La guerra sporca del presidente turco Erdogan in Siria, Iraq e Turchia

 Luciano Garofoli

Dal 24 luglio il governo turco di Recep Erdogan ha deciso di lanciare un’offensiva militare su vasta scala diretta a colpire il califfato islamico più noto come ISIS, ma nell’offensiva ha anche incluso attacchi massicci e forse preponderanti, contro i ribelli separatisti curdi: In pratica la tregua stabilita quattro anni fa sfociata in un cessate il fuoco tra Turchia ed il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).

I Turchi hanno mantenuto sempre una posizione piuttosto rigida a proposito della spinosa questione dei Curdi. Innanzitutto negano assolutamente l’esistenza storica di un Kurdistan e dicono che questa entità statale fantasma è assolutamente una menzogna.

Il popolo Curdo abita una vasta area che si estende tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e parte dell’Armenia: questa vasta area geografica, divisa tra questi vari stati è abitata da circa 40 milioni di curdi: quindi non una piccola ed irrilevante minoranza etnica, come invece sostiene il governo turco. Effettivamente sono la quarta etnia mediorientale dopo arabi, persiani e turchi.

Tutt’altro!

In sostanza sono uno dei più grandi gruppi etnici privi di un’entità statuale autonoma: parlano una serie di dialetti compresi da tutti, in cui si suddivide la lingua curda, la quale fa parte del ramo iranico delle lingue indoeuropee che loro chiamano Màda.

I Curdi moderni discendono dagli abitanti dell’antico Regno di Corduene, noti anche come Carduchi, a loro volta discendenti dagli antichi Medi, con apporti di Sciti e Galati, queste popolazioni di stirpe celtica.

Diamo un’occhiata ai vari stati che ”ospitano” i Curdi ( a dire il vero tutti molto malvolentieri): cominciamo con l’Iran.

Qui nel secondo dopoguerra fu proclamata la Repubblica di Mahabad, la quale ebbe una vita effimera. Lo Scià Reza Pahlavi dovette a lungo confrontarsi con la guerriglia dei Curdi, guidati dallo sceicco Mustafa Barzani. Dietro questa insurrezione di spontaneo c’era ben poco: l’Iraq, ma soprattutto l’URSS soffiavano sul fuoco della rivolta per poter mettere le mani, o in qualche modo dividersi le risorse petrolifere iraniane e privare l’occidente di una linea strategica di rifornimento essenziale da un punto di vista economico. Lo Scià ha sempre esercitato una fortissima repressione nei confronti della guerriglia ed i mezzi usati dagli iraniani furono molto brutali: esecuzioni sommarie, torture, processi sommari. Il tutto durò fino al 1974 anno in cui gli Irakeni si resero conto che continuare a fomentare la guerriglia non gli era di nessun giovamento, anzi a lungo andare avrebbero avuto dei grossi problemi anche nella loro zona quindi cessarono gli aiuti ai ribelli e lo Scià poté ristabilire un potere centrale abbastanza rigido. Quanto ai russi dal 1979 iniziarono l’occupazione dell’Afghanistan e strategicamente non avevano nessun interesse nell’interessarsi dei Curdi.

Iraq: qui essi sono il 17% del totale della popolazione. Vivono prevalentemente nella parte settentrionale del paese in quella regione che viene denominata Kurdistan iracheno. Sono anche presenti a Kirkuk, Mossul, Khanaqin e Baghdad. Circa 300.000 curdi vivono nella capitale irachena, 50.000 nella città di Mossul e circa 100.000 nell’Iraq meridionale. Dohuk è la città più piccola, ed è considerata la capitale del Badinan.

Nel 1983 da Abril ne sparirono 8.000 e tutt’oggi di loro non si sa più nulla. Nel 1985 altri 3.000 ragazzi curdi sono stati arrestati e torturati dalle forze di sicurezza irachene: sembra fossero stati catturati come ostaggi per obbligare i loro parenti a consegnarsi alle autorità. Nel biennio 19871988 è stata fatta la più grande repressione nei confronti dei Curdi: in questa occasione le autorità irachene usarono armi chimiche con migliaia di morti s’intravvede un preciso disegno politico teso all’eliminazione dei curdi iracheni, quasi una pulizia etnica.

