Ottaviani gli fecero notare che si trattava di una formula presa alla lettera dalla “cena protestante” e tale da invalidare la transustanziazione.