IL GENESI O DELLA RIVELAZIONE ANTI-GNOSTICA. di Luigi Copertino

IL GENESI O DELLA RIVELAZIONE ANTI-GNOSTICA. di Luigi Copertino

dic 12, 2018

 

Accade in taluni che l’approccio alla spiritualità sia mediato dal filtro distorcente del monismo che porta a ritenere l’essere la conseguenza di una caduta primordiale nell’impurità grossolana della materia. Riemerge in tale approccio il retaggio, l’eco, di antiche posizioni proprie di una gnosi, secondo la Rivelazione, non corretta. La definiamo “gnosi non corretta” perché oppositiva alla vera gnosi ossia alla Sapienza stessa che proviene dalla Rivelazione. Nella prospettiva della Rivelazione esistono infatti due gnosi, due conoscenze sapienziali, una autentica, perché divinamente sancita, l’altra non autentica, spuria. Anzi, per quest’ultima, potrebbe persino parlarsi di una falsificazione dell’unica ed autentica gnosi, quella rivelata. Si tratta, pertanto, di una scelta del cuore tra il Vero e la sua falsificazione.

Laddove si aderisce alla versione falsificata della gnosi sapienziale, rivelata nella sua integrale purezza all’Origine, diventa impossibile spiegare come mai proprio ciò che nella prospettiva falsificata della gnosi è evento negativo, ossia la separazione, la frammentazione dell’Uno Monistico, più che Monoteistico, è invece esaltato quale Opera Magna et Bona  nel Genesi. Infatti, nel primo Libro biblico ritroviamo le stesse immagini, che d’altro canto appartengono a tutte le antiche culture “pagane”, proprie dei coevi miti extrabiblici, sumerici o babilonesi, ma con un senso, un significato, diametralmente diverso.

Sembra proprio che alle origini del rapporto dell’umanità con il Sacro ci sia lo stesso tema, lo stesso “mito”, trasmesso con immagini ad un tempo diverse nella forma ma simili nel contenuto. Sotto questo profilo, quello delle immagini, la Rivelazione biblica non si distanzia affatto dal resto del panorama religioso dell’umanità. Si pensi, ad esempio, alla figura di Noé ed al racconto del Diluvio Universale ma anche al fratricidio primordiale, Caino ed Abele, che sono temi ricorrenti in tutte le culture mitiche dell’umanità più antica.

Quel che invece nel contesto biblico cambia e rende la Rivelazione – la Rivelazione abramica, perché in Essa è ricompreso, insieme ad ebraismo e Cristianesimo, anche l’islam – un unicum è il messaggio contenuto nelle immagini e nei simboli della narrazione primordiale. Se il tema “mitico” è lo stesso, per quanto riguarda immagini e simboli, assolutamente diversa è l’esegesi, il significato proposto dalla Rivelazione per comprendere il senso vero della narrazione.

La versione che abbiamo chiamato falsificata della gnosi originaria considera la creazione, spesso in questo contesto denominata “manifestazione”, l’esito di un processo involutivo, di un processo di decadenza ontologica, per emanazione, causato dalla diversificazione degli esseri nel seno dell’Uno Principiale che è senza distinzioni in quanto contenente, in potenza, tutte le distinzioni. Le teogonie e le cosmogonie antiche, senza eccezioni, spiegano in questi termini l’esistenza del mondo. Che, quindi, per essere esso il risultato della frammentazione del Tutto primordiale, assume inevitabilmente un carattere di negatività, di decadenza, di impurità, di malvagità.

Nella Rivelazione biblica, nel Genesi, invece, Dio – il cui Spirito aleggia sulle acque ossia sulla materia primordiale evocata dal nulla – crea separando il cielo e la terra, la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, le acque di sopra da quelle di sotto. Non diversamente da quanto è raccontato nei miti extrabiblici, la creazione avviene per separazione ossia per frammentazione ma, qui, nel Genesi, il senso di tale frammentazione è del tutto positivo. La terra informe e deserta (tohû e bohû in ebraico) come pure l’abisso ricoperto dalle tenebre indicano, parimenti alle acque, la sostanza primordiale che Dio evoca ex nihilo per essere la trama, insieme sottile e materiale – nell’uomo psichica e corporea –, sulla quale il Creatore opera (un dato oggi confermato dalla scienza che ha scoperto essere l’universo una trama di energia condensata in materia).

