KEYNESISMO E MONETARISMO prima parte

UNA PAGINA FONDAMENTALE DELLA NOSTRA STORIA –
LA DISPUTA TRA KEYNESISMO E MONETARISMO QUALE MANIFESTAZIONE DEL PROBLEMATICO RAPPORTO TRA GIUSTIZIA E MERCATO
(Prima Parte) di Luigi Copertino

Giustizia, equità e mercato

A Piazza del Campo, in Siena, sorge il Palazzo Pubblico, al cui interno, nella sala detta del Mappamondo, dove in origine si svolgevano le riunioni del Consiglio Generale della Repubblica senese, Simone Martini, tra il 1312 ed il 1315, sulla parete di fondo, ha dipinto la sua famosa “Maestà”. Si tratta della raffigurazione della Corte Celeste: la Madonna al centro, in trono, con il Bambino, attorniata da angeli e santi. La raffigurazione ha un forte richiamo teologico-politico, sicché il luogo nel quale fu realizzata non è affatto casuale. L’opera indica nella Madonna la garante celeste del buon governo della città e la pone in dialogo diretto con i suoi santi protettori – Ansano, Savino, Crescenzio, Vittore – i quali intercedono presso di Lei per il bene spirituale e temporale dei senesi. Ad essi la Santa Vergine risponde: «Diletti mei ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti / ma se i potenti ai debili fien molesti / gravando loro o con vergogne o danni / le vostre oration non son per questi / né per qualunque la mia terra inganni». L’ammonimento viene rafforzato da quanto si può leggere nel cartiglio che Gesù Bambino tiene in mano e che riporta le prime parole del Libro della Sapienza «Diligite Iustitiam qui iudicatis terram».
In questa raffigurazione pittorica è espressa, nella sua massima profondità, la convinzione, tutta medioevale, della sussistenza di uno stretto rapporto tra la Giustizia, sempre gradita a Dio, ed il bene temporale, oltre primariamente quello spirituale, dell’umanità. Per l’uomo cristiano dell’età di mezzo anche il bene economico dipendeva dal Cielo e non era mai disgiunto dalla Giustizia né lo si poteva conseguire senza praticare la Misericordia verso i deboli, i “pauperes”, una categoria che se, senza dubbio, non ricomprendeva soltanto i poveri in senso sociologico certamente questi innanzitutto. Per tale motivo, raffigurazioni del genere erano sovente dipinte proprio nei luoghi dove i pubblici amministratori erano chiamati a svolgere il proprio mandato, come sempre presente e constante ammonimento, alla loro coscienza, della grave responsabilità che essi, ad ogni decisione, prendevano sopra di sé, soprattutto in ordine alla loro salvezza eterna. Nella pratica, lo sappiamo tutti, questa Etica Teologica del Politico era spesso, se non sempre, disattesa e tradita, ma tuttavia essa rimaneva sospesa, come spada di Damocle, sulle teste dei pubblici magistrati e dei re, pungente, quale spina nel fianco, nella stessa esatta misura in cui essi la rinnegavano.
Il mercato è nato per essere luogo di scambio dei beni e con essi anche delle idee. Quindi anche come luogo di incontro tra gli uomini. Nelle piazze dei mercati, ieri come oggi, insieme allo scambio delle merci si realizza anche l’incontro e sovente la contaminazione delle culture. Perlomeno fino a quando il mercato rimane al suo posto, quello “terziario”, all’interno della Città politica e non pretende, come ha preteso nello scenario post-moderno della globalizzazione, di fagocitarla tutto riducendo – identità, politica, etica, cultura, persino la spiritualità – ad una mera questione di prezzi e di incontro tra domanda ed offerta. Emancipato dalle funzioni “primaria” e “secondaria”, ossia quelle corrispondenti, nel paradigma cristiano-platonico, al Santo/sacro ed al Politico, il mercato diventa – secondo un fenomeno di contraffazione e sostituzione ben noto agli studiosi dei rapporti tra sistemi religiosi, politici ed economici – un “dio crudele” dominato esclusivamente dall’egoismo concorrenziale, un agone nel quale gli operatori, come gli antichi gladiatori nell’arena, sono mossi esclusivamente dalla necessità di eliminare economicamente i concorrenti, di batterli, per affermare il proprio esclusivo diritto di dominio sulla piazza, oggi vieppiù globale.
Che, infatti, la concorrenza sia sempre e comunque uno spontaneo ordine benefico è soltanto una pia illusione, perché essa, in realtà, tende inevitabilmente, secondo una logica darwiniana, a degenerare nell’oligopolio, compreso sociologicamente quello dell’egemonia di classe o di ceto, ed il fatto stesso che nelle economie liberali, per riaffermarla, sia costantemente necessario l’intervento istituzionale dell’Autorità politica dimostra che essa, connessa come è all’idea “inclusiva” e però astratta del mercato, non si da nella realtà storica, “naturale”, delle cose concrete, ma solo nelle astrazioni soggettivistiche, di derivazione idealista, del marginalismo e della scienza economica neoclassica.
