Il Natale, la Croce e la diversità nella creazione

A volte non ci si pensa ma il Natale di Nostro Signore Gesù Cristo è nient’altro che l’antefatto della Croce della Sua Passione. Nel disegno di Dio, secondo la Rivelazione, l’Incarnazione vi sarebbe stata anche senza il peccato dell’uomo, in quanto essa è il Centro ed il Fine della Creazione. Anzi il “peccato di Lucifero”, secondo una tradizione che in diversa forma si ritrova anche nell’ebraismo antico e nell’islam, altro non fu che il rifiuto di adorare il Verbo Incarnato. Lucifero, il più vicino degli Arcangeli a Dio, preso dall’orgoglio che si insinuò in lui a causa di quella posizione che non comprese come dono ma concepì come diritto, rifiutò l’idea che Dio volesse assumere la fragilità della carne creata, entrare nel mondo, sporcarsi con la materia. In Lucifero c’era un disprezzo per la creazione materiale che invece il Creatore, al termine della Sua Opera Magna, benedisse come buona (Genesi 1,31). Persino la tentazione dell’Adamo va letta in questa ottica ossia come un atto di derisione di Dio quasi a volerGli dimostrare di che vile pasta era fatta quella creatura destinata a ricevere nella sua natura l’Incarnazione del Verbo.

Quindi, nel disegno originario di Dio, avremmo avuto un Natale senza la successiva Passione. Per la colpa dei Progenitori abbiamo, ora, un Natale con la prospettiva della Passione. Quest’ultima è il Sublime Sacrificio d’Amore del Creatore che, sapendo impossibile per la creatura ripagare la colpa originaria – una colpa spirituale, l’aver ceduto alla tentazione, alla übris, dell’auto-deificazione (“eritis sicut Dei”, Genesi 3,5), che la natura ferita dell’uomo mai avrebbe potuto, con le sue sole forze, rimediare –, l’ha aggiunta all’Incarnazione prevista ab origine.

L’intera vicenda umana, anche il pensiero, si svolge intorno a ciò che il “mito primordiale” (mito significa “storia sacra”, “annuncio”, quindi Parola Divina, come osservava Attilio Mordini) ci ha rivelato e tramandato. Non a caso a fondo del pensare umano ritorna di continuo l’antico problema se la differenziazione nel contesto dell’armonia cosmica sia un fatto buono o invece se si tratta di una “caduta”. Nel Genesi la risposta è che la creazione è cosa buona e quindi che il processo di differenziazione – la separazione delle acque di sopra da quelle di sotto, della luce e del buio, del maschile e del femminile etc. – è un evento positivo. Questo nell’ottica di un Amore che vuole comunicare Sé stesso vocando le creature ex nihilo.

In altre culture la risposta è diversa nel senso che la differenziazione è vista come negativa, una “caduta”, una “frammentazione” del Monos indifferenziato originario, diverso dall’Uno dei filosofi accostabile al Dio-Principio della Tradizione. Nell’ottica della frammentazione bisogna abolire la realtà differenziata per ristabilire il Monos indifferenziato. La prima differenza da negare è, forse non a caso, quella tra uomo e donna, maschile e femminile, la differenza di genere. Il cristiano, qui, inevitabilmente sente l’eco della primordiale tentazione, “eritis sicut Dei”, in quanto, nella prospettiva monistica, la (auto)divinizzazione sta proprio nel misconoscimento della differenziazione fondata sull’Armonia dell’Amore, in favore dell’assunzione “prometeica” da parte del sé singolo della Potenza del Tutto Indistinto, o perlomeno, nel caso della spiritualità potnianica dei miti della Grande Madre, dell’assorbimento del singolo nel Tutto indifferenziato.

Talvolta in culture che non conoscono un Amore creatore, e che crea comunicandosi e differenziando ciò che crea, possiamo riscontrare una esigenza, una intuizione, di questo Amore. Intuizione, magari confusa, ma che in qualche modo rappresenta anche una propaideia alla Rivelazione del Dio che, come dice san Giovanni, è Amore e dona vita per amore. Un Dio presentito ma non ancora conosciuto.

Il grande Ateniese, ad esempio, sentì senza dubbio il conflitto tra la sua cultura, che gli imponeva di pensare il mondo come eterno, nella sostanza unitario oltre le differenze (da qui la svalutazione del reale a favore dell’ideale), e l’esigenza di un Amore creatore che egli avvertiva nel suo cuore. Tentò così di fare spazio a questa esigenza ricorrendo all’ipotesi di un “Demiurgo” al quale affidava la responsabilità della differenziazione del Monos indifferenziato onde dare vita alle forme del mondo. Per questo, in fin dei conti, il Demiurgo assolveva ad un ruolo positivo perché dava esistenza agli enti in una differenziazione della monade primordiale che diventava, per necessità, un fatto in sé buono, benché comportasse anche la prigionia della scintilla divina nella materia.

Questa valutazione di bontà della “manifestazione” in Platone è in controtendenza al contesto generale del suo pensiero che guarda negativamente al reale manifestato come ad un’ombra dell’Ideale non manifestato, un riflesso da cui liberarsi uscendo dalla caverna. Furono intuizioni come quella suddetta che consentirono ai Padri della Chiesa di parlare di un Plato christianus, diverso dal Plato a-christianus, e quindi di vedere nelle culture altrui, quella ellenistica in questo caso, i “semina Verbi”. E di innestare la Rivelazione sul terreno precristiano anziché fare tabula rasa di quest’ultimo. Perché, appunto, il Dio che si Incarna, in vista della Croce, lo fa non per condannare il mondo ma per salvarlo recuperando anche ciò che buono in origine era andato disperso a causa del peccato.

Luigi Copertino (dalla pagina Facebook dell’autore)