Nel 1988 furono uccisi 5.000 Curdi in soli due giorni a seguito di un attacco chimico; dieci giorni dopo nel Qaradash è stato lanciato un altro attacco chimico: 400 sopravvissuti sono stati arrestati e giustiziati, mentre cercavano di raggiungere un luogo di cura. Nel 1988 le autorità turche affermarono di aver dato asilo a ben 57000 rifugiati Curdi.

Riguardo a queste ultime affermazioni bisogna tener presente che esse in parte sono inquinate dalla disinformazione dei vari servizi occidentali, tutti tesi a presentare la brutalità del regime di Saddam Hussein; la stessa affermazione che la Turchia avrebbe dato asilo a ben 57000 rifugiati, sembra un po’ in contraddizione con tutto quello che i vari governi di Ankara hanno poi effettivamente messo in essere nei confronti di questa popolazione.

Siria: qui la popolazione gode di una relativa tolleranza. Infatti quando nel 1966 Hafiz Assad prese il potere con un colpo di stato, fu appoggiato dagli alauiti a cui egli apparteneva, ma anche da Drusi, Cristiani e Curdi i quali temevano una deriva integralista dei mussulmani sunniti allora classe dominante del paese. Quando però si iniziò una forte campagna di arabizzazione della Siria moltissimi furono i Curdi che persero la cittadinanza. E’ bene ricordare che i governi della Turchia e della Siria stipularono un accordo di concessione reciproca che permetteva alle truppe di entrambe le nazioni di inseguire ed attaccare i ribelli curdi anche oltre i confini se questo fosse stato necessario.

Turchia: anche sotto la Sublime Porta i Curdi non godevano assolutamente di molta simpatia e di nessuna libertà. Con l’avvento dei Giovani Turchi le cose andarono peggiorando in quanto l’accento era fortemente posto sul nazionalismo ottomano, che chiaramente cozzava con quello curdo. Per loro fu coniato il termine Turchi di montagna e mai e poi mai si parlava di Kurdistan o di concessioni politiche o di autonomia nei loro confronti. Durante il periodo del genocidio armeno, le autorità di Istanbul giocarono davvero sporco cercando di prendere due piccioni con una fava. Fecero di tutto per contrapporre Curdi ed Armeni creando un clima di odio tra le due etnie. Nell’est della Turchia le stragi, gli incendi, gli assassini, i rapimenti e le discriminazioni odiose si ripetevano ogni giorno e chi aveva la peggio, erano quasi sempre gli armeni i quali vivevano integrati nel tessuto sociale del paese. Moltissimi dei reparti impegnati dal governo contro gli Armeni erano formati da elementi curdi. La maggior parte degli aguzzini più feroci, naturalmente, appartenevano a questa etnia.

Il gioco di eliminazione incrociata sortì solo parzialmente l’effetto sperato, ma addirittura servì, al contrario, a ricompattare ed aumentare le aspirazioni all’indipendenza del Kurdistan.

Dopo l’ingresso della Turchia nella struttura militare della Nato, la zona con più alta concentrazione di Curdi, cioè la parte est del paese, divenne strategicamente molto importante per la difesa dell’occidente. Gli americani impiantarono due grosse basi militari nel sud est dell’Anatolia.

Una ad Incirlik, a 12 chilometri ad est di Adana.

Essa è una base aerea estremamente importante, in quanto la USAF vi localizzò subito dopo la sua apertura, degli importanti gruppi aerei comprendenti sia caccia, sia bombardieri d’assalto: la frontiera dell’Unione Sovietica era distante soltanto poche centinaia di chilometri, quindi soltanto qualche decina di minuti di volo separavano il dispositivo difensivo americano dal confine caldissimo dell’URSS. Ma c’è di più il governo americano fece diventare la base il centro delle missioni di ricognizione e spionaggio ad alta quota, missioni che venivano eseguite dagli U2 (Dragon Lady dal nome di un famoso fumetto americano dell’epoca), jet che raggiungevano una quota altissima di navigazione ed avevano un’autonomia davvero formidabile: pensate che le missioni cominciavano in Anatolia e terminavano ad Anchorage in Alaska.

