LAVORARE STANCA. E ALLORA…..LASCIATEMI DIVERTIRE

Di  Roberto Pecchioli

 

Il tempo pasquale, quaresima, dovrebbe essere un periodo di riflessione, di pacato, perfino severo sguardo su se stessi e la realtà circostante con maggiore distacco rispetto ad altre stagioni , più pervase dal presente e dalle mille luci ingannatrici  del mondo della vita. Dopo la Quaresima, viene la Pasqua detta di Resurrezione, perché il predicatore nazzareno il terzo giorno ha scoperchiato la tomba, bello sarebbe che ci credessero almeno i preti, e noi ritroviamo la gioia, in quanto salvati. Nel mio piccolissimo, tra non molto , con il pensionamento chiuderò una quaresima, quella di una professione svolta con dignità e scrupolo, ma senza passione , con un magone interiore durato più di quarant’anni. Sono fatti tuoi, dirà il lettore, ed è vero, ma nel mio privatissimo venerdì santo, ho sognato , e mi piace raccontare.

Ho iniziato a lavorare presto, dopo la maturità classica, un po’ per paura del futuro, e perché mio padre lavorava di notte dal 1946  in un giornale, dopo anni di guerra e dopo aver iniziato a fare il tipografo a meno di undici anni.

Volevo che si riposasse: lavorare stanca, come sapeva Cesare Pavese in quel suo ondeggiare tra città e campagna, giovinezza e maturità. Una sua breve strofa mi colpì come un presagio, nelle frettolose letture di liceo : “I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo/ un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi/ nella gente che va per la strada… La città ci permette di alzare la testa/ a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo”. E’ davvero così.  Fui per un anno e mezzo metalmeccanico , e nel lungo viaggio da casa alla lontana Pontedecimo leggevo i testi prescritti dai docenti di filosofia dell’università, Congetture e Confutazioni di Karl Popper ed i grandiosi Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel. Alla sera, cambiavo libri, ed era la storia del diritto romano, Ulpiano, Paolo , le Dodici Tavole e Gaio, il primo giurista che comprese la necessità di predisporre difese a favore di tutti nei confronti dell’argentarius , il banchiere dell’epoca.

E poiché lavorare ha stancato anche me, funzionario delle dogane da quarant’anni, lasciatemi divertire, come l’Aldo Palazzetti del 1910! “Cosa sono queste indecenze? Queste strofe bisbetiche? Licenze, licenze, licenze poetiche” . Ho sognato, dicevo , una vera fantasticheria notturna e sono tornato a quel tempo duro ma formativo, la mia piccola bildung   di ragazzo diverso dai più per idee, comportamenti, speranze, valori. Sognando , mi agitavo, e sentivo dentro di me risuonare una parola, pronunciata da qualcuno a voce sempre più alta, decadenza, decadenza….

Sulle prime, ho pensato alla miadi decadenza, sessantuno anni sono diversi dalla prima giovinezza, poi ho capito che era il tacitiano giudizio dell’anima rispetto alle immagini oniriche , ma ben realistiche che scorrevano come su uno schermo diviso in due parti.  Genova era allora una grande città industriale e commerciale, il cui declino era iniziato da un decennio, ma che ancora reggeva. Ottocentomila abitanti, duecentomila in meno oggi,  decine di grandi industrie pubbliche, centinaia di piccole e medie imprese produttive, un porto che  dava lavoro ad almeno trentamila persone di tutte le professionalità, dagli scaricatori ai grandi avvocati specialisti di diritto marittimo.

La sua Università aveva eccellenze straordinarie nell’ingegneria navale , nell’economia, ma anche nelle lettere e nella filosofia, con docenti di livello internazionale. Avevamo la sede di grandi compagnie di navigazione e le direzioni europee delle massime compagnie petrolifere. Si stampavano quattro quotidiani, oltre al piccolo, ma influentissimo Avvisatore Marittimo. Il cardinale Siri era un principe della Chiesa mondiale, e l’armatore Costa dirigeva Confindustria da decenni.