Nella “Quadragesimo Anno” (1931) Papa Pio XI osservava che, quale funesta conseguenza dell’individualismo, “alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; e tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele” (n. 109). Il mercato, concepito secondo lo “spirito individualistico”, è intrinsecamente darwiniano e non è un caso se la teoria darwiniana – essa, infatti, è soltanto una teoria perché, lungi dall’essere stata irrefutabilmente e sperimentalmente dimostrata, ha sovente trovato ostacoli, difficoltà ed anche esplicite confutazioni sul piano scientifico – esordì e trovò il suo ambiente culturalmente favorevole nell’Inghilterra vittoriana fiera del suo liberismo imperialistico. Il darwinismo forniva una legittimazione “scientifica” all’idea della concorrenza che, in economia, era la traduzione della “selezione naturale” supposta da Darwin quale motore dell’evoluzione della specie, anzi quale maligno “dio” giudice della vita e della morte delle creature. Naturalmente il rapporto era biunivoco sicché anche l’idea di “selezione naturale” veniva mutuata dall’idea liberista di concorrenza piuttosto che da una verifica scientifica della realtà naturale.
Non esiste, al di fuori delle raffigurazioni romantiche degli ordoliberali, un mercato irenistico e pacifico né esiste una concorrenza armonizzatrice, nella prosperità generale, degli interessi individuali o di gruppo. Forse un mercato di tal genere avrebbe potuto darsi nella condizione adamitica dell’umanità, prima che il cuore dell’uomo fosse ferito dall’autorefenzialità egoistica determinata dalla chiusura all’Amore Infinito che viene dall’Alto. Ma, nell’attuale condizione ontologica dell’umanità, un mercato armonico non esiste né può esistere, proprio a causa di quella originaria ferita. E’ esattamente questo il “particolare” che troppo spesso dimenticano gli ordoliberali cattolici, animati dalla pur lodevole intenzione di “correggere” il mercato mediante le “istituzioni” e secondo gli schemi di un troppo debole “interventismo liberale” ossia “conforme al mercato”.
Il mercato, nella sua realtà effettiva, funziona esclusivamente secondo una legge di egoismo, dettata inevitabilmente dall’imporsi, duro ma concreto, del calcolo economico ossia dalla massimizzazione dei profitti mediante la minimizzazione dei costi. Nella sua elaborazione romantica, il mercato dovrebbe configurare uno scenario di indicatori, i prezzi, di per sé sempre “giusti” perché frutto di libere e spontanee contrattazioni mediante i quali gli operatori possono orientarsi “razionalmente” e così facendo, se non intervengono inferenze esterne, realizzare il migliore degli equilibri, l’armonia supposta “naturale” nell’ordine economico, il benefico spontaneismo occulto della mano invisibile. In questa visione idilliaca del mercato la diversità sostanziale dei contraenti in quanto a capacità, disponibilità, informazioni, forza, risorse finanziarie e tecnologiche, etc., ha poca o nessuna rilevanza.
La realtà storica dei fatti, al contrario, dimostra che, senza Autorità Politica, non solo però meramente regolatrice ma anche direttamente interventista secondo prudenza e necessità, il criterio del massimo profitto al minor costo, essendo il principale dei costi quello del lavoro, porta, inevitabilmente, in modo inequitativo, al predominio del capitale sul lavoro, in una errata concezione che guarda solo dal lato dell’offerta del tutto trascurando quello della domanda, con tutte le invitabili conseguenze recessive. Il mercato è intrinsecamente instabile perché segnato, come tutte le cose umane, dalla tendenza egoista del cuore umano ferito, benché non completamente corrotto, dal peccato. L’instabilità insita nel mercato si manifesta, innanzitutto, nello sforzo del capitale per massimizzare i profitti riducendo, prima degli altri, il costo del lavoro (fino, se possibile, ad eliminarlo con l’automazione) e nella conseguente lotta del lavoro, in conflitto con il capitale, per ampliare il salario e conservare o riformulare, nell’organizzazione economica, il proprio ruolo messo continuamente in discussione dalla tecnologia. La contrazione o anche solo il contenimento del reddito da lavoro si traduce, inevitabilmente, in contrazione del potere d’acquisto ossia in contrazione della domanda e, quindi, in sovrapproduzione, in eccesso di offerta, con paralisi e default del mercato che si presume armonico e spontaneo dispensatore di ricchezza.
