GRECIA ALL’ULTIMO ATTO NELLA SLEALTA’ DELLA GERMANIA

Stiamo assistendo, in questi giorni, a quello che ha tutta l’aria di essere l’ultimo atto della tragedia euro-ellenica. La chiusura miope dell’Eurogermania al salvataggio della Grecia costringerà molto probabilmente Atene al default e getterà l’intera Unione Europea in un terreno ignoto, dimostrando che essa è soltanto una grande costruzione bancario-contabile senza alcuna anima politica che vada oltre l’interesse nazionale degli Stati più forti, in primis della Germania ordoliberale.

Nel 2009 la Grecia poteva essere salvata con qualche “spicciolo”, a basso interesse, rispetto ai miliardi fino ad oggi prestati ad una Atene sempre più incapace di ripagare tali prestiti perché la cura di austerità, imposta dai creditori, ha strozzato e distrutto la sua già fragile economia. Nel 2009 erano le banche, francesi e tedesche, ad essere esposte con Atene. Gli speculatori che dirigevano quelle banche, grazie alla liberalizzazione dei capitali finanziari ottenuta nel decennio precedente dai governi occidentali (ad iniziare dall’Amministrazione Clinton che abrogò la Glass-Steagall Act), pur sapendo che la Grecia era un Paese economicamente fragile e quindi potenzialmente non in grado di onorare prestiti eccessivi, si esposero a gogò con Atene. L’introduzione dell’euro, infatti, ha permesso agli Stati aderenti alla moneta unica di indebitarsi a tassi più bassi ed ha consentito alle banche – era l’epoca delle vacche grasse – di contare su introiti sicuri. In tal modo i profitti da interesse, che aumentavano mese dopo mese, erano assicurati da un mercato nel quale nessuno, in un clima di folle euforia, si poneva il problema della solvibilità del debitore.

I finanzieri francesi e tedeschi si sono, in sostanza, comportati come i loro colleghi americani. Questi ultimi, con i mutui sub prime, si erano esposti senza criterio prestando oltre le possibilità dei mutuatari, reclutati persino tra i barboni delle periferie immonde delle grandi città americane. Tanto poi il rischio veniva impacchettato, insieme ai mutui contratti senza alcun criterio e senza alcun controllo sulla moralità e legittimità dell’attività creditizia, in titoli da vendere, fraudolosamente, sulle borse mondiali in modo da scaricare l’altissimo rischio, sottostante ai subprime, sui gonzi che compravano dalle banche quei pacchetti avvelenati. Nell’intenzione degli speculatori le banche sarebbero rientrate, con tanto di interessi, dall’esposizione rischiosa, mentre il “parco buoi” degli acquirenti sarebbe restato con il cerino in mano.

Ma qualcosa non funzionò perché le grandi banche d’affari transnazionali si accorsero che avevano giocato a frodarsi tra loro. Si accorsero, in altri termini, che quei pacchetti avvelenati, i subprime, erano in mole ingentissima nella loro pancia. I bilanci delle grandi banche d’affari, pertanto, si scoprirono falsi e per di più pieni di crediti inesigibili ossia di buchi e perdite che avrebbero portato al fallimento. Infatti Lehman Brothers Holdings Inc., una delle più immonde criminali, fu lasciata, liberisticamente, fallire. Poi, però, si comprese che l’effetto domino avrebbe travolto l’intero sistema bancario mondiale ed allora i governi si diedero da fare per monetizzare le banche caricandone il costo sul pubblico erario, ossia aumentando il debito pubblico.

Vi era, tuttavia, un’altra possibile soluzione. Si sarebbe potuto salvare, mediante garanzie pubbliche, i depositi dei clienti, dei correntisti, insomma tutte le attività bancarie connesse con il sostegno all’economia reale, alle imprese ed alle famiglie, lasciando fallire le banche per le loro immonde attività speculatrici. Ma fare questo avrebbe significato nazionalizzare le banche – come fu fatto in un solo caso nel 2008, in Inghilterra, con la Northern Bank – o comunque sottoporle ad un rigido e ferreo controllo statuale ed interstatuale. Una soluzione, questa, vietata dal dogma liberista. Visto il dogmatico divieto si è, allora, proceduto al salvataggio degli speculatori a carico dei bilanci pubblici incolpando gli Stati, ossia la spesa pubblica, della responsabilità della crisi globale esplosa per causa delle banche.