Dio in Genesi crea frammentando l’indistinto ossia distinguendo gli esseri ovvero ordinando, secondo il suo disegno intelligente, l’abisso informe tratto dal nulla. Che la sostanza informe primordiale è creata dal nulla viene testimoniato, nel Genesi, dal termine usato per indicare l’operare creatore di Dio. Si tratta della parola ebraica “bara’” – per l’attività produttrice degli uomini sono infatti usati altri termini – il cui significato è quello di atto creatore senza cause seconde, ossia immanenti e naturali, precedenti. In tal modo è introdotta, sin dal primo Libro biblico, l’idea di creazione ex nihilo che sarà poi ripresa e chiarificata in Libri successivi, di età già ellenistica, ed in particolare in 2 Mac 7,28, per giungere alla definitiva formulazione dell’incipit del Vangelo di Giovanni.

A questo punto, però, possiamo finalmente comprendere la differenza che rende il Genesi un unicum nonostante in esso ritroviamo le stesse immagini dei miti “pagani” e che, in termini spirituali, di fede, rende ragione della sussistenza di una Sapienza Primordiale offuscata da un tentativo ofidico di falsificazione.

Laddove nei miti, approcciati secondo l’esegesi falsificata della gnosi originaria, la “manifestazione”, quale esito del dinamismo emanativo ed involutivo, è caduta, prigione, illusione, nel Genesi, alla fine del processo di separazione e frammentazione dell’informe, nel quale si sostanzia la creazione stessa sotto l’azione creatrice Divina, viene, al contrario, proclamata la bontà della distinzione ontologica delle creature della quale Dio, nel settimo giorno, quello del riposo, contemplando il suo operato, si compiace: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen. 1,31).

Chi è attento ai significati metafisici del racconto del Genesi, non potrà non toccare con mano che in esso è chiaramente rivelata l’assoluta distanza tra la vera e la falsa gnosi.

Mentre il Genesi esalta come buona la creazione ossia la distinzione ontologica degli esseri, nella prospettiva della gnosi spuria, ossia nella prospettiva dell’interpretazione falsificata delle mitologie antiche, il modo di creare del Dio biblico, per separazione dell’indistinto, è esattamente il modo di operare del “demiurgo”, che è una sorta di “dio minore”, turbatore dell’immota quiete del Nulla-Tutto, il quale è causa dell’origine degli esseri progressivamente degradanti dal Monos indifferenziato.

Si pensi, ad esempio, al demiurgo platonico, figura necessaria nella filosofia sapienziale del grande ateniese, che non conosceva la Rivelazione biblica e quindi l’idea della creazione ex nihilo, per spiegare l’esistenza del mondo.

In ambito extrabiblico, ed in età pagana, l’iniziato ai misteri gnostici doveva restaurare l’Indistinzione Primordiale annichilendo in sé stesso l’illusione della realtà che non sarebbe oggettiva, ossia donata per Amore, ma soggettiva ovvero mera alienazione, proiezione mentale, dell’io, inteso come scintilla divina decaduta dal Monos nell’oscura carne del corpo e che, dimentica della sua connaturata auto-divinità, deve essere, appunto, iniziaticamente risvegliato attraverso appositi rituali.

Non a caso, in particolare nei primi secoli cristiani, lo gnosticismo ha conteso il passo al Cristianesimo negando che il Dio biblico, veterotestamentario, fosse il Padre di Cristo. Per Marcione, ad esempio, il Dio biblico è il “malvagio demiurgo”, il “dio minore” perturbatore della Quiete Insondabile degli Inizi, non il Padre del Verbo Incarnato. Questi, il Padre, sarebbe invece l’Uno Cosmico, il Vuoto Primordiale, l’Amore Abissale che tutto riassorbe in Sé, nell’indifferenziata quiete del Nulla e del Tutto, del Monos Principiale contenente in potenza tutti gli esseri. Di questo Uno Principiale Cristo sarebbe soltanto un Eone venuto per annichilire il mondo materiale e salvare gli eletti, gli iniziati alla gnosi e solo essi.