Spetta dunque all’uomo, alla politica, umanizzare, eticizzare, lo spazio della contrattazione orizzontale, sinallagmatica, mediante saggi e ben ponderati interventi non solo normativi, non solo di “cornice” come vogliono gli ordoliberali, ma anche redistributivi, dall’alto, verticali. La giustizia commutativa deve essere sempre accompagnata, e mai disgiunta, dalla giustizia distributiva e dall’equità (1).

La Rivoluzione Neoconservatrice del Monetarismo

Curva di Phillips 

Il monetarismo ha fatto leva, al tempo della rivoluzione reaganiana, sulla critica che Milton Friedman rivolse alla lettura keynesiana della cosiddetta “curva di Phillips”, ossia alla relazione empiricamente riscontrata, e codificata in forma grafica, tra disoccupazione e inflazione. Tale relazione, come fotografata da Phillips, forniva infatti un argomento solido a favore della teoria keynesiana.
Sulla base di alcune intuizioni ed anticipazioni già contenute nelle opere di Irving Fisher, l’economista neozelandese Alban William Phillips, nel 1958 pubblicò, nel saggio “The relationship between unemployment and the rate of change of money wages in the UK 1861-1957” (La relazione tra disoccupazione e il tasso di variazione dei salari monetari nel Regno Unito 1861-1957), i risultati delle sue ricerche econometriche, personalmente condotte sui dati relativi allo spazio di circa un secolo, che dimostravano l’esistenza di una relazione inversa tra le variazioni dei salari monetari e il livello di disoccupazione nell’economia britannica, nel periodo preso in esame.
Nel 1960, gli economisti Paul Samuelson e Robert Solow, sulla base di analoghe ricerche, condotte indagando sulla storia economica di altri Paesi, confermarono i risultati di Phillips e giunsero alla conclusione che non si trattava di un dato relativo alla sola Inghilterra e ad un solo periodo storico. La conclusione cui si poteva pervenire era, per dirla con lo stesso Robert Solow, che «La società può permettersi un saggio di inflazione meno elevato o addirittura nullo, purché sia disposta a pagarne il prezzo in termini di disoccupazione». Gli economisti si convinsero così che i risultati di Phillips indicassero una relazione stabile e permanente tra livello di inflazione e livello di disoccupazione. Ne conseguiva che i governi avrebbero potuto controllare inflazione e disoccupazione, tramite politiche keynesiane, semplicemente miscelando la giusta dose tra i due obiettivi della politica economica, occupazione ed inflazione, ossia scegliendo un punto sulla curva di Phillips dove posizionare il sistema economico.
Tutto ciò era coerente con la teoria keynesiana, per la quale ad un’alta inflazione fa riscontro una bassa disoccupazione e viceversa. Infatti, secondo John Maynard Keynes, la piena occupazione, quindi il maggior reddito disponibile per essere speso, aumenta la domanda aggregata nei confronti di un sistema produttivo non sempre capace di rispondere con una offerta adeguata, con la conseguenza che i prezzi dei beni, in quantità rarefatta, almeno fino a che la produzione non riesce a portarsi su livelli idonei alla domanda, salgono inducendo, quindi, inflazione ossia, tecnicamente, un aumento incontrollato dei prezzi, per eccesso, in tal caso, di domanda.
Tuttavia negli anni ’70 del secolo scorso, il sistema keynesiano-phillipsiano sembrò crollare sotto la spinta dell’inedito fenomeno che all’epoca fu chiamato “stagflazione”. Si trattava della contemporanea presenza, che si registrò in quel decennio, di un’alta inflazione congiunta ad un’alta disoccupazione. Le classiche ricette politiche keynesiane, deficit spending ed aumento dei salari, non sembravano più sortire gli effetti teorizzati da Keynes per riassorbire la disoccupazione.
A fronte di questa, apparente, incapacità della teoria keynesiana nello spiegare il nuovo fenomeno della stagflazione tornò a riprendere quota, sia nelle aule accademiche sia nelle stanze del potere politico, la teoria classica, ossia liberista, nella forma rielaborata da Hayek e Mises e riveduta, in senso monetarista, da Milton Friedman. Per questi vetero e neo liberisti la responsabilità della stagflazione era da ricercarsi nell’eccessiva presenza dello Stato nell’economia. Una eccessiva presenza che aveva finito per scoraggiare la responsabilità individuale e lo spirito imprenditoriale e fatto fuggire gli investimenti proprio per il disincentivo a produrre causato dall’alta inflazione. Da qui, poi, quale conseguenza, l’alta disoccupazione.