Complice il sistema mediatico, sempre prono nella propaganda anti-pubblico, anti-stato, con la scusa degli sprechi dei politici (che pure, sia chiaro, sprecano prestandosi, utili idioti, alla bisogna mediatica) i popoli sono stati ingannati attirandone la rabbia sui ladri di galline, i politici, ed allontanando in tal modo i riflettori dai veri responsabili, gli speculatori globali. Uno tra i più zelanti in quest’opera di disorientamento dell’opinione pubblica è, ad esempio, Massimo Giletti con la sua trasmissione domenicale su Rai Uno.

La scelta di salvare le banche sulla pelle dei popoli, come ha lamentato anche Papa Bergoglio di recente, aprì la via per la quale il contagio si è trasmesso dalle banche speculatrici ai bilanci pubblici. La crisi finanziaria, in Europa, si trasformò così, a partire dal 2009, in “crisi dei debiti sovrani”, con tanto di fibrillazione degli spread e rischio default per i Paesi dell’Europa del sud, il cui debito pubblico – che era esploso a partire dagli anni ’80 quando in tutti i Paesi occidentali si accettò sconsideratamente l’indipendenza delle banche centrali non più tenute a monetizzare i rispettivi Stati – tuttavia, a partire dall’introduzione dell’euro nel 2002, era in, seppur graduale, discesa.

Il contagio si concretizzò con il panico che, mentre negli Stati Uniti la crisi impazzava, si impadronì del management delle grandi banche europee, ed in particolare di quelle francesi e tedesche, ora timoroso che l’esposizione verso gli Stati dell’Europa del sud si rivelasse, di fatto, per quel che era sin dall’inizio ossia inesigibile. Che si trattasse di una esposizione a rischio il management bancario lo sapeva benissimo sin dall’origine. Non a caso la Goldman Sachs ha aiutato il governo conservatore di Atene a falsificare il bilancio greco in modo da truccarlo alla meglio per far entrare la Grecia nell’euroclub.

In particolare una grande responsabilità, in tutto questo, deve attribuirsi al governo tedesco. All’epoca del cancellierato di Helmut Kohl, gli industriali tedeschi fecero di tutto, contro il parere di molti economisti, per convincere il loro governo ad aprire agli europei “poveri” del sud le porte di un’Eurolandia bancocentrica, progettata secondo il modello ordoliberale tedesco che prevede bilancio in pareggio, divieto di politiche keynesiane di investimento a deficit, indipendenza della banca centrale e divieto per essa di monetizzare gli Stati, ed altre ricette liberali. Gli industriali ed il governo tedesco erano perfettamente consapevoli del rischio di ammettere Paesi come la Grecia, il Portogallo e la stessa Spagna, ma, in tal modo, nessuno avrebbe potuto mettere in discussione l’adesione dell’Italia, che tra i Paesi euromediterranei era quello più forte e ben strutturato economicamente anche se con un alto debito pubblico. La nostra industria manifatturiera faceva strenua concorrenza a quella tedesca, sicché legare l’Italia alla moneta unica significava privarla del controllo sul cambio monetario a favore delle sue esportazioni.

Se, nel 2009, quando il panico si impadronì degli speculatori franco-tedeschi, la Grecia non avesse rimborsato o avesse in quel momento fatto default sarebbero state le banche tedesche e francesi a pagarne, come era giusto, le conseguenze. Ma anche nell’eurozona, di per sé oltretutto priva di qualsiasi struttura politica federale o confederale, alla soluzione – quella attuata negli anni ’30 in America, in Italia, in Germania, ma anche in Francia ed Inghilterra – della nazionalizzazione o perlomeno della pubblicizzazione delle banche per salvare i depositi dei correntisti e il credito all’economia reale, lasciando agli speculatori il buco da loro creato con il proprio azzardo speculativo, si preferì, in omaggio al dogma liberista che vieta le nazionalizzazioni o i controlli pubblici troppo stringenti sull’attività finanziaria e sui mercati, la via del salvataggio degli speculatori a carico dei bilanci pubblici.

