SE I GIUDICI DECIDONO I GENITORI. E TANTE ALTRE COSE

di Roberto  Pecchioli

 

Il recente caso della giudice trentina che ha sentenziato sul caso di due gemelline concepite con inseminazione artificiale all’estero per conto di una coppia omosessuale italiana ha suscitato un comprensibile sbigottimento.  La giurisdizione ha infatti stabilito che le bambine hanno due padri e nessuna madre e che il fatto di essere genitori non è determinato dalla natura, ma dalla volontà di assumere il ruolo di padre, o di madre, pur se nel caso specifico è assente, giacché, pare di capire, la donna che ha partorito le gemelle aveva noleggiato se stessa e l’utero ai due gay desiderosi di prole.

Non vi è chi non veda nella sconcertante sentenza un salto ideologico e concettuale di portata storica, nella direzione, una volta di più, della separazione del dato naturale biologico legato alla filiazione da quello giuridico- culturale, attribuendo superiorità a quest’ultimo. Di più, è un’ulteriore passo verso la legalizzazione di qualsiasi desiderio o capriccio individuale, considerato ormai alla stregua di diritto da garantire per legge, meglio se collegato a fiorenti mercati, come quello delle tecnologie riproduttive che speravamo circoscritte alla zootecnia.

Un filosofo del diritto come Paolo Becchi, in un intervento ospitato da un quotidiano nazionale, ha messo in guardia contro una deriva obiettivamente pericolosa e, forte della doppia qualifica di filosofo e di giurista, ha svolto una riflessione complessiva, legata al ruolo sempre più ampio assunto dal potere giudiziario. Non è bene che i genitori siano decisi dalle sentenze, specialmente in casi come quello trentino, in cui il dramma maggiore, per le due piccole, è la totale assenza della figura materna. Ma non è assolutamente normale che sia la giurisdizione, ovvero nei fatti singole persone la cui unica specializzazione è la conoscenza dei quattro codici certificata dal superamento di un concorso, a stabilire per sentenza il bene ed il male su tantissimi temi importanti. Non abbiamo le competenze giuridiche per entrare nel merito di questioni terribili come quelle dell’eutanasia e della morte assistita, ma occorre dire qualcosa sull’enorme potere che ha assunto l’ordine giudiziario da almeno un ventennio.

Per un verso, si deve prendere atto di vari vuoti legislativi provocati dal fatto che la scienza e la tecnologia corrono ad una velocità che non può essere seguita – o inseguita – dalla codificazione. Su un ampio ventaglio di materie, nessun potere legislativo ha la capacità di intervenire con gli stessi tempi delle scoperte ed applicazioni tecnologiche. Questo vale per le delicatissime questioni della bioetica, ma è altrettanto vero in materia finanziaria, economica e fiscale. La giurisdizione, per sua natura, ha poteri solo in un determinato territorio, ma la globalizzazione agisce su scala planetaria, nega confini e frontiere e non conosce altre leggi che quelle del tecnicamente fattibile ed economicamente profittevole. Lo stesso contrasto al terrorismo non può ormai essere organizzato che in un quadro internazionale, con le difficoltà di cui siamo spettatori quotidiani.

Tali questioni sono chiare benché di ardua soluzione, specie allorché un giudice, spesso monocratico ed in possesso di competenze fatalmente limitate, deve comunque sentenziare su qualcosa. Ciò che preoccupa e turba è l’allargamento progressivo delle competenze dei giudici, le stesse aspettative salvifiche dalle quali sono circondati, e pone quesiti di capitale importanza in ordine alla sovranità, alla libertà, allo stesso principio di divisione dei poteri di cui le civiltà liberali occidentali si fanno vanto. Il problema non è soltanto italiano, e ciò dovrebbe sollecitare riflessioni non limitate a casi particolari o ad onde emotive provocate ad arte nell’opinione pubblica.

