CHI SI TROVA NELLA PARTE PIÙ PROFONDA DELL’INFERNO? (San Macario d’Egitto, + 391)
Un giorno, San Macario trovò un teschio e chiese di chi fosse la testa.
“Un pagano!” rispose.
“E dov’è la tua anima?” chiese.
“All’inferno!” fu la risposta.
Macario chiese quindi al teschio se il suo posto fosse molto profondo nell’Inferno.
“La distanza tra la terra e il cielo!”
“E ci sono anime che si trovano ancora più in basso?”
“Sì! Le anime degli ebrei!”
“E ancora più in basso degli ebrei?”
“Sì! Le anime dei cattivi cristiani, redenti dal sangue di Cristo, che hanno tenuto i loro privilegi in così bassa considerazione!” https://www.tcwblog.com/who-is-in-deepest-part-of-hell
Gian Pio Mattogno
ANGLIA JUDAICA:
GLI EBREI E L’IMPERIALISMO BRITANNICO NEL XIX SECOLO
Il connubio tra giudaismo e casta dominante inglese, che s’è venuto formando già a partire dall’epoca di Cromwell (cfr. ANGLIA JUDAICA: OLIVER CROMWELL E LE ORIGINI GIUDEO-PURITANE DELL’IMPERIALISMO BRITANNICO, andreacarancini.it) ha conosciuto la sua massima espressione nel secolo XIX in quello che non è improprio definire imperialismo anglo-giudeo-massonico, per via del ruolo centrale che vi giuocarono (oltre le logge massoniche, di cui si dirà in altra occasione) il capitalismo giudaico e la plutocrazia britannica, e di cui l’ebreo Benjamin Disraeli fu il padre politico e spirituale (cfr. ANGLIA JUDAICA: L’EBREO DISRAELI E LA COSTRUZIONE DELL’IMPERO ANGLO-GIUDEO-MASSONICO DEI MERCANTI, andreacarancini.it).
Per comprendere appieno il ruolo giuocato dagli ebrei nella prassi criminale imperialistica della Gran Bretagna nel XIX secolo, prima ancora di esaminare i tratti essenziali dell’imperialismo britannico e il peso specifico che vi ebbe il capitale giudaico, occorre ripercorrere brevemente le fasi salienti della penetrazione ebraica nella società inglese, i cui prodromi risalgono all’epoca normanna (cfr. ANGLIA JUDAICA: LA PRIMA IRRUZIONE DEGLI EBREI E DEL CAPITALE USURAIO IN GRAN BRETAGNA, andreacarancini.it).
Sappiamo che già all’epoca di Cromwell, prima ancora della loro riammissione ufficiale ed a maggior ragione anche nei decenni seguenti, capitalisti ebrei come Salomon Medina, Samson Gideon e Manasseh Lopez seppero approfittare della loro rilevante potenza economica per infiltrarsi nel tessuto della società inglese e perfino fra le classi alte della politica.
Se sulla genesi e la formazione del capitalismo inglese fino alla rivoluzione industriale esiste una letteratura smisurata, i tempi e i modi della penetrazione degli ebrei nella società britannica sono meno esplorati, e per lo più da una storiografia in generale appiattita sulla narrazione ufficiale filo-ebraica.
Fortunatamente non mancano studi critici che consentono di avere un quadro più aderente alla realtà storica a cominciare da How Jewry turned England into a Plutocratic State. A Historical Survey («World Service», Special Number 12.6.1940.
(Una versione francese è apparsa nel numero speciale de «Le Cahier Jaune», n. 7, août 1942 (L’Angleterre et les Juifs) col titolo: Comment les Juifs ont fait de l’Angleterre un État ploutocratique. Di questo scritto esiste una versione italiana, parziale e non sempre impeccabile: Origini della plutocrazia britannica. L’asservimento dell’Inghilterra all’ebraismo, «L’Idea di Roma», giugno-luglio 1940, pp. 181-214).