Chivoleva lavorare, in poche settimane trovava un’occupazione, che, almeno nelle prospettive, era a tempo indeterminato.  Sull’altro lato dello schermo del mio inconscio dispettoso, scorrevano le immagini di oggi. MI sono svegliato di soprassalto, sudato, e la prima riflessione, dopo aver realizzato che era stato un sogno, fu: “Che meraviglia, eravamo tutti italiani !”. Con tanti problemi, e, diciamolo, tanto odio reciproco, per troppe ferite ancora aperte, ed anche, perché non riconoscerlo, tante ingiustizie patite da una classe operaia ultracomunista sì, ma formata da gente seria, laboriosa e capace .

Questa mia città, come tutte le altre, è oggi una Babilonia divisa per gruppi etnici, arabi e centrafricani nel vecchio centro storico, i mitici caruggi, sudamericani a Sampierdarena, il quartiere della mia famiglia, ed in Val Polcevera, zingari a Bolzaneto, da poco cinesi dappertutto , e , ultimamente, un mare di ragazzotti neri con cuffie e cellulare che chiedono l’elemosina davanti ad ogni supermercato, evidentemente sono quelli tratti in Italia dalla nostra Marina di bagnini di salvamento , tanto amati dal Papa antiitaliano.  Eravamo tutti italiani, la frase mi martella, o mi batte in testa. Non credo di essere superiore agli stranieri per aspetto, civiltà o colore, ma ci stavo proprio bene senza di loro.

Poi, da quegli anni settanta, abbiamo cominciato a non fare figli, e Genova è sempre stata in testa alle tristi statistiche della denatalità . Noi, tutti a studiare , perché “mio figlio non deve soffrire come me”, dicevano in coro i genitori che avevano conosciuto la guerra, e ci parlavano in italiano, perché il dialetto è dei poveri e degl’ignoranti . Mia nonna, meravigliata, si chiedeva, rigorosamente in genovese, l’italiano lo leggeva soltanto sul Secolo XIX: Ma se tutti studiate, chi andrà a lavorare ? Forse nonna Luigia era un’inconsapevole esperta di economia , di cicli demografici e di sociologia del lavoro….

Nel sogno, sono salito sul bus, come ogni giorno, con i miei libri, e tutti pagavano il biglietto , salivano e scendevano dalla porta giusta. Oggi è confusione, anzi casino, una parola che non avrei osato dire in casa , davanti a mia madre . Quanto alle parole, anzi alle parolacce, nessun commento sul presente , limitiamoci a constatare l’impressionante povertà lessicale del linguaggio corrente, mutuato dagli SMS , da Twitter – centoquaranta caratteri, comprese le spaziature ! – e le frasi smozzicate, elementari, intercalate dal turpiloquio declinato nelle ricche varianti locali . Ecco, forse nella parolaccia abbiamo progredito, anzi “siamo cresciuti”, come si usa dire nel repertorio dei luoghi comuni di pronto uso.

Ripreso sonno, tutto continua, e mi trovo in una delle vie più malfamate della città di allora: un paio di spacciatori, cautissimi, vendono la loro sporca droga a giovani di due tipi: i figli della buona borghesia e gli autoemarginati che hanno creduto nelle favole del 68. Una bella ragazza della mia classe, di ottima famiglia, cadde nella rete: fu uno choc generale, allora. Lo schermo, implacabile, rimanda le immagini di oggi, una strada qualunque, una piazza con i giardini, tra bimbi che giocano. Si compravende di tutto, e non ci sembra più strano o incredibile che il vicino di casa tiri cocaina. Canne e spinelli, è antiquato chi non fuma sin dalla pubertà. Altro brusco risveglio, altro sudore, e sempre quella parola che risuona, ritmata come nella Marcia di Radetzky ( bei tempi, quelli del maresciallo !) : decadenza, decadenza.

Scaccio i brutti pensieri, mi concentro su mia madre, che si ammalò in quegli anni , soffrì e fece soffrire . Il sogno, crudele, mi porta all’ospedale, dove un po’ tutti abbiamo vissuto il vero male del mondo. C’erano corsie lunghe e tristi, oggi le camere sono più belle e , al massimo , per quattro pazienti. In compenso, trovarsi adesso in un Pronto Soccorso è un’esperienza dantesca ed io, donatore di sangue, ho visto troppe volte  a pochi metri le file di donne e ragazze in coda per abortire.  Qualcuna esce piangendo, altre sofferenti, qualcuna sembra soltanto essersi liberata di un peso. Emma Boninopraticava aborti clandestini con pompe di biciletta, oggi è tutto asettico e scientifico. In casa mia, gente semplice, magari ignorante, ma di saldi principi, aborto era vietato anche come pensiero.  Che passi avanti, nella società dell’omicidio !