L’altro fatto di cui è impossibile tacere è la politicizzazione di moltissime toghe, che in Italia fu il frutto avvelenato dell’egemonia gramsciana marxista, della luciferina intelligenza di Palmiro Togliatti e dopo di lui di Luciano Violante, il giudice comunista a lungo vero dominus delle correnti “fedeli alla linea” rossa. Magistratura Democratica teorizzò apertamente la preminenza dell’interesse politico delle classi sfruttate sulla lettera e lo spirito della legge scritta. Non pochi giudici – di solito pubblici accusatori – passati alla politica hanno dato mediocre prova di sé, ma il dilemma vero sono le porte girevoli tra i tribunali ed il Parlamento. Prendiamo Michele Emiliano, la cui carriera politica è stata costruita sull’attività di sostituto procuratore della repubblica. E’ una toga in aspettativa; se tornerà in attività, si potrà mai allontanare il sospetto che l’esercizio dell’azione penale (o le sentenze, se passerà alla funzione giudicante) sia influenzato dalle amicizie ed avversioni politiche del corpulento signore barese?

Quanto alla Cassazione, che gli operatori del diritto chiamano S.C., Suprema Corte, ci ha abituato a decisioni, come dire, arditamente innovative, supportate più dalle acrobazie verbali di giuristi valenti che dalla lettera della legge: de iure condendo ed oltre. E’ noto che le sentenze della Cassazione non fanno giurisprudenza, eccetto quelle pronunciate a sezioni riunite sulle questioni più rilevanti, ma è ben difficile che, massimari alla mano, magistrati di prime cure o giudici di pace contraddicano, in cause simili, le vedute degli ermellini romani.

La Corte Costituzionale, a sua volta, viene spesso incaricata di svolgere funzioni improprie, di supplenza legislativa. Il caso recente della legge elettorale lo dimostra, ma l’opera della Consulta è spesso risultata provvidenziale per abbattere referendum sgraditi, riscrivere norme, persino per renderle più gradite a chi dovrebbe solo applicarle, giudici ordinari ed amministrativi. Qui si apre un’altra questione non formale, legata ai principi di controllo e bilanciamento di cui va fiera la democrazia rappresentativa. In Italia, i quindici giudici costituzionali sono nominati in parti uguali dal parlamento, dal presidente della repubblica e dagli stessi magistrati, i cui organi interni sono autentici parlamentini con correnti e partiti reciprocamente avversi. Si tratta quindi di un organo di garanzia che, innanzitutto e principalmente, garantisce il potere costituito, cui deve la prestigiosa e ben retribuita funzione della durata di ben nove anni.

Infine, il domandone: conta di più il potere giudiziario o quelli elettivi, esecutivo e legislativo? La questione è dirimente, poiché da un lato le norme, in particolare quelle costituzionali, non possono essere alla mercé di capricci o follie parlamentari di stagione, talché è indispensabile un organo di controllo formale, ma è altrettanto vero che la sovranità appartiene al popolo, e la giurisdizione ne è solo un organo i cui membri, secondo dottrina, compongono un ordine, non un potere autonomo.

In un quadro siffatto, nessuno stupore se avvengono invasioni di campo, o se non poche sentenze risentono del clima politico sociale o, peggio, delle convinzioni personali di chi giudica. I casi si moltiplicano, non soltanto rispetto alle nuove follie del “gender”. E’ lezione per studenti di ragioneria che la legge, insieme con l’imperatività (la norma contiene un precetto la cui violazione prevede una sanzione) abbia carattere di astrattezza e generalità. Purtroppo, specie nel diritto italiano, le norme si accavallano ed affastellano una sull’altra, tanto è vero che nessuno sa con certezza quante ce ne siano in vigore, e troppo spesso sono contraddittorie, generiche e niente affatto chiare. L’interpretazione e l’applicazione ai casi concreti, privilegio e responsabilità dei giuristi, è difficile ed incerta. Le colpe prevalenti, ovviamente, sono dei legislatori, non certo dei pubblici funzionari in toga, ma intanto abbiamo visto la politica industriale nazionale nel caso Ilva determinata dalle pronunce dei tribunali tarantini e non dai governi nazionali.