La ricetta da loro proposta – applicata a cavallo della fine del decennio ’70 e l’inizio di quello ’80 dalla signora Thatcher in Inghilterra e da Reagan negli Stati Uniti – consisteva in massicce liberalizzazioni, in spregiudicate privatizzazioni, in forti riduzioni salariali, in incisive riduzioni della tassazione in particolare a favore dei più ricchi nell’intento di sollecitarne gli investimenti e la spesa privata, nel pareggio rigoroso di bilancio e nel contenimento drastico della spesa pubblica anche di quella sociale e di investimento, nell’indipendenza (in luogo della soppressione invocata da Hayek e Mises e dell’abolizione dei loro privilegi legali chiesta da Milton Friedman) delle Banche centrali dai rispettivi governi con divieto per esse di monetizzazione, a tassi bassi o nulli, del fabbisogno finanziario statuale. Tutto ciò, secondo i nuovi liberisti, avrebbe rianimato il mercato e risolto contemporaneamente sia il problema dell’inflazione che quello della disoccupazione.
La ricetta all’inizio sembrò funzionare ma alla lunga ha provocato i guasti della crisi iniziata nel 2008. Infatti, contro le stesse attese dei neoliberisti i quali si dimostrarono del tutto imprevidenti rispetto all’incipiente finanziarizzazione dell’economia globale che essi stessi con le loro ricette favorirono, la riduzione della presenza pubblica in economia ha significato soprattutto la graduale liberalizzazione dei movimenti di capitale – il capitale diventò sempre più globale ed apolide – e quindi la quasi assoluta mancanza di controlli sul presupposto che il mercato, capace per definizione di autoregolazione, fosse l’unico strumento efficace per la miglior allocazione delle risorse, sicché qualsiasi intervento pubblico sarebbe soltanto un attentato a tale scenario di benefica armonia sociale.
La riduzione del carico fiscale sui ricchi, anche a causa dell’informatizzazione globale delle borse mondiali, non si tradusse affatto, prevalentemente, in massicci investimenti produttivi. La maggior spesa privata dei più abbienti – laddove essa si verificò, dal momento che sono invece i meno abbienti ad avere maggior propensione alla spesa mentre i ricchi tendono piuttosto a tesaurizzare – in assenza di controlli e di indirizzo pubblico, piuttosto che verso l’economia produttiva caratterizzata dalla “fatica del lavorare”, ha preferito orientarsi verso l’investimento finanziario (meglio sarebbe definirlo “speculazione”) che permette profitti più ingenti senza sottostare ai vincoli ed agli obblighi dell’economia reale.
Le privatizzazioni, d’altro canto, si sono rivelate un grande affare per la finanza privata che ha rilevato a pochi “centesimi” complessi industriali pubblici spesso in ottimo stato, senza alcun vero contributo risolutivo al ripianamento del debito pubblico. Tanto è vero che esso dopo la “svendita” dei beni nazionali ha continuato ad aumentare, soprattutto a causa degli interessi reali che ora gli Stati, non più monetizzati dalle proprie Banche centrali, anch’esse privatizzate, devono pagare ai mercati finanziari. E’ quanto, ad esempio, è accaduto in Italia, per la mediazione tra l’allora direttore del Tesoro Mario Draghi ed i rappresentanti delle grandi banche d’affari anglo-americane (affaire Britannia), all’atto dell’insediamento del governo di Giuliano Amato nel 1992, sull’onda di Tangentopoli e della crisi finanziaria di quell’anno che costrinsero il nostro Paese, sotto i colpi della speculazione globale, ad uscire dallo Sme, il sistema di cambi fissi che ha preceduto la moneta unica europea.
L’ottenuta indipendenza delle Banche centrali dai rispettivi governi ha poi potentemente contribuito all’egemonia della finanza globale, dal momento che gli stessi Stati, privati di sovranità monetaria, sono stati costretti a ricorrere ai mercati finanziari ed assoggettarsi al loro diktat quotidiano.
Infine, la riduzione della spesa pubblica, soprattutto di quella di investimento, ha gradualmente portato, insieme alle politiche di contenimento salariale, alla contrazione della domanda aggregata, in particolare di quella interna, riportando il sistema economico attuale ad uno scenario caratterizzato da una bassa inflazione, con forte tendenza a sfociare in aperta deflazione, ed alta disoccupazione. Si tratta dello stesso identico scenario degli anni ’30 del secolo scorso, quello nel quale studiò e teorizzò J. M. Keynes e dal quale si fuoriuscì, sia nelle democrazie (New Deal di Roosevelt), sia negli Stati autoritari di massa (dirigismo fascista, istituzionalizzazione dell’Iri), con un forte e diversificato intervento pubblico nell’economia che, perpetuato anche nel dopoguerra, consentì il decollo economico almeno del mondo occidentale. Non è dunque un caso se le analisi di Keynes stanno tornando, inevitabilmente, alla ribalta. Anche la curva di Phillips è tornata ad essere riconsiderata con più attenzione dagli economisti.