Stavolta, al terzo risveglio, non ho ascoltato più la solita cantilena della decadenza, ho visto la bandiera nera dei pirati con teschio e tibie, e una voce da strega, forse la stessa Bonino, che rideva e parlava di morte.

Basta, non ho più preso sonno, come quando ci si sveglia un po’ prima del solito e si lotta per non riaddormentarsi.  Peggio che mai. Lavorare stanca, e, già nervoso al pensiero di una lunga giornata in ufficio, ho rivisto il solito schermo. Problemi da ambo i lati, ruffianeria e cinismo in primo piano, ma nella visione “vintage” si guadagnava di più e si avevano più diritti, nel settore contemporaneo, si fa carriera solo per appartenenza politica o sindacale, ed il conformismo è di massa. Come diciamo noi vecchi, “ai miei tempi “, non erano certo rose e fiori, ma qualche spiraglio c’era, e comunque nessuno era pagato con i voucher, aveva contratti precari, orari spezzati in tre in altrettante parti della giornata, e non c’erano, per strada, le vetrine falsamente scintillanti delle agenzie di lavoro interinale.

A questo punto, l’ inconscio ha manifestato la malvagità dell’animo mio! Stavolta era il me stesso di allora a ridere, ed a ripetere, con il dito alzato, ve lo siete meritato ! Sono più di quarant’anni che menate il torrone con la democrazia, il progresso, la laicità, la liberazione da qualsiasi cosa o vincolo ( i meno giovani ricordano la liturgica affermazione laico, democratico ed antifascista) adesso potete divorziare in un baleno, abortire e far abortire le vostre figlie, e se siete il padre del piccino non potete opporvi, vi hanno perfino fatto credere che sposarsi tra uomini sia sano e bello, se avete bisogno di soldi e siete donne, si può affittare l’utero a qualche invertito, preferibilmente schierato a sinistra , potete drogarvi e bere a volontà, avete a disposizione , purché motorizzati , certi non luoghi chiamati centri commerciali , dove potete comprare, comprare, consumare, consumare.

Qui casca l’asino, perché non avete abbastanza soldi, precari come siete, sottopagati, e dovete lavorare in due , voi e la vostra compagna – (sposarsi non usa più, costa, impone doveri, e poi , se va male, come è assai probabile, altri guai ) per avere quel che consentiva ad una famiglia monoreddito per vivere, fino all’ingresso nel lavoro della mia generazione .

Giorgio Gaber cantava “La mia generazione ha perso”. Anche la mia, ma almeno abbiamo combattuto, e qualche ferita l’abbiamo inferta. Oggi, non credete più in niente che non abbia l’etichetta con il prezzo , perché avete creduto davvero, o stolti, alla favola del tutto e subito, anzi “in tempo reale”. Siete indebitati con la banca ed anche con la vostra vita !

Adesso, è al comando la generazione dei laureatini a punti all’ateneo di Roncobilaccio in Scienza delle Patate Fritte. In maggioranza , una banda di ignoranti cinici , lamentosi e carrieristi, presuntuosi ed insieme paurosi. Nebbia persistente in Val Padana, ed anche altrove. Ogni tempo ha il diritto di essere com’è, e magari le mie sono semplici lamentazioni di chi esce di scena. Ma forse no, e torna la solfa della decadenza.

Non è decadenza non ribellarsi a soprusi, menzogne, tagliole che rendono semplicissima la vita di raccomandati e figli di qualcuno , ed impossibile quella di tutti gli altri ? Ed è decadenza spoliticizzarsi, non credere più in nulla, ed andare avanti alla giornata, senza neppure sospettare che chi comanda ci vuole così, esecutori precisi dei comandi del computer  da loro programmato, lavoro, centro commerciale, sballo del fine settimana, e poi vacanza come unico sprazzo di vita. Vacanza vuol dire mancanza, assenza, ma non lo sappiamo più, meglio un viaggio a (finto) basso costo , sesso, spiaggia, sballo, tutto veloce, tutto compreso.