E’ evidente che siamo di fronte a due diverse “proposte” tra loro incompatibili. Perché o è vera quella Biblica ed allora l’altra è falsa oppure il contrario. O il Dio biblico è il Creatore del cielo e della terra e di tutti gli esseri, per amore dell’uomo, sua immagine, nell’Amore Co-Eterno del Figlio, Verbo Co-Divino mediante il quale Egli crea, oppure il Dio biblico è il “dio minore”, il “malvagio demiurgo” che la gnosi ofidica additò ai Progenitori per tentarli all’empietà, alla protervia, prometeica. Tertium non datur.

E tuttavia – sia detto onde evitare rigorismi fondamentalisti dimentichi dell’insegnamento dei Padri della Chiesa a proposito del Semina Verbi nascosti nelle culture pagane e nei loro miti, se ben intesi  – il cristiano deve far tesoro di quanto trova di santo, e quindi segno della Presenza Reale del Verbo, nelle espressioni della religiosità umana, nella tensione allo Spirituale espressa dall’umanità lungo i secoli.

Un cristiano, un cattolico, grande poeta e profondo conoscitore dei miti pagani è stato John Ronald Reuel Tolkien. Egli ha saputo ricercare nelle antiche mitologie il senso buono ed autentico della Vera Gnosi, della Vera Sapienza del Verbum Dei, e su tale base stendere una grandiosa epopea la quale – dalla narrazione primordiale di Iluvatar che crea per armonia musicale mediata dagli angeli-ainur, e disturbata da Melkor l’angelo ribelle, che per superbia pretende di non dipendere dal Creatore, fino allo scontro escatologico finale nella battaglia della Terra di Mezzo – trasuda di vero vino biblico in otri mitici.

Nella sua epopea, lo scopo della lotta ingaggiata dai piccoli Hobbit e dai loro amici ed alleati contro Sauron, l’Oscuro Signore, è esattamente la salvezza del mondo, della creazione, non la sua dissoluzione nell’Uno Cosmico, nell’Abisso informe ricoperto dalle tenebre. Per questo, non a caso, Tolkien mette in bocca, in uno dei momenti più drammatici dell’epopea, quando sembra che le forze del male stiano prevalendo, ad uno dei suoi personaggi positivi questa significativa, e profondamente biblica, affermazione per spiegare le ragioni più vere della lotta nella quale essi sono impegnati: «perché c’è del buono in questo mondo».

Se, dunque, il Genesi, dietro l’uso delle stesse immagini dei coevi miti extrabiblici, offre una visione positiva, persino ottimista, del mondo, resta da comprendere da dove viene quella che abbiamo chiamato gnosi non corretta. Senza approfondire la questione, molto complessa, sia qui detto, in sintesi, che questa gnosi spuria è in sostanza una metafisica deontologica, una metafisica del “Ni-Ente”. Quindi una metafisica del nulla, del nichilismo.

Il più noto “metafisico nichilista” contemporaneo è stato Martin Heidegger. Partito, come Umberto Eco, dal rifiuto di un malinteso tomismo, scaduto in irritante razionalismo per il cattivo servizio ad esso fatto da certe pedanti scolastiche incapaci di cogliere la radice tradizionale della metafisica dell’essere, Heidegger (“Essere e Tempo”) arrivò alla negazione dell’essere trascendente in favore di un “esserci” inteso come caduta, nella storia, da un nulla apofatico informe, quiete assoluta, che proprio l’essere, perturbatore, ha gettato nel dramma del tempo, del divenire, costringendo lo spirito alla tragedia esistenziale della sofferenza continua.