E’ di questi giorni il divieto di espatrio a dei genitori per cure ad un minore: la giurisdizione sostiene che le terapie da svolgere non hanno validità medica. Può essere vero, ma chi è un giudice per sostituirsi a papà e mamma, tranne casi conclamati di maltrattamento o incuria?   Poi c’è il capitolo delicatissimo delle norme che limitano il libero pensiero, teoricamente garantito dall’art. 21 della Costituzione altrettanto teoricamente vigente. La Lega Nord è stata condannata ad una pesante sanzione pecuniaria per un manifesto nel quale si affermava di non volere clandestini nella città di Saronno.

Ogni giorno avremo nuovi divieti accompagnati da pesanti sanzioni penali e dalla rovina economica, poiché le leggi in materia dei cosiddetti reati d’opinione sono volutamente vaghe, impalpabili, soggette all’arbitrio più che all’interpretazione. La parola clandestino, quindi, per un giudice le cui convinzioni siano di un certo tipo, può essere discriminatoria ed offensiva, anziché semplicemente descrittiva. Forse un briciolo di analisi strutturalista farebbe bene a chi esercita un potere così grande, quanto meno distinguere significante e significato, nonché i concetti di langue e parole.

Zingaro andrà addirittura espulso con ignominia dai dizionari, lo segnaliamo all’Accademia della Crusca. Intanto i due rom (il termine rom non è ancora esplicitamente proibito) colpevoli della tragica rapina romana che è costata la vita ad una povera studentessa cinese hanno avuto condanne lievissime, e circolano tranquilli. Altrettanto discutibili sono i “liberi convincimenti “su troppe scarcerazioni (o nessuna carcerazione) per responsabili di omicidi stradali, anche in condizioni di ubriachezza o effetto di sostanze stupefacenti, nonché le pesanti indagini a carico di cittadini che hanno esercitato il diritto naturale di difesa in condizioni di rapina, furto, violazione di domicilio, pericolo per i beni ed i familiari.

Sbigottisce la pesantezza dell’azione penale e della successiva condanna allorché si tratta di perseguire opinioni politicamente scorrette, rispetto a fatti di violenza, malversazione, furto che non solo destano allarme sociale, ma colpiscono concretamente la vita e gli interessi delle vittime. Le responsabilità, qui, sono ovviamente soprattutto del legislatore, ma lo spazio lasciato a chi giudica, l’intoccabile “libero convincimento” deve essere criticato. Negli Stati Uniti, di cui copiamo qualunque idea, moda o comportamento con esiti spesso ridicoli, la colpevolezza è dichiarata “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Da noi, oltre alla legge Mancino ed alle altre norme che impediscono l’espressione di opinioni non gradite al sistema, la cui interpretazione sempre più estensiva produce l’autocensura (chi scrive o fa politica ne è testimone quotidiano), esistono altri titoli di reato così indeterminati da lasciare esterrefatti, oltreché gettare ombre sull’azione degli organi di garanzia, Corte Costituzionale in testa. Uno è il “concorso esterno in associazione mafiosa”, inventato dal finissimo ingegno del solito Luciano Violante per colpire i colletti bianchi della criminalità. Credo che nessun manuale o insigne giurista sappia davvero definire la linea sottile che separa il concorso esterno dal favoreggiamento, o, al contrario, dalla vera e propria associazione mafiosa. Nel frattempo carriere sono state distrutte, e somme considerevoli sono passate ad avvocati e consulenti per improbe difese. Adesso è il turno del “traffico di influenze”, pratica assai diffusa in un Paese devastato dalla corruzione. Ma in che cosa consisterà mai? In una semplice raccomandazione, più pudicamente segnalazione, o in atti e condotte che sono obiettivamente corruzione vera e propria? Forte è il sospetto che, una volta di più, attraverso legge manipolabili si intenda regolare conti politici.

Ultimo, ma non certo meno grave, è il tema delle intercettazioni telefoniche ed ambientali. Nell’ambito della scienza, come in quello della tecnica, vige una certezza, ovvero che qualunque cosa sia tecnicamente possibile, viene fatta. Si parla addirittura di metadati, per definire la raccolta, da parte dei padroni delle reti informatiche, telefoniche e dei giganti del digitale, di tutte le nostre comunicazioni. Si sa perfettamente a chi abbiamo inviato SMS, posta elettronica, da chi, quando e dove le abbiamo ricevute, tutto il traffico telefonico in entrata ed uscita, gli accessi ad Internet. Siamo già nudi in una onnipotente società della sorveglianza. In più, possiamo essere legalmente spiati per una serie sterminata di motivi.