Nicolàs Gòmez Dàvila , tra i mille aforismi, ne ha scritto due che non posso dimenticare: uno ricorda che le cattedrali non furono costruite per l’ente del turismo, e nell’altroafferma che non c’è nulla di più deprimente che appartenere ad una moltitudine nello spazio, e nulla di più bello di appartenere ad una moltitudine nel tempo.  Ecco, un’altra decadenza: ci importa solo dell’oggi, uniforme , vissuto a perdifiato in un presente seriale di puntini buttati giù a caso. Il tempo non esiste , il passato non c’è più, il presente lo trituriamo nell’attimo fuggente che inghiotte il futuro.

Non so regge di più il paragone con il quadro di Géricault “La zattera della medusa”, dove i naufraghi di una nave che cola a picco si accapigliano tra loro nel tentativo, vano, di sopravvivere nel buio, o se è più vicino al presente La torre di Babele di Bruegel, incompiuta e terrorizzante. Non è un caso che il palazzo delle istituzioni europee di Bruxelles abbia la stessa forma ellittica ed il medesimo vertice incompiuto del capolavoro fiammingo.   Nel mio sogno, ho intravisto La ragazza dall’orecchino di perla, il fortunatissimo dipinto di Vermeer in cui una giovane sembra volgersi verso di noi dal passato, e interrogarci, o raccontare silenziosamente una storia problematica, di cui l’orecchino è forse solo un simbolo negativo, la consapevolezza di un disvalore, il prezzo di qualcosa, o chissà che altro . Sempre Vermeer – i fiamminghi non erano ancora belgi e a Molenbeek non c’erano moschee salafite pagate dai petrodollari sauditi – ci ha lasciato una straordinaria “Veduta di Delft”, la sua città, bella , ordinata, con gli abitanti contenti della  quotidianità , ed il canale è calmo, il cielo sembra sereno, ma i coloritraslucidi fanno presagire una nuova perturbazione , la nuvolaglia gonfia di un temporale sta arrivando e crea le  prime ombre sul canale. Forse, la mia generazione perdente non ha visto, o voluto vedere, le nuvole e non ha osservato i movimenti dell’acqua nel canale .

Abolita la vecchia autorità, gettate nel cestino le credenze di sempre, ridicolizzate le tradizioni e negata la Tradizione, che cosa resta ? Cattedrali buone per frettolosi scatti dello smartphone, fast food dove si consuma di corsa pessima carne avvolta in pessimo pane, e via correre da un’altra parte a consumare un altro pezzetto di vita in stanchi rituali di massa, in compagnia di qualcuno che domani sostituiremo o che ci rimpiazzerà con un’altra risorsa umana . Stranieri, decaduti, zattera senza remi e senza copertura, tutti contro tutti, è Géricault quello che ha capito tutto.

Come tanti sogni, il mio è sempre più confuso e febbrile, e nel dormiveglia arrivo a sentirmi un Ivan Karamazov nel delirio del racconto immortale del Grande Inquisitore. Sono solo Roberto, e tutt’al più avrei potuto ascoltare stupefatto come fa suo fratello Aliosha.  E’ il periodo pasquale, e la figura di Gesù, comunque la si pensi, ha un fascino potente. Non ne ha più alcuno la sua chiesa, che ha perduto, anzi ha gettato via il sacro ed il mistero, ha banalizzato i suoi riti, mitigato o capovolto le sue dottrine. Semplice confraternita di misericordia, dedita alla lavanda dei piedi immigrati , all’investimento lucroso dell’ otto per mille, all’autodistruzione , quando non, drammaticamente, a ripugnanti condotte personali.

Povero Gesù, se sei risorto, devi aver sbagliato i tuoi conti; il sogno precipita ancora in un limbo, mi trovo  tra una folla composita e multietnica, e c’è un tizio sulla trentina, in alto, con una tunica e la barba e ferite alle mani ed ai piedi scalzi, mi sembra che sia proprio tu.

Tutti ti guardanoun attimo senza riconoscerti , sei un alieno, non dici nulla, del resto io non capirei l’aramaico, tu scuoti la testa e te ne vai, nell’indifferenza generale. Ora mi sveglio davvero,  quel disinteresse neppure ostentato,l’apatia con cui la folla solitaria ha lasciato andar via quell’uomo che io , fermamente, ho creduto essere Gesù , mi ha scosso davvero.