L’altra base è posizionata a Dyarbakir, questa in pieno Kurdistan. Gli Usa istallarono qui, oltre ad un gruppo di intervento aereo avanzato, anche decine di chilometri di antenne per la sorveglianza radar ed elettronica del territorio russo. I Turchi ovviamente, per evitare attentati, insurrezioni o colpi di mano, magari fomentati dell’URSS attraverso la popolazione curda, imposero lo stato d’assedio con regole rigidissime. Qualsiasi trasgressione veniva punita con la pena capitale attraverso impiccagione sulle piazze delle città che avevano visto il verificarsi degli episodi.

Lo stato d’assedio è stato revocato solo in tempi recentissimi.

Questo lo scenario che precede gli ultimi avvenimenti.

Erdogan ha sempre avuto un atteggiamento piuttosto ondivago nella conduzione della sua politica estera: atteggiamenti contrastanti li ha posti in essere sia nei confronti del dramma palestinese, sia nei confronti di Israele.

Ha negato l’uso delle basi turche di Incirlik e di Dyarbakir agli americani all’inizio della guerra condotta contro l’Iraq. Ha tollerato lo smembramento di fatto del medesimo e la creazione di uno stato curdo autonomo nel nord del paese, salvo poi prendere le distanze quando gli occidentali hanno cominciato pesantemente ad armare i Peshmerga in funzione anti Califfato. Non meno ambiguo è stato l’atteggiamento nei confronti della Siria: prima ha appoggiato Assad, poi ha improvvisamente fatto macchina indietro ed ha cominciato a prendere le distanze dal legittimo governo siriano. Contemporaneamente ha stretto relazioni commerciali importanti con la Russia di Putin che come si sa appoggia Assad.

Ma l’atteggiamento più ambiguo e più equivoco è quello tenuto nei confronti dell’ISIS, talmente ambiguo da sembrare che la Turchia fornisca, aldilà delle prese di posizione ufficiali di pura circostanza, appoggio copertura e forniture belliche ai fondamentalisti islamici.

Ed ora la nuova trovata di questa operazione antiterrorismo contro ISIS, ma ben più concretamente incentrata contro il PKK che non contro i fondamentalisti: da evidenziare che la Turchia, appena partita la serie di raid aerei americani contro l’ISIS si è guardata bene dal partecipare direttamente ai medesimi: né ha alzato un dito per aiutare i Curdi nella difesa di Kobane, nonostante fosse a portata di tiro dei cannoni dei carri armati schierati a protezione del confine.

Alla fine il 20 luglio l’attentato terroristico a Suruc, città vicino al confine meridionale con la Siria: durante una manifestazione di giovani socialisti che chiedevano il permesso di poter costruire una biblioteca ed un parco a Kobane appena riconquistata dai combattenti curdi, ma allo stesso tempo anche simbolo del Kurdistan siriano.

Tra i manifestanti c’era infiltrata anche una ragazza che si è fatta saltare in aria immolandosi per l’ISIS e causando una carneficina. Alla fine i morti erano 32 tutti molto giovani: ovviamente l’impatto psicologico sulla popolazione e la prossimità di un impegno elettorale, hanno giocato a favore di una reazione violenta ed immediata contro i mandanti dell’attentato.

Erdogan ha deciso di lanciare un’offensiva antiterrorismo contro l’ISIS senza precedenti, ma ha finito per scatenare un’offensiva militare sia contro le strutture dell’apparato militare del Califfato, sia contro quelle del PKK. Gli F16 turchi hanno colpito sia le città di Qandil , Avashin e Basya nel nord dell’Iraq e in Turchia Sirnak centro operativo delle strutture militari del PKK.

Quindi la lotta contro la “minaccia terroristica” si è abbattuta come un’ascia a doppio taglio: si doveva colpire contemporaneamente, vista la situazione di emergenza, sia l’ISIS, sia anche il nemico separatista curdo che stava strutturando le sue forze per resistere agli attacchi del Califfato, ma che comunque, secondo la visione del governo di Ankara, starebbe poi lavorando in prospettiva per la creazione di un grande stato curdo sottraendo vasti territori anche alla Turchia.

E’ doveroso ricordare che tra alti e bassi, la guerriglia condotta dal braccio armato del PKK, dura da più di 30 anni ed è costata ben 40000 morti da entrambe le parti.