Il mondo, per Heidegger, è “gettità” dello spirito. In questa prospettiva, per tornare alla quiete originaria, è necessario negare il mondo, negare la storia, negare il tempo, negare l’essere, come malefici, per approdare sulle sponde del ni-ente. In Heidegger, l’Essere, e quindi la sua scienza ovvero l’ontologia, è pura maledizione. Dati questi presupposti, la riscoperta di una religiosità neo-pagana, come quella nazionalsocialista, fu accolta da Heidegger, che aderì al movimento ed al regime, come necessaria perché egli riteneva che soltanto nel ritorno alla mitologia – al “mito” non certo inteso mordinianamente quale scrigno di Vera Sapienza perduta o come modalità di “inseminazione” del Verbo, secondo la teologia dei “Semina Verbi” di patristica memoria – fosse possibile l’annientamento della ragione, in favore dell’Oltre-Essere, del Nulla Apofatico, e quindi la rivolta contro il dominio della Tecnica, la quale, a suo giudizio a causa della metafisica dell’essere, ha prevalso in Occidente. Emanuele Severino è stato, in Italia, il più noto continuatore dell’opera heideggeriana, partendo dalla riflessione sull’essere ed il divenire in Parmenide.

Quando Heidegger, in un famoso articolo, lamentava che “ormai solo un dio può salvarci”, non si riferiva certo al Dio biblico ma, al contrario, echeggiando posizioni che furono già di Marcione, stava inneggiando ad una rivolta contro la concezione ebraica, quindi abramica, di Dio, in nome della “tradizione classica”. Che in Heidegger sta per “tradizione pagana”. Ma, in verità, anch’essa, anche la “tradizione classica”, nell’esegesi heideggeriana viene sostanzialmente storpiata per prostituirla al suo esistenzialismo nichilista. L’adesione all’antisemitismo nazista, alla luce di questo percorso, divenne per il filosofo tedesco un passo consequenziale ed anche inevitabile.

Tuttavia, nel panorama novecentesco, non è stato solo Heidegger a farsi promotore di una metafisica del nulla. Come ha spiegato Piero di Vona, in un saggio pubblicato per i tipi de Il Cerchio nel 1998 (“René Guénon contro l’Occidente”), anche René Guénon si è posto su questa linea.

L’esoterista francese giunge alle stesse conclusioni anti-ontologiche di Heidegger credendo di richiamarsi alla Sapienza Tradizionale attraverso l’Oriente incautamente opposto all’Occidente. Quest’ultimo nel suo pensiero è inteso quale luogo del razionalismo e della tecnica per il presunto venir meno della metafisica la cui responsabilità egli imputa al Cristianesimo. Guénon è chiaro nella responsabilizzazione del Cristianesimo, perlomeno di quello latino, dunque cattolico, per la deriva antimetafisica dell’Occidente.

Si illudono, pertanto, sul suo conto i cattolici guenoniani, i quali sembrano non avvedersi che le cause della decadenza occidentale non sono nel presunto offuscamento metafisico del Cattolicesimo – il francese, nonostante che si vagheggi di una sua corrispondenza con padre Pio da Pietrelcina e nonostante la sua collaborazione con la rivista “Regnabit” di Charbonneau Lassay, il quale non a caso lo allontanò quasi subito, non ha mai compreso la mistica cattolica, né, del resto, la mistica in generale – ma piuttosto nella riemersione umanistico-luterana dell’ermetismo e del neoplatonismo, forieri di gnosi spuria, che ha rappresentato, a partire dal XV secolo, il punto di rottura con la Vera Sapienza veicolata dalla Chiesa cattolica.

Come ha messo a nudo nel citato saggio Piero di Vona, per Guénon il nocciolo dell’Occidente antimetafisico è nell’ontologia, la “scienza dell’ente”. L’ontologia è per Guénon il tradimento della metafisica classica la quale, a suo giudizio, sarebbe fondata sull’esclusivo apofatismo del Divino in corrispondenza con le correnti spirituali orientali. E’ nota la posizione assunta da Guénon se non contraria certo “snobistica” verso la Rivelazione abramica nel cui ambito egli salva, ma perché, a suo giudizio, retaggio esoterico della Tradizione Primordiale, soltanto il sufismo dell’islam sciita.