Ecco un’altra decadenza: una moltitudine  transumante senza una meta, che non fa neppure più il male, non consapevolmente, almeno. Semplicemente, va, e si sbriciola lentamente, come l’argilla . Forse, invece, sono io che non capisco più, sono l’apolide che attraversa un tempo ed uno spazio straniero.  Oppure, è la convinzione cui mi aggrappo, la decadenza è fatta così: identificata ai primi sintomi, può essere contrastata, magari sconfitta. In molti ancora la riconoscono, e possono cambiare condotta , principi, atteggiamenti di vita. Con lo scorrere del tempo, tutto sfuma , si dimentica , sopraggiunge l’abitudine al nuovo, l’uomo è , infine, l’essere che domina la natura per la sua capacità di adattamento , di mimetismo.  E’ capitato a tutti di entrare in un locale dove c’è cattivo odore; sulle prime soffriamo, ci turiamo il naso, poi ci adattiamo, e non avvertiamo più nulla. Chi non ci riesce soffre e soccombe.

Così è per l’evolianadegenerescenza che chiamiamo declino  o decadimento: non la sentiamo più, c’è persino chi la chiama progresso  , o la accoglie come libertà “da”. Il mio sogno è finito, magari è il semplice sussulto di chi, dopo oltre quarant’anni intensamente attivi, dall’adolescenza alle soglie della vecchiaia, non si riconosce più in ciò che vede, e chiama male quel che non capisce.

Del resto, lavorare stanca, e tutta una vita all’opposizione , decenni controcorrente sfiniscono, e per di più stufano.  Sempre come Ettore, contro i troppi Achille del mondo infame. Ma non posso non pensare che, da quando sono diventato adulto e…. lavoratore, quasi tutto sia  cambiato in peggio. Anzi, ne sono convinto ogni giorno di più, e la nostra èl’età del bronzo dell’ ”Uomo senza qualità”. Ricordate il torrenziale ed incompiuto romanzo di Musil, agli albori del secolo in cui siamo nati, ed il suo protagonista GuntherAnders, che tenta di dare un senso alla propria vita organizzando con anni di anticipo i festeggiamenti per i settant’anni di Regno di Francesco Giuseppe ? L’impero crollerà prima, e con lui la precaria esistenza di Gunther, prototipo di una modernità corrosa dall’interno, malata di scienza mal digerita e di nulla . “Sull’Atlantico incombeva un’area di bassa pressione; si muoveva verso oriente in direzione di quella di alta pressione che si trovava sulla Russia, senza manifestare ancora la tendenza a eluderla, spostarsi verso Nord”  E che ce ne importa ? Eppure questo è l’incipit del romanzo – saggio musiliano, quello l’universo sterilizzato dell’uomo senza qualità.

Adesso sono sveglio del tutto, e capisco che il mio sogno è un modesto bilancio, anch’esso senza qualità, di chi sa di aver combattuto mille battaglie , quasi tutte perdenti, ma che continua a ritenere quelle sconfitte altrettante medaglie . Consolasse co’ l’ajetto, dicono a Roma: chi mangia gli spaghetti, chi ingoia l’aglio…… Ma  lo sosteneva Che Guevara che non ci sono battaglie perdute. Ci sono quelle non combattute , e questo distingue gli uomini dagli ignavi e dagli schiavi contenti. C’è anche la consapevolezza che siamo vicini al fondo, e che dunque esiste qualche piccola possibilità di risalire. Shakespeare, nella magnifica opera La Tempesta con cui  concluse, neppure cinquantenne, la sua straordinaria carriera , ce lo dice con la forza visionaria degli artisti: “Un cielo così cupo non può schiarire senza una tempesta “.

E se non sarà così, permettetemi di sognare, consentitemi di vivere in una nuvola provvisoria, lasciatemi tristemente divertire come Aldo Palazzeschi, “il poeta si diverte,pazzamente,smisuratamente.  Non lo state a insolentire, lasciatelo divertire / poveretto,queste piccole corbellerie/sono il suo diletto”.

Il poeta si diverte,il sognatore si risveglia,prende la borsa e timbra il cartellino.

 

ROBERTO PECCHIOLI