 

Spendiamo due parole per chiarire meglio chi sia il PKK la cui sigla indica il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Esso nasce nel 1978 su iniziativa di Abdullah Öcalan il quale era un militante di gruppi studenteschi di estrema sinistra, durante il periodo della contestazione studentesca all’Università di Ankara.

Come ben si sa certe formazioni nascono e prosperano assolutamente in modo tutt’altro che spontaneo, altrimenti non avrebbero avuto i mezzi necessari per crescere e portare avanti i loro obiettivi di lotta: anche questo non fa, ovviamente eccezione.

Alcune fonti sostengono che Öcalan sia stato aiutato a fondare il PKK dalla Siria, interessata a destabilizzare la zona per rallentare i lavori di costruzione della diga Atatürk sull’Eufrate, la quale avrebbe lasciato in mano alla Turchia il totale controllo sulla portata dell’acqua del fiume regolandone a proprio piacimento il flusso in uscita. Anche la Grecia e l’Unione Sovietica, generalmente interessate a destabilizzare la Turchia, avrebbero appoggiato il PKK. Il condizionale è soltanto un modo per evidenziare una realtà che nessuno ha interesse a svelare anche dopo anni dalla fine della guerra fredda.

La Grecia sosteneva in modo più discreto il PKK in quanto entrambe le nazioni facevano parte della struttura dell’Alleanza atlantica; ma la Siria agli inizi aveva addirittura concesso all’organizzazione, una base di addestramento sul proprio territorio. I rapporti fra Siria e Turchia si fecero tesi e nel 1998 i due paesi si trovarono sull’orlo di un conflitto armato a causa della costruzione di quelle dighe turche destinate a imbrigliare, come abbiamo appena accennato, le acque dell’Eufrate. Tuttavia, nonostante i precari rapporti tra le due nazioni, le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare subito il paese.Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di un asilo politico, sempre braccato dagli agenti dei servizi segreti turchi. Si rifugiò dapprima in Russia, da cui però fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni. L’unico sostegno rimastogli erano alcuni agenti dei Servizi segreti greci tra cui Sabbas Kalenteridis che lo scortavano continuamente per evitarne la cattura da parte dei rivali turchi, ma agendo in maniera indipendente, senza l’avallo formale del governo greco. Sappiamo bene come funzionano le cose in questi casi: tutti ne sono al corrente, ma se succede qualcosa il governo accusa i servizi di essere andati oltre i mandati loro affidati: processi, grandi rivelazioni, poi tutto finisce in una inconsistente bolla di sapone.

Öcalan aveva, nel frattempo, nominato suo legale Britta Böhler, un’avvocatessa tedesca di grande fama ed altri principi del foro in vari paesi europei tra cui l’Italia. Questi sostenevano la legittimità della battaglia da lui condotta in favore del popolo curdo, ma nessuno di loro riuscì a strappare al proprio governo la concessione dell’asilo politico. Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista. La cosa fu avallala dall’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto del PdCI.

Il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere in qualche giorno asilo politico. Ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il neo-formato governo D’Alema a ripensarci.

Il governo italiano non poteva estradare Öcalan in Turchia, paese in cui era ancora in vigore la pena di morte, né poteva concedergli asilo: la concessione dell’asilo spetta infatti, in Italia, alla magistratura, che infatti lo riconobbe a Öcalan, ma troppo tardi. Una soluzione sarebbe potuta arrivare dalla notifica, da parte del cancelliere tedesco Gerhard Schröder, del mandato di cattura in vigore contro di lui in Germania, ma Schröeder probabilmente non volle creare tensioni nell’ampia minoranza di immigrati curdi in Germania. Dopo 65 giorni, il 16 gennaio 1999, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi, in Kenia. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana, che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.

Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi. Fu quindi fatto salire a bordo di un aereo e portato in Turchia, dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza ad İmrali, un’isola del Mar di Marmara. Il suo arresto provocò immediatamente una serie di massicce proteste di curdi e non, che in vari punti del globo presero d’assalto le sedi diplomatiche greche. Essi ritenevano che il loro capo fosse stato tradito dai Greci e che proprio questi lo avessero consegnato al nemico. Anche in Italia a causa dell’arresto vi furono manifestazioni di protesta: a Roma sfociarono in scontri che portarono a perquisizioni ed arresti.