Probabilmente se, negli anni ’70-’80 del XX secolo, si fossero ascoltate le voci, come quella di Nicholas Kaldor, che proponevano, dati alla mano, una diversa spiegazione della crisi da stagflazione, senza dar troppo credito alle vecchie tesi liberiste nella loro nuova forma monetarista, ci saremmo risparmiati le nuove sperequazioni sociali del neoliberismo ed anche tutti gli errori teoretici e pratici dello stesso monetarismo, incapace, alla lunga, di spiegare le vere cause dell’inflazione, ossia dell’aumento dei prezzi, perché essenzialmente fondato sulla teoria quantitativa delle moneta, la quale fa erroneamente dipendere, in senso generale, l’aumento dei prezzi dall’aumento della massa monetaria in circolazione. Partendo da questa errata base analitica, la proposta monetarista, per combattere l’inflazione, contemplava, come detto, la riduzione di qualsiasi spesa pubblica, non solo di quella corrente, con conseguente privatizzazione dei servizi pubblici, nonché la riduzione dei salari con il fine, dicevano i monetaristi, di garantirne il potere d’acquisto reale e non l’illusorio aumento di quello nominale che poi sarebbe stato, a loro giudizio, vanificato dall’inevitabile inflazione conseguente a detto aumento.
In realtà i rilievi econometrici hanno dimostrato che la stagflazione degli anni ’70 del secolo scorso fu causata dall’aumento dei costi di produzione alla cui radice non stavano però gli aumenti salariali, che piuttosto (in)seguirono l’inflazione e furono solo una concausa ulteriore per i successivi aumenti dei prezzi, né la spesa pubblica che all’epoca era del tutto sotto controllo.
In Italia, negli anni ’70, la spesa pubblica passò dal 40% al 60% del Pil, quindi in perfetta linea con quelli che oggi sono i cosiddetti parametri di Maastricht (di passaggio va detto che non esiste alcun criterio scientifico per stabilire un limite percentuale, nel rapporto tra spesa pubblica e Pil, oltre il quale l’economia affonderebbe e che le stesse ricerche di Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, che avevano individuato nel 90% detto limite, pur non pretendendo di stabilire una causalità ma solo una correlazione, si sono dimostrate errate per una serie di manipolazioni selettive dei dati e per un banale errore di calcolo). L’aumento del 20% trova la sua spiegazione nell’ampliamento dell’offerta pubblica di welfare che proprio in quegli anni raggiungeva, anche in Italia, gli standard adeguati ad un Paese occidentale industrialmente avanzato.
Erano, infatti, quelli gli anni del definitivo passaggio dell’Italia da nazione ancora in parte agricola a moderna nazione industriale. Un passaggio che Pier Paolo Pasolini ed Augusto Del Noce, pur da posizioni religiose, filosofiche e politiche assolutamente diverse, giudicavano entrambi negativamente. Il primo, “comunista reazionario” ed ecologista ante litteram, lamentando l’imborghesimento del proletariato e la scomparsa delle lucciole dalle campagne a causa dell’inquinamento. Il secondo, cattolico tradizionale, paventando il sopraggiungere, dopo il pensiero forte proprio alle ideologie politiche “sacrali”, l’avvento della fase “profana”, ossia nichilista, della secolarizzazione, che avrebbe portato alla completa reificazione e mercificazione dell’uomo, a segnare il trionfo storico dell’Occidente post ed anticristiano.
Quegli stessi dati econometrici, che indicavano nell’inflazione da costi la causa autentica della stagflazione, dimostravano oltretutto, irrefutabilmente, che, nel caso italiano, analogo a quello degli altri Paesi occidentali che si muovevano nella stessa direzione monetarista, la spesa pubblica esplose, fino ad andare fuori controllo, soltanto a seguito del “divorzio” tra Stato e Bankitalia. Questo evento infatti costrinse lo Stato a finanziarsi, a tassi reali e sempre più esosi, sui mercati. Inizialmente quello interno, costituito dal risparmio di famiglie ed imprese, ma ben presto con ricorso sempre più massiccio, mano a mano che la globalizzazione finanziaria avanzava, a quelli globali, esterni. La liberalizzazione dei fondi di investimento e dei movimenti di capitali nonché l’ingresso nel mercato finanziario anche delle banche commerciali, che in precedenza, per via di limiti legislativi come il Glass-Steagall Act, non potevano operare su di essi, furono tra i fattori principali per la finanziarizzazione globale dell’economia.