Qualche pubblico ministero ha costruito la carriera sulle intercettazioni a catena, o a grappolo, con seri problemi a determinare poi il “giudice naturale precostituito per legge”, come recitano i sacri testi. Ma come nascono le notitiae criminis, chi le fa pervenire sui tavoli giusti? C’è un immenso problema di libertà in un mondo nel quale sempre più si è perseguiti per ciò che si è e per quello che si pensa, afferma e scrive.

Un enorme apparato, legale, legalissimo, è all’ascolto di troppi. Chi ha in mano il Grande Orecchio? Sorge il sospetto che siano in azione strati e stati profondi, nascosti, bene annidati nelle istituzioni e negli altri luoghi del potere, specie riservato. Sembrano possedere un formidabile potere di interdizione oltreché di orientamento politico attraverso le inchieste giudiziarie. Viviamo di intercettazioni, cimici, telecamere. Sono uno strumento utile, talvolta indispensabile. Ma, ancora una volta, quis custodiet custodes, chi controlla i controllori?  Chissà se sono sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto. Difficile, in un mondo corrotto e senza principi morali, e comunque sono in troppi, tecnici di varie specializzazioni, settori ampi delle forze dell’ordine, magistrati e chissà chi altri, giornalisti in testa.

All’estero non se la passano meglio, a riprova che la conclamata democrazia è solo uno slogan o una parola vuota, da brandire a comando pro o contro qualcuno. Donald Trump non riesce a mettere in pratica il suo programma in materia di immigrazione per le interferenze delle procure americane, che peraltro non nascondono la loro natura di organi politicamente orientati (le funzioni sono elettive), le corti britanniche tirano gomitate alla volontà popolare in materia di Brexit, in Spagna è la Audiencia Nacional, il massimo tribunale del regno, ad agire nella spinosa vicenda del referendum separatista catalano, non il governo.

La situazione francese è quella più inquietante. I giudici istruttori transalpini avviano pesanti inchieste a carico di Marine Le Pen e dei suoi collaboratori quasi ogni giorno, e da alcune settimane sono impegnati nella distruzione del candidato presidente favorito, il gollista Fillon, sgradito ai poteri forti internazionali. In Germania, dove la sharia islamica è entrata di fatto nella legge, un turco può affermare in TV che quella tedesca è “una razza di cani”. Giusto, è un’opinione, ma non osiamo immaginare lo scatenamento giudiziario, mediatico e moralistico a carico di chi avesse fatto analoga dichiarazione nei confronti dei turchi. Forse, dovremmo pretendere l’introduzione del reato di autorazzismo!

Il quadro è sconfortante, con la fondata impressione che i singoli magistrati, anche i più apertamente politicizzati, non agiscano di propria iniziativa, ma siano diventati strumento – consapevole o meno è la domanda da cento milioni di dollari – di poteri ben più grandi, ramificati ed internazionalmente connessi.

Le materie su cui le magistrature intervengono con più frequenza sono ormai chiare: morale familiare, bioetica ed affini per costruire un comune sentire ultralibertario, opinioni non conformi in materia di immigrazione, religione, sessualità. Sono il pronto intervento dei cosiddetti “nuovi diritti”, così cari al progressismo orfano dei lavoratori. Decidono su quanto vi è di più sacro al mondo, dare o no la vita, l’essere genitori e figli, adesso anche su vivere o morire.

E giunto il momento di pretendere il rispetto dei “loro” principi liberali: il dettato costituzionale, vere istituzioni di garanzia (check and balance, è cosa loro) e, innanzitutto, lo stato di diritto, quello che gli anglosassoni chiamano rule of law, l’imperio della legge (scritta e chiara). In caso contrario, non resta che un estremo, antico diritto, quello di resistenza all’oppressione, accolto esplicitamente nella Grundgesetz tedesca.  “Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”.  Del cittadino, appunto, della persona, non della plebe informe a cui ci si siamo volentieri ridotti.

Roberto PECCHIOLI