Una volta prigioniero, scampò la pena di morte, abolita dalla Turchia nell’agosto del 2002 su pressione dell’Unione europea, ed oggi il capo del PKK sconta l’ergastolo nel carcere dell’isola sul Mar di Marmara in completa solitudine.

Il PKK è stato definito organizzazione terroristica da molti organismi internazionali ed anche da vari stati: Turchia in testa, Stati Uniti, Unione europea, Siria, Canada, Iran ed Australia.

Oltre all’offensiva aerea è scattato anche un vasto giro di vite per colpire l’opposizione interna al governo di Erdogan: a partire dal 24 luglio,

 

 

 

 

in una settimana di operazioni repressive, vengono eseguiti 1.300 arresti, per lo più di militanti curdi e di sinistra di queste soltanto il 10% è sospettato di essere vicino allo Stato islamico. 96 siti internet, per lo più orientati a sinistra, sono stati bloccati dal governo, e almeno 190 sono le vittime dei raid aerei turchi nel nord dell’Iraq. Erdogan ha chiesto ai giudici di rimuovere i deputati del Parlamento del Partito Popolare Democratico (HDP), che condivide radici ideologiche e circoscrizioni elettorali con il PKK; “Per i suoi legami con gruppi terroristici”.

Questo partito di sinistra e filo-curdo ha aumentato la sua presenza in occasione delle elezioni del giugno scorso, arrivando al 13% dei voti ed ottenendo ben 80 seggi su un totale di 500 nel Parlamento, mentre l’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza assoluta dopo 13 anni di egemonia assoluta parlamentare.

Poche ore dopo i primi attacchi aerei, quindici dipendenti di una centrale elettrica turca Sirnak, nel sud-est, sono stati rapiti dai militanti del PKK: questa la risposta agli attacchi, i ribelli.

Ovviamente l’offensiva militare turca è stata duramente condannata anche dalle autorità del Kurdistan irakeno: il presidente Massud Barzani ha espresso disapprovazione ed ha anche denunciato il livello di pericolosità della situazione.

Il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki Moon ha invece dato il suo avallo all’operazione antiterrorismo di Ankara ed ha definito gli attacchi come atti di legittima autodifesa. Amaramente dobbiamo costatare come ormai soltanto il Governo italiano ed il Papa continuino ad avere una cieca fiducia in questa obsoleta istituzione internazionale: per poter intervenire in Libia per fermare gli sbarchi di migranti l’Italia aspetta fiduciosa il pronunciamento delle Nazioni Unite che non arriverà mai. Sarebbe una contraddizione che l’ONU, dopo aver avallato i piani per trasferire in Europa 140 milioni di disperati all’improvviso desse il permesso di interrompere il flusso migratorio.

Quanto al Pontefice forse spera, invano, di diventare il Segretario generale dell’Onu delle religioni e capo della nuova sola religione adogmatica mondiale: Dio lo converta!!

 

In realtà Erdogan ha avuto il via libera, per questa operazione antiterrorismo, dagli Stati Uniti i quali, in cambio hanno ottenuto l’uso delle basi turche, in territorio curdo, per le operazione della coalizione anti ISIS. Ma se Erdogan si presenta anche mostrando i muscoli come forza anti ISIS della regione, ha tuttavia sia permesso il transito di militari del Califfato sul proprio territorio, sempre in funzione anti curda; sia è diventato la plaque tournante per tutti quei combattenti di ogni nazionalità che desiderano unirsi alle forze yidahiste nei territori controllati dagli integralisti islamici; il tutto non può essere avvenuto senza almeno un tacito consenso da parte statunitense: qualcosa non quadra!

Il 25 giugno l’ISIS ha compiuto tutta una serie di attentati spettacolari e di vasta risonanza mediatica a Kobane, Francia, Turchia, Somalia e Kuwait: nella regione di Rojava con epicentro a Kobane, appena ripresa alle forze del Califfato, i Curdi hanno gettato le basi per una repubblica democratica libertaria, con concezioni ideologiche molto simili allo zapatismo: ora la situazione sembra più chiara e ciò getta una luce particolare sulle successive decisioni di intervento militare antiterrorismo di Erdogan, il quale ormai sta spingendo sempre di più il pedale dell’acceleratore sul nazionalismo turco.