Un’abile tattica messa in atto dagli ebrei per penetrare nella società inglese fu quella delle false conversioni, di cui Samson Gideon rappresenta un esempio emblematico.
Come giustamente sottolinea «World-Service», il finto battesimo e la finta conversione di Samson Gideon, uno dei capitalisti ebrei più ricchi ed influenti dell’epoca, come pure quella di altri capitalisti ebrei, non fu per il capitale giudaico che un lasciapassare allo scopo di penetrare più agevolmente nel tessuto della società cristiana inglese ed esercitarvi il suo proprio potere economico e politico.
Lo scrive esplicitamente anche H. Pollins, Economic History of the Jews in England, London and Toronto, pp. 55-56. Gideon era una figura prominente nel panorama finanziario dell’Inghilterra del XVII secolo, ma la sua accettazione all’interno dell’alta società era impedita dalla religione ebraica da lui professata; in quanto ebreo, non poteva entrare nel mondo politico, né ottenere il titolo nobiliare cui aspirava; cercò di ottenerlo in grazia dei servigi finanziari resi al governo, ma senza successo; allora «l’intera famiglia abbandonò la comunità ebraica».
Con questo stratagemma Gideon poté ottenere da “cristiano” quello che non aveva potuto ottenere da ebreo. Ma non fu che un’astuta manovra, come riconoscono anche gli storici ebrei.
Qui ci limitiamo a ricordare quanto riportato nella voce Gideon, Samson della «Jewish Encyclopedia», vol. 5, pp. 663-664, dove leggiamo che era figlio di Rowland Gideon, un mercante delle Indie Occidentali il quale, stabilitosi in Inghilterra, cambiò il suo nome dal portoghese Abudiente e divenne membro della Paper-Stainers Company.
Samson Gideon iniziò la sua attività nel 1720 con un capitale di £ 1.500, che si accrebbe così rapidamente che nel 1729 fu ammesso come agente (broker) giurato con un capitale di £ 25.000, investito principalmente in proprietà terriere. La sua fortuna continuò ad accrescersi a tal punto che nel 1740 era diventato “il grande oracolo e leader della Jonathan’s Coffe House in Exchange Alley”.
Le sue speculazioni erano condotte con tale prudenza che raramente subiva perdite. L’enciclopedia ebraica ricorda poi come Gideon abbia tratto astutamente profitto dalle vicende del Pretender e come la speculazione sui titoli gli abbia consentito in breve tempo di raddoppiare la sua fortuna, ed infine come negli anni seguenti il governo si affidasse quasi interamente a lui per ottenere prestiti.
Il grande obiettivo della vita di Gideon era quello di fondare una famiglia terriera, cosa pressoché impossibile da realizzare come ebreo. «Di conseguenza» (accordingly), nel 1754 si distaccò dalla congregazione sefardita e da quel momento allevò i suoi figli nella fede cristiana».
I primi risultati della “conversione” non tardarono a farsi vedere, come rileva l’enciclopedia ebraica: «Grazie alla sua influenza su Sir Robert Walpole riuscì ad ottenere uno speciale atto del Parlamento che sanciva l’acquisto di una tenuta da lui tanto ambita, e nel 1759 fu conferito il titolo di baronetto a suo figlio Samson, allora un ragazzo di quindici anni che stava studiando a Eton».
Ma subito dopo apprendiamo che Samson Gideon «morì nella fede ebraica, lasciando £ 580.000, £ 1.000 delle quali furono lasciate alla sinagoga Bevis Marks a condizione che fosse sepolto nel cimitero ebraico. Si scoprì che per tutta la vita aveva pagato le sue quote d’iscrizione alla sinagoga col nome “Almoni Peloni”».
Su Samson Gideon finanziere cfr. L.S. Sutherland, Samson Gideon and the Reduction of Interest, 1749-50, «The Economic History Review» 16 (1946), pp. 15-29; Id., Samson Gideon: Eighteehth Century Jewish Financier, «Transactions (Jewish Historical Society of England)» 17 (1951-52), pp. 79-90.