La scelta fu pubblicamente annunciata, nell’autunno 2011, dalla Merkel e da Sarkozy che, mentre ridacchiavano di Berlusconi prossimo alla defenestrazione per essere sostituito da Monti (il più “tedesco” degli italiani), dichiararono, insieme, che: “Anche gli Stati possono fallire!”. Tale pubblica dichiarazione fu il segnale di avvio, di lì a poco, dell’istituzionalizzazione del Mes o Esm, che dir si voglia, meglio noto come “Fondo Salva Stati”. Che, però, non è un fondo salva Stati ma un “Fondo Salva Banche”. Infatti mediante tale strumento si pubblicizzarono, a carico dei bilanci pubblici degli Stati aderenti all’euro, le esposizioni delle banche europee verso gli Stati. A beneficiarne furono soprattutto le banche francesi e tedesche, quelle più esposte verso gli Stati a rischio di insolvenza, in primis la Grecia.

E’ vero che Germania e Francia sono i maggiori azionisti di tale Fondo ma questo non toglie che l’esposizione bancaria, la quale prima non ricadeva sui cittadini francesi e tedeschi in quanto tali, ossia come cittadini (il problema poteva riguardarli in quanto utenti delle loro banche ma non in quanto cittadini), era adesso loro addossato senza che essi se ne rendessero conto, anzi contenti, come tutti gli altri gabbati europei, che finalmente, grazie alla crisi, ci si fosse avviati verso una maggiore integrazione nell’auspicio finale di una futura integrazione anche politica.

L’Italia, già indebitata fino al collo ed alle prese tra il 2011 ed il 2012 con i suoi problemi di rischio default, ha dovuto contribuire al Fondo con circa 40 miliardi. Ora, tanto per l’Italia che per gli altri Stati, la contribuzione al Fondo Salva Stati ha significato, in assenza di sovranità monetaria, tagliare indecorosamente la spesa pubblica (non i soli sprechi, come la propaganda ha fatto intendere, perché al contrario le statistiche dimostrano che in questi anni di crisi le spese sociali e gli investimenti pubblici, quindi la spesa pubblica produttiva, sono crollati rovinosamente) oppure aumentare altrettanto indecorosamente la tassazione. In certi casi entrambe le cose.

Il mercato che, di per sé, vive di spesa pubblica è, conseguentemente, entrato in ulteriore recessione. La spesa pubblica, infatti, è strutturale all’economia di mercato. Essa alimenta in continuazione il mercato e quando, come nell’UE che ha imposto l’austerity, essa viene tagliata ne consegue la recessione. L’austerità praticata dall’Eurogermania – smentendo i teorici neoliberisti dell’“austerità espansiva”, tanto è vero che il maggior teorico di tale teoria, Oliver Blanchard, economista capo del FMI, in un impeto di onestà intellettuale, l’ha rinnegata – ha ulteriormente aggravato la crisi dell’eurozona. Solo l’intervento della BCE a guida Mario Draghi, il Quantitative easing, ha consentito finora di salvare l’euro ma imponendo agli Stati alte condizionalità in termini di ulteriori tagli alle spese, come hanno preteso i falchi della Bundesbank che siedono nel board della stessa Bce.

Con il fondo salva Stati, che in realtà, come abbiamo detto, è salva banche, hanno salvato le banche speculatrici con i soldi pubblici, privatizzando i profitti e pubblicizzando le perdite. Per salvare le banche è stato, dunque, necessario tagliare la spesa pubblica e ridurre o privatizzare molti servizi, a scapito dei cittadini e dello stesso mercato. In questo epocale contesto i dipendenti pubblici, da privilegiati che forse erano, sono diventati oggi una delle categoria più esposte ai capricci dell’instabilità dei mercati finanziari. Causa crisi dei debiti sovrani, in Grecia ed in Inghilterra essi sono stati licenziati a migliaia. Anche in Italia, come nel caso delle abolende Province (per input della BCE nella famosa lettera dell’agosto 2011 inviata al governo Berlusconi, input poi messo in pratica da Monti, Letta e Renzi, i nuovi maggiordomi dei banchieri), è stato avviato un processo di mobilità dei dipendenti pubblici che non esclude, quale estrema ma non improbabile ratio, anche il rischio del finale licenziamento. Un processo di “proletarizzazione” dei dipendenti pubblici, questo emerso con la crisi dell’eurozona, che è parallelo al processo di destatualizzazione in atto da decenni – abbiamo imparato a chiamarlo “globalizzazione” – e che negli ultimi vent’anni ha avuto uno sviluppo notevole fino, appunto, all’accelerazione intervenuta a partire dal 2008. I media continuano, nel frattempo, a bersagliare i dipendenti pubblici, accusati di ogni nefandezza e di essere sostanzialmente la causa di ogni nostro male, senza rendersi conto di sparare su uomini ormai professionalmente moribondi sbagliando bersaglio, mentre il vero bersaglio – la casta finanziaria apolide – se la gode.