I curdi, in appoggio a questa loro iniziativa ed al loro sforzo bellico reale contro l’ISIS, stanno cercando l’approvazione della comunità internazionale che assolutamente tarda ad arrivare: troppo alta è la posta in gioco.

Mancano ancora due tasselli al completamento del mosaico: essi riguardano la Cina e la Russia. Erdogan si è recentemente recato in visita di stato a Pekino; la Repubblica Popolare cinese è insieme a Russia e Germania uno dei principali partner commerciali di Ankara. La Francia, dopo le prese di posizione a favore del genocidio armeno è stata completamente tagliata fuori dal circuito commerciale anatolico.

Erdogan nella capitale cinese ha negoziato, con successo l’acquisizione di un nuovo sistema di difesa missilistica di produzione cinese; finora gli approvvigionamenti di materiale bellico erano stati diretti esclusivamente nei confronti di Germania e Stati Uniti e sì che il budget di acquisti di armi turco è sempre stato abbastanza consistente: gli americani quadravano il cerchio da una parte rinforzando il dispositivo meridionale della Nato e dall’altra vendendo armi e non spendendo assolutamente niente nello scacchiere anatolico, se non il costo dell’affitto delle basi di Incirlik, Dyarbakir e del porto di Smirne. Una vera pacchia.

Più complesse sono le relazioni con la Russia. I recenti accordi per la costruzione di un oleodotto sostitutivo al Southstream hanno sicuramente dato un impulso positivo allo sviluppo dei rapporti bilaterali tra i due vicini.

Putin ha convocato d’urgenza personalmente l’ambasciatore turco a Mosca.

The Moscow Times riferisce che:

 

“Il presidente russo, Vladimir Putin, ha rotto il protocollo diplomatico convenzionale ed ha convocato personalmente l’ambasciatore turco a Mosca, Ümit Yardim, per avvertirlo che la Federazione Russa intende rompere nell’immediato le relazioni diplomatiche con la Turchia a meno che il presidente turco, Recep Erdogan, metta fine al sostegno fornito all’ISIS ed ai ribelli in Siria, dove la Russia dispone della sua ultima base navale nel Mediterraneo, a Tartous.

Il presidente russo è entrato in una lunga discussione polemica criticando la politica estera turca ed ha denunciato il ruolo malevolo svolto dalla Turchia in Siria, in Iraq e nello Yemen dovuto all’appoggio fornito costantemente dal governo di Ankara ai terroristi di Al Qaeda-sauditi. Moscow Times riferisce che la conversazione con l’ambasciatore turco è divenuta molto accesa fino a sfociare in un’aspra polemica.

Secondo le informazioni filtrate, l’incontro tra Putin e l’ambasciatore turco era imbevuto da intenso risentimento reciproco. Yardim ha respinto tutte le accuse della Russia, attribuendo alla Federazione russa la causa della dura e prolungata guerra civile in Siria. La risposta lapidaria di Putin è stata “…..allora dica al suo presidente dittatore che può andare all’inferno assieme ai suoi terroristi dell’ISIS e noi faremo in modo che la Siria divenga niente di più che una grande Stalingrado, per Erdogan ed i suoi alleati sauditi che non sono meglio di Adolf Hitler”.

Putin ha aggiunto:

“Come risulta ipocrita il suo presidente visto che lui afferma di difendere la democrazia e si permette di fustigare il golpe militare in Egitto, mentre approva simultaneamente tutte le attività terroriste dirette a rovesciare il presidente siriano! “

Il presidente russo ha continuato dicendo che il suo paese non abbandonerà mai il governo legittimo in Siria e coopererà con i suoi alleati, Iran e Cina, per trovare una soluzione politica all’interminabile guerra in quel martoriato paese e che ha fatto precipitare la nazione araba in un situazione di conflitto permanente e di anarchia religiosa.

Per Erdogan sicuramente una grana in più ed anche un motivo di profonda riflessione su tutta la sua attività ambigua di politica estera.

 

 

luciano garofoli