Un elenco di 618 ebrei naturalizzati, o che acquisirono, dietro pagamento, uno status particolare di cittadinanza ad personam inferiore alla piena cittadinanza, è in A List of Jewish Persons Endenizened and Naturalised 1609-1799. Compiled by the late W.S. Samuel, and edited with a foreword by R.D. Barnett and A.S. Diamond, «Transactions & Miscellanies (Jewish Historical Society of England)» 22 (1968-1969), pp. 111-144.
Qualunque ricerca sulla penetrazione del capitale giudaico nella società britannica non può prescindere dal lavoro di Werner Sombart, Gli Ebrei e la vita economica. I. Il contributo degli Ebrei all’edificazione dell’economia moderna, Padova, 1980; II. La vocazione degli Ebrei per il capitalismo, ivi, 1989, e ciò non tanto per via della sua tesi circa il ruolo primario degli ebrei nella genesi del capitalismo, discussa e discutibile, quanto perché, in forza del materiale scientifico a sua disposizione, descrive l’ascesa del capitale ebraico all’interno del tessuto economico delle varie società cristiane.
Sombart ricorda (I, pp. 55 sgg. e passim), citando Hyamson, che già prima della loro ammissione nel paese, gli ebrei avevano nelle loro mani un dodicesimo di tutto il commercio. Dai libri dell’Alderman Backwell, che registrava il volume d’affari in sei mesi del 1663 delle principali case commerciali ebraiche risulta che i volumi d’affari degli ebrei Jacob Aboab, Samuel de Vega, Duarte da Sylva, Francisco da Sylva, Fernando Mendes da Costa, Isaac Dazevedo, George & Domingo Francia e Gomes Rodrigues oscillava fra circa 13.000 e oltre 40.000 lire sterline (II, p. 45).
In una corrispondenza apparsa sullo «Spectator» del 27 settembre 1712 si legge che gli ebrei sono talmente disseminati in tutti i centri commerciali del mondo da diventare gli strumenti per il cui tramite nazioni distanti le une dalle altre possono comunicare tra di loro stabilendo strette relazioni fra tutti i gruppi del genere umano. «Sono ‒ soggiungeva il giornale – come i cavicchi e i chiodi in un grande edificio: privi per sé di qualsiasi valore, risultano tuttavia assolutamente necessari per mantenere l’unità» (II, pp. 33-34).
Sombart documenta come nei secoli XVII e XVIII le finanze inglesi, al pari di quelle di altri Stati, subissero l’intensa influenza degli ebrei. Le necessità del Long Parlament richiamarono ricchi ebrei in Inghilterra. Ancor prima che l’ammissione venisse sanzionata da Cromwell, ricchi cripto-ebrei provenienti dalla Spagna e dal Portogallo immigrarono da Amsterdam in Inghilterra, il principale dei quali era Antonio Fernandez Carvajal, che divenne il finanziere del “Commonwealt”.
Il potere dei magnati ebrei aumenta sotto gli ultimi Stuart, dove si incontrano i de Sylva, i Mendes, i da Costa, con tutto il loro peso economico. Nel contempo ha inizio anche l’immigrazione degli ebrei ashkenaziti, tra cui il magnate capitalista Benjamin Levy. Poi ecco i Salomon Medina, i Suasso, i Manasseh Lopez.
All’inizio del 1700 (I, pp. 88 sgg.) gli ebrei costituiscono la maggiore potenza finanziaria del paese e riescono a coprire un quarto del prestito contratto dal governo. La casa bancaria ebraica di maggior prestigio è quella di Samson Gideon, “consigliere accreditato del governo”, “pilastro del credito dello Stato”, amico personale di Walpole. Dopo la sua morte, la casa ebraica Francis e Ioseph Salvador diviene la maggiore potenza finanziaria dell’Inghilterra.