La critica di Guénon all’ontologia è una critica analoga a quella di Heidegger. Suppore che Dio sia Essere significa introdurre in Dio una determinazione che il Divino, di per sé indeterminato, Nulla Apofatico, ossia non ontico, tradisce. In altri termini, per Guénon Dio non può essere Persona, benché Persona Infinita o Infinito Personale. Per Guénon l’aspetto personale del Principio Divino è già una degradazione dall’Assoluto Incondizionato, non ne è affatto l’Essenza “coincidente” con la Natura stessa del Principio. Con il che, è evidente, e ci dispiace per i cristiani guenoniani, Guénon si pone del tutto al di fuori della Rivelazione abramica, la quale infatti per lui è piuttosto exoterica che esoterica. Laddove, al contrario, Cristo, che pur parlava per parabole affinché udisse chi avesse orecchi per udire, ammonisce: « … non vi è nulla di nascosta che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre voi ripetetelo nella luce e quello che ascoltate all’orecchio gridatelo dai tetti» (Mt. 10, 26-33).

Per Guénon l’ontologia sarebbe infondata perché non si può pretendere di esaurire lo studio dell’essere sul solo piano teorico, incapace di indicare effettive vie di realizzazione. Secondo Guénon restare sul piano della teoria fa perdere l’“intuizione intellettuale”, la capacità di cogliere il trascendente. Ora, però, il trascendente di Guénon è soltanto apofatico, non anche catafatico, e consiste nella auto-realizzazione di quanto sta al di là e al di sopra dell’Essere ossia nell’auto-realizzare il Vuoto, il Non-Essere.

Il punto, allegramente sorvolato tanto da Guénon che dal suo esegeta Piero di Vona, è che il Dio abramico è Dio Vivente e quindi, in quanto tale, non è gnosticamente una auto-realizzazione, una auto-costruzione, dell’uomo. Il Dio di Abramo è il Dio nel Quale l’uomo vive, si muove, agisce, e che gli si rivela non potendo l’uomo accedere a Lui se Lui non fa il primo passo svelandosi.

L’uomo, persa l’unione primordiale con Dio, non ha fatto altro, nel corso dei secoli, che autocostruirsi immagini del Dio perduto – anche le ideologie moderne altro non sono che autocostruzioni, sebbene in forma laicizzata, di idoli al posto di Dio – ma senza poter effettivamente riattingere a Colui che ha perduto. Il Dio abramico resta infinito, di per sé inaccessibile, ma – ecco il punto focale e nodale della questione ignorato da Guénon, che non a caso oppone “iniziazione” a “mistica”! – si fa kenoticamente accessibile all’uomo, dunque anche alla ragione, la quale pertanto, se evita pretese orgogliose di cosificazione del Mistero, può in parte comprendere il Trascendente e quindi aprire il cuore umano alla discesa dello Spirito, del Fuoco d’Amore, della Luce Increata in lui.

Il Dio Vivente risponde alla domanda di Mosé – “agli israeliti chi dirò mi manda loro?” – ad un tempo occultando e svelando Sé Stesso. L’“Io Sono Colui che Sono” (Es. 3,14) suona insieme apofatico e catafatico, per rendere possibile all’uomo di accedere all’Infinito Personale ammonendolo al contempo di non tentare di costringerLo in, di non tentare di ridurLo a, nessuna delle cose create. Questo riduzionismo, infatti, è idolatria e bestemmia, perché Egli oltrepassa, infinitamente, tutte le sue creature.

Ma se Lui è l’“Io Sono” – che Cristo dirà di Sé in Gv. 8,58 – ossia se Dio è Essere Infinito, in quanto Mistero impenetrabile che tuttavia si rende avvicinabile dall’uomo, tanto per via di ragione quanto, soprattutto, per la via mistica del Cuore, allora Dio non è il Ni-Ente e l’Ontologia non solo è possibile e legittima ma è anche radicata nel Mistero Divino. Ne segue che il mondo, la creazione, non è “gettità”, non è “caduta”, non è prigione dello spirito nella grossolanità della materia, della carne impura. La carne, al contrario, impura non è essendo stata assunta dal Verbo ed ipostaticamente unita alla Natura Divina.

Ci riflettano i cristiani guenoniani

Luigi Copertino

 

da www.domus_europa.eu