E, giusto per tranquillizzare i mercati e tutti gli anti-statalisti, in Italia abbiamo acquisito un primato storico. La sinistra, sempre che il PD renziano possa ritenersi di sinistra, si svela per quella che ideologicamente è, ossia una forza anti-statualista. I dipendenti pubblici, ad iniziare dai docenti delle scuole, tradizionalmente serbatoio elettorale della sinistra, se ne sono finalmente accorti. Bastava, però, leggere Marx. Se i dipendenti pubblici lo avessero letto con attenzione, forse si sarebbero da tempo resi conto che la prospettiva marxiana non è affatto statualista perché, nella società comunista compiuta, lo Stato deve spontaneamente scomparire sostituito dall’autorganizzazione della società … esattamente come auspicano anche i liberisti: basta mettere al posto della “società autorganizzata” il “mercato mosso dalla mano invisibile” e lo scenario auspicato appare incredibilmente identico. Se si approccia la realtà, anche quotidiana, con il buon uso dello strumento della conoscenza filosofica, tutto, alla fine, torna.

Ora, a quanto pare, siamo arrivati all’ultimo atto del dramma europoide. Con la probabile Grexit, cui potrebbe fare seguito anche la Brexit (l’uscita dell’Inghilterra se il referendum proposto da Cameron dovesse aver luogo effettivamente e le forze nazionaliste e populiste inglesi dovessero prevalere) o comunque un effetto a catena o perlomeno un nuovo terremoto finanziario europeo, una falla, per quanto piccola, farà la sua comparsa nella diga dell’Unione Europea. E se quella falla si allargasse fino a travolgere la diga, il suo crollo travolgerebbe i popoli europei, soprattutto se il default greco ed eventuali altri possibili default, nel caso di una nuova tempesta finanziaria, avvenissero in modo incontrollato.

Proviamo a fare un paragone per tentare di focalizzare quali ripercussioni potrebbero esserci per Atene e Roma in caso di uscita incontrollata dall’euro. La Grecia non ha apparato industriale, non ha materie prime, importa più che esportare e vive di servizi e di turismo. L’Italia, a differenza della Grecia, ha un forte apparato industriale ed esporta almeno quanto importa se non di più; come la Grecia, gode di un forte afflusso turistico, è ben attrezzata nei servizi ma non ha materie prime. Il ritorno alla dracma – salvo imprevisti (ossia salvo l’aiuto di Putin e un bel “bye bye” ai piani Nato nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, visto che anche la Turchia di Erdogan non asseconda più l’America) – comporterebbe per la Grecia un aumento del costo delle importazioni ed in particolare delle materie prime, senza la contropartita dell’aumento delle esportazioni. Nel caso dell’Italia, invece, se da un lato l’aumento del costo delle materie prime costituirebbe il più grave problema che dovremmo affrontare con un ritorno alla lira, potremmo però, al tempo stesso, contare, almeno nel medio periodo, del sicuro boom delle nostre esportazioni che riporterebbe in avanzo la nostra bilancia dei pagamenti abbattendo la concorrenza dei prodotti tedeschi. Esattamente quel che temono, segretamente, gli industriali tedeschi che hanno una forte influenza sul governo germanico.

Con questo non vogliamo affatto dire che per l’Italia sia comunque un bene uscire dall’euro. Vogliamo solo ricordare a noi stessi che l’Italia non è la Grecia e che qualche maggiore chance l’abbiamo.