Sombart ricorda anche che gli ebrei furono tra i principali azionisti delle due Compagnie delle Indie. In un rapporto trasmesso a Cromwell da Manasseh ben Israel leggiamo che gli ebrei posseggono una discreta quantità di azioni della Compagnia olandese delle Indie Orientali e Occidentali. Alla fine del XVII secolo la Borsa di Londra (dal 1698 divenuta il “Change Alley”) «pullula di ebrei», come scrive un contemporaneo. Essi sono talmente numerosi che una parte speciale dell’edificio prende il nome di “Jews Walk”.
Oltre a Salomon Medina, che deve considerarsi il fondatore della speculazione di Borsa in Inghilterra, scrive Sombart, «noi conosciamo numerosi potenti finanzieri ebrei vissuti al tempo della regina Anna, i quali si dedicavano a speculazioni di Borsa in grande stile. Sappiamo ad esempio che Manasseh Lopez aveva guadagnato una grossa fortuna sfruttando il panico provocato dalla falsa notizia della morte della regina e acquistando tutti i titoli di Stato, il cui corso aveva subito un improvviso ribasso. Analoga occasione era stata colta in seguito da Samson Gideon, conosciuto tra i Gentili come “the great Jew broker”.
«Per rendersi conto della potenza finanziaria degli Ebrei londinesi del tempo, basti pensare che all’inizio del XVIII secolo le famiglie ebraiche il cui reddito annuo raggiungeva un livello variante tra le 1.000 e le 2.000 sterline erano 100, e 1.000 invece le famiglie con 300 sterline di reddito (Picciotto) ‒ mentre Ebrei come Mendes da Costa, Moses Hart, Aaron Franks, Baron d’Aguilar, Moses Lopez, Pereira, Moses (o Anthony) da Costa (che alla fine del XVII secolo divenne direttore della Banca d’Inghilterra) e altri figuravano tra i mercanti più ricchi di Londra» (I, p. 138).
A questi bisogna aggiungere i numerosi mediatori giurati della Borsa di Londra che giunsero da tutti i punti della terra e divennero così numerosi che, come osserva un contemporaneo, alcuni di essi da mediatori si trasformarono in aggiotatori. Nella pratica di influenzare artificiosamente i mercati determinando nel pubblico disposizioni favorevoli o sfavorevoli si distinsero successivamente i Rothschild.
Il processo di giudaizzazione dell’aristocrazia britannica è stato ricostruito da Wilfried Euler, Das Eindringen jüdischen Blutes in die englische Oberschicht, «Forschungen zur Judenfrage», Band 6, Hanseatische Verlagsanstalt Hamburg, 1941, pp. 104-252.
Sulla scorta di una vasta documentazione scientifica, l’autore riporta con certosina precisione nomi, cognomi e circostanze, fornendo un quadro impressionante della «penetrazione del sangue ebraico nella casta dominante inglese» e dei rapporti degli ebrei con la famiglia reale.
Una rapida ma incisiva carrellata di figure di ebrei più o meno imparentati con la casta dominante britannica, nonché di personaggi della famiglia reale più o meno amici degli ebrei, è in Ernst Clan, Lord Cohn ossia La penetrazione giudaica nella casta dominante inglese da Disraeli a Hore Belisha, Roma, 1941.
Così vediamo delinearsi dinanzi a noi le figure di Disraeli, ‒ “il vecchio giudeo di Londra”, come amava definirlo Bismarck ‒, colui che fondò l’imperialismo britannico; il principe di Galles, Alberto Edoardo, con le sue frequentazioni ebraiche; la lunga teoria dei membri della Casa Reale iniziati alla massoneria secondo il Freimaurer-Lexikon, assieme ad altri importanti personaggi, cosa che ha fatto scrivere al “Freemasons Chronicle”: «La grandezza della Gran Bretagna è opera della massoneria».
Poi i Rothschild, i Montagu, i Beit, etc., e gli altri grandi esponenti della City, fino all’ebreo Hore Belisha, ministro del gabinetto Chamberlain.
Scrive nella Premessa il curatore Agostino Toso:
«Questa rapida corsa di Ernst Clan nell’alta società