L’analisi econometrica dimostrò, dunque, che l’alta inflazione, ossia l’alto livelli dei prezzi, in contemporanea presenza di una alta disoccupazione, fenomeno che contraddiceva la curva di Phillips e sembrava smentire la teoria di Keynes, fu l’effetto principale dell’aumento del prezzo mondiale del greggio causato dalle difficoltà di approvvigionamento del medesimo da parte dei Paesi occidentali, per via del blocco all’epoca imposto dai Paesi produttori dell’Opec durante le guerre israeliano-arabe di quel periodo. Ci sono elaborazioni grafiche che dimostrano questa causalità. Queste elaborazioni grafiche dei dati econometrici evidenziarono incontrovertibilmente che l’impennata dell’aumento del prezzo delle materie prime, in particolare del greggio, precedette quella dei prezzi dei beni, ossia dell’inflazione, e quella, ulteriormente successiva, dei salari che rincorrevano, secondo il meccanismo all’epoca vigente della cosiddetta “scala mobile”, l’aumento dei prezzi (2).
Negli anni ’70 del secolo scorso, dunque, non si era di fronte al fallimento della teoria keynesiana ma semplicemente di fronte ad un evento inedito che non poteva essere previsto da Keynes, nell’epoca nella quale scriveva la sua “Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”. Il fatto è che la storia è imprevedibile per gli stessi economisti.

La critica di Milton Friedman al paradigma keynesiano-phillipsiano

Ma dal momento che l’onestà intellettuale impone appunto onestà, dobbiamo prendere in considerazione ed esaminare più attentamente la critica monetarista alla curva di Phillips nella sua lettura keynesiana.
Milton Friedman contestò apertamente l’idea che tra inflazione e disoccupazione sussista una qualche relazione semplice, prevedibile e persistente come graficamente rappresentata dalla Curva di Phillips nella quale, come detto, viene espresso un rapporto inversamente proporzionale tra l’una, l’inflazione, e l’altra, la disoccupazione. Nella rappresentazione grafica della Curva di Phillips, infatti, posti i punti percentuali di inflazione sulle ordinate ed i punti percentuali di disoccupazione sulle ascisse, ogni punto verso l’alto lungo la curva indica, sulle ordinate, percentuali crescenti di inflazione e, sulle ascisse, percentuali decrescenti di disoccupazione e viceversa.
Milton Friedman oppose alla curva di Phillips “semplice” la sua teoria delle “aspettative razionali” o “Nairu” (non-accelerating inflation rate of unemployment) che distingue tra curve di Phillips di breve o di lungo periodo. Friedman osservò che la curva di Phillips nel lungo periodo tende ad irrigidirsi ed a diventare una retta parallela alle ordinate dell’inflazione e perpendicolare alle ascisse della disoccupazione, sicché non è più possibile individuare, lungo una curva che non è più tale, alcun punto di equilibrio desiderato tra inflazione e disoccupazione. Ne consegue, sostiene Friedman, che se si continua ad operare, con interventi di politica keynesiana, per salire verso l’alto lungo la curva, ormai irrigidita, nel tentativo di diminuire la disoccupazione facendo aumentare l’inflazione, in realtà, per raggiungere l’equilibrio, dato l’irrigidimento della curva medesima in forma di linea retta, è necessario andare a ritrovarlo su una nuova curva spostata, rispetto alla prima, più in alto verso destra a significare che l’equilibrio faticosamente ricercato va, ora, a situarsi in un punto su una diversa curva il quale incontra le ordinate dell’inflazione e le ascisse della disoccupazione su valori per l’appunto, per l’una e per l’altra, contemporaneamente maggiori. Valori maggiori che quindi indicano e spiegano la contemporanea presenza di alta inflazione ed alta disoccupazione. Come, secondo Milton Friedman, dimostrava la stagflazione degli anni ’70.
Tradotto in termini più semplici, secondo la tesi monetarista ogni intervento inteso ad aumentare i salari nominali – o anche ad aumentare la domanda aggregata mediante la spesa pubblica – trova un risposta “naturale” da parte del mercato le cui forze sospingono, alla lunga, l’equilibrio verso l’alto ossia verso una situazione nella quale l’inflazione alimenta la disoccupazione e viceversa. Questo perché, secondo questa tesi, si sarebbe interferito con il meccanismo spontaneo del mercato che, se invece viene lasciato libero di operare senza interferenze, tutto aggiusterebbe, da solo, posizionando, secondo la legge “naturale” della domanda e dell’offerta, i salari al loro “giusto” livello, generalmente contenuto, permettendo ai profitti da capitale di crescere e con essi il risparmio, gli investimenti e l’occupazione (sottopagata, pero!). La sequenza suggerita dalla scuola neoclassica, per la quale i risparmi precedono gli investimenti ed i depositi bancari i prestiti, è esattamente opposta alla sequenza keynesiana per la quale sono, al contrario, gli investimenti a generare i risparmi ed i prestiti bancari a creare i depositi.
Nonostante la sua eleganza formale, è evidente il ruolo di teoria al servizio del capitale che svolge la tesi di Milton Friedman. In sostanza, l’economista liberista sostiene che politiche salariali intese ad aumenti, quindi il vincolismo “corporativo” imposto dai sindacati, o la spesa pubblica per sostenere il Welfare, comportano spinte inflattive perché gli imprenditori scaricano sui prezzi di mercato gli aumentati costi di produzione ossia gli aumenti salariali e/o fiscali.
E’ incredibile come, al di là della sofisticatezza analitica delle argomentazioni, la tesi liberista non è mai cambiata, nella sua essenza, sin dal suo comparire storico: l’argomento “anti-corporativo” usato da Milton Friedman, ma prima di lui già utilizzato dagli “austriaci” Hayek e Mises, contro i sindacati è assolutamente lo stesso a suo tempo usato, nel XVIII secolo, dai fisiocrati e dai proto-liberisti contro il regime vincolistico delle “arti e mestieri”, dei “compagnonaggi” (le prime forme di sindacalismo moderno) e quello civico-comunitario nella gestione delle terre nell’Ancién Régime.
(continua)

Luigi Copertino

NOTE

1) Di “giustizia distributiva” già trattavano Aristotele e poi, sulla sua scorta ma alla luce della Rivelazione, Tommaso d’Aquino. Aristotele è il grande teorizzatore della giustizia nelle sue diverse forme: la trattazione più ampia e articolata di questo tema si trova nell’Etica nicomachea. Allo Stagirita, inoltre, si deve una grande acquisizione. Quando distingue il “giusto legale” dal “giusto naturale”, egli ricava una categoria, l’“equità”, che resterà centrale in tutta la tradizione giuridica europea. L’equità è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto: è un correttivo del “giusto legale”, poiché cerca di adattarlo a situazioni specifiche e concrete. Con il Cristianesimo, l’equità diventa espressione di una Giustizia superiore unita alla Misericordia, in un modo che se all’uomo non è pienamente possibile a Dio invece lo è, benché l’uomo debba sempre cercare, per quanto è nelle sue facoltà di creatura icona di Dio, di tendervi. Aristotele quando tratta della giustizia distributiva fa ricorso all’ambito matematico: la giustizia distributiva è modellabile sulla proporzione geometrica. Pur essendo stata successivamente elaborata sulla base della sua autorità, di “giustizia commutativa” Aristotele, nell’opera sopra citata, non tratta mai. Anzi egli afferma esplicitamente che lo scambio e il mercato non hanno nulla a che fare con la giustizia. L’idea della giustizia commutativa nasce in Età medievale e rispecchia il mondo della “lex mercatoria” di quell’epoca. Nel medioevo per conferire dignità etica all’idea della giustizia commutativa ci si richiamò ad Aristotele. Sarebbe ingiusto affermare che fu una “invenzione” in senso assoluto, perché i medioevali più che semplicemente conferire autorità alle loro idee richiamandosi agli antichi, erano esperti nel desumere dall’antico quanto in esso non è esplicito ma implicito. Il medioevo fu età straordinariamente creativa: alla luce della Rivelazione i medioevali portarono alla massima esplicitazione l’eredità incompiuta degli antichi pagani. Sul terreno della “lex mercatoria”, dunque, fu desunto, per esplicitazione, dal pensiero aristotelico, preso quale eredità vivente ma incompiuta dell’antica filosofia, l’idea della “giustizia commutativa” che, più di quella distributiva, si confaceva alla terza funzione platonico-cristiana, quella della produzione, dello scambio e del mercato. Ma fino a quando, in età moderna, non intervenne la frattura tra teologia, filosofia, etica, politica ed economia, posti in questo esatto ordine gerarchico, l’equità giocava, piuttosto idealmente, benché non mancasse una concreta incisività storica, un ruolo di guida preminente anche nello spazio proprio alla giustizia commutativa, senza che si lasciasse al solo mercato stabilire quale fosse il “giusto prezzo”. Questa dipendenza dell’economia dall’etica, ad esempio, svolse un ruolo importante nel dibattito circa la legittimità di un moderato interesse nel prestito non usuraico, non speculativo, di denaro, ossia finalizzato ad esigenze sociali, come rivendicato dai francescani del XV secolo contro la tradizione aristotelico-tomista che invece affermava la assoluta non fecondità della moneta. Ma il giusto interesse, ossia il giusto prezzo del denaro, non poteva, neanche per i francescani, essere determinato dall’utile ma sempre tenendo conto dell’aequitas, sicché un moderato interesse ricompreso tra un minimo del 2% ed un massimo del 5%, quale copertura dei costi di un servizio o di un’opera di carità sociale, poteva, per i francescani, essere ammesso nel funzionamento dei monti di pietà, che servivano proprio a liberare artigiani ed operai