Piuttosto, mentre va consumandosi il dramma euro-greco, a molti è sfuggito un avvenimento di questi giorni che dovrebbe tutti, non solo noi italiani, spingerci a prestare più attenzione alla slealtà della Germania. Il fatto non è sfuggito a Romano Prodi che ne ha parlato su Il Messaggero del 28.06.2015. Un fatto che dimostra l’inesistenza stessa dell’Unione Europea quale entità politica (con)federale perché, analogamente a quanto sta avvenendo con la questione dei migranti, è a tutti evidente che per gli Stati dell’Unione l’interesse nazionale viene innanzi a tutto: ad eccezione forse della sola Italia la quale dal 1945, a differenza della Germania con cui pure essa ha insieme perso la guerra, teme persino l’espressione “nazione”.

Prima della classe quando si tratta di essere intransigente, in sede europea, con la Russia in fatto di sanzioni, fino ad imporre all’intera Unione Europea, Italia compresa, l’osservanza pedissequa delle sanzioni “americane” contro Putin, la Germania, senza alcuna concertazione con i suoi partner europei, ha stipulato, proprio in questi giorni, un accordo con la Gazprom, ossia con Putin, prevedendo il rafforzamento del North Stream, ovvero del gasdotto che, passando per il Mar Baltico, porta il gas russo direttamente in Germania per essere poi da qui redistribuito al resto dell’Europa. Tale via, progettata e costruita sin dai tempi del cancelliere Gerhard Schröder, il quale infatti non ha mai nascosto, neanche ora a fronte della crisi Ucraina, il suo costante rapporto d’amicizia con Putin, è una formidabile alternativa al gasdotto ucraino per portare il gas in Europa.

In tal modo la Germania, mentre si assicura un prezzo vantaggioso per sé nell’acquisto del gas russo, afferma al tempo stesso la sua supremazia, in Europa, anche per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, perché sarà essa a redistribuire gas agli altri europei. Compresi noi italiani sempre così pronti nella servile accondiscendenza alle politiche eurocratiche. Dipenderemo, così, dalla Germania anche per riscaldare le nostre abitazioni e per l’energia necessaria alle nostre industrie. Perché mentre la Spagna è provvista di impianti di rigassificazione, e quindi le basta che il metano le arrivi con le navi per lavorarlo e immetterlo nel suo mercato interno, e mentre la Francia ha le centrali nucleari (che, grazie ai verdi, noi abbiamo vietato) e può, relativamente, guardare con sufficienza al gas russo, noi italiani siamo del tutto esposti all’importazione energetica. I tempi dell’ENI di Enrico Mattei, nato come espansione dell’Agip fascista, ovvero i tempi nei quali avevamo una nostra politica nazionale di indipendenza energetica che guardava non a caso alla collaborazione con i paesi arabo-mediterranei, sono purtroppo passati.

L’unica alternativa di cui potenzialmente disponiamo oggi, per evitare l’aggiramento tedesco, sarebbe quella di puntare allo sviluppo del South Stream ossia del gasdotto, la cui costruzione è purtroppo ferma da tempo, che dovrebbe, se completato, passare per il Mar Nero, l’Egeo, ossia la Turchia e la Grecia, per arrivare direttamente nei nostri porti pugliesi, calabresi, siciliani. Una via che ci metterebbe al centro del rifornimento energetico almeno dell’Europa del sud. Ma noi, no! Non più, oggi! Noi siamo fedeli all’alleato “amerikano”, noi siamo troppo “europoidi”, noi siamo fedeli vassalli nei secoli dell’Eurogermania.

Fino ad Andreotti e Craxi abbiamo avuto una politica estera almeno in parte degna di questo nome, eredità della grande visione europeistica ma – attenzione! – non bancocentrica di Alcide De Gasperi (il quale, infatti, negli anni ’50, dopo aver difeso la nostra dignità nazionale alla conferenza di pace di Parigi, nel 1946, evitandoci le maggiori umiliazioni preparate per noi dai vincitori del conflitto mondiale, aveva auspicato in quella dell’unione militare, la Ced, la via per l’unificazione politica dell’Europa, forse sognando un futuro di terzietà tra Usa ed Urss). Ora, invece, facciamo ridere i polli. Basta vedere la faccia di Matteo Renzi. Chi volete mai che si preoccupi di un ragazzino che parla con ammirazione di Adriano Olivetti e di Giuseppe Dossetti, senza neanche sapere di quel o di chi sta parlando?
Luigi Copertino

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