dagli usurai. L’autorità ecclesiale, pur senza abdicare alla precedente tradizione contraria in assoluto al prestito ad interesse, ammise, in questi ben circoscritti termini, la pratica equitativa dei francescani. I Medievali, alla luce dell’equità supportata dalla Rivelazione, si ponevano il problema, squisitamente etico, del giusto prezzo dei beni sul mercato senza farlo dipendere, almeno idealmente, soltanto dal meccanismo anonimo dell’equilibrio della domanda e dell’offerta. E’ solo con Adam Smith, il quale pure si riteneva un moralista (ma tra lui ed i francescani medioevali vi erano, ormai, di mezzo Lutero e Calvino), che viene affermato che non spetta alla morale sancire cosa è giusto e cosa è ingiusto sul mercato: è il mercato stesso a decidere tramite il meccanismo esoterico della mano invisibile che allinea i prezzi secondo spontanea, presunta, legge naturale. Mentre dunque, i medioevali lavoravano sull’eredità classica per chiarificarla alla luce della Rivelazione, l’età moderna invece, sull’esempio soggettivistico di Lutero, al fine di rompere con l’“oscurantismo medioevale”, finisce per rompere con la stessa eredità classica, per quanto proprio i moderni non abbiano fatto altro che richiamarsi, contro l’età di mezzo, all’età antica ma rielaborandola in termini piuttosto mitizzanti e certamente in modo del tutto diverso dalla creatività cristiana medioevale. La classica definizione che il pagano Ulpiano (III sec. d.C.) diede della “giustizia” – “Justitia est constans et perpetua voluntas jus suum cuique tribuere” (“La giustizia è la ferma e costante volontà di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto”) – che, come è evidente ribadiva il concetto aristotelico di “giustizia distributiva”, fu articolata, dai medioevali, distinguendo, come detto, tra giustizia distributiva e giustizia commutativa. Ma dietro tali trasformazioni concettuali agiva una eredità più alta di quella pagana ed alla quale qualsiasi distinzione, che nell’ambito di questa si poteva enucleare, restava subordinata inderogabilmente, a differenza di quanto accadrà in età moderna dove, ad esempio, tra equità ed utile non sussisterà più alcun nesso inteso a porre limiti etici all’autorefenzialità egoistica, al peccato. Nella Bibbia, infatti, il termine “giustizia” ha un significato diverso, molto più ampio. Nella Bibbia la parola “giustizia” evidenzia qualcosa di più di quanto significato nel diritto romano. Giustizia, nel contesto biblico, assume il significato di rettitudine morale, di conformità alla volontà di Dio: significa “essere amico di Dio”. In questo senso viene usata la parola “giusto” applicandola alla santità. La parola “giustificazione”, che ricorre spesso nelle lettere di San Paolo, sta ad indicare esattamente la portata più alta del concetto biblico di “giustizia”. La parola “giustificazione” nel contesto biblico – lungi da ridursi al mero significato di “scusarsi” o “discolparsi” – assume il pregnante significato di “farsi giusto” che equivale a “santificarsi”, “diventare santo”, moralmente retto, amico di Dio. Quindi la giustizia in senso biblico si pone su un piano più alto e comprensivo, tale da poter costituire altresì un “metro di giudizio” rispetto alla giustizia umana, sia essa quella legale, sia essa quella distributiva, sia essa quella commutativa. Dunque, anche la “lex mercatoria” ossia, per dirla in termini moderni, la legge della domanda e dell’offerta può essere in sé “ingiusta”: ed, infatti, in concreto lo è spesso, dal momento che la perfetta eguaglianza dei contraenti è solo una astrazione, mai verificatasi nella realtà, sicché nel rapporto di scambio c’è sempre diseguaglianza tra le due parti di cui è immancabilmente dominante sull’altra. Diseguaglianza, pertanto, non paritaria ossia non posta sullo stesso piano, che significherebbe solo diversità se non addirittura complementarietà, ma posta su dislivelli di forza e di possibilità non sempre dovuti a diversità di capacità, quindi a meriti naturali, ma sovente a maggiore attitudine concorrenziale, a furbizia, a speculazione, a circostanze, anche sociali (ad esempio, di nascita ed ereditarie, come nel caso di chi eredita una impresa già avviata rispetto a chi deve costruirla da zero), favorevoli o sfavorevoli e via dicendo. Di qui nasce un conflitto tra giustizia in senso biblico, equitas, giustizia distributiva e giustizia commutativa che solo l’Autorità politica, se però anch’essa come affermava Agostino d’Ippona si sottopone spontaneamente alla Giustizia, può perlomeno parzialmente comporre, a seconda delle epoche e delle date circostanze storiche e sociali.
2) Per tali elaborazioni grafiche dei dati econometrici rinviamo al saggio “Inflazione e moneta endogena” disponibile su www.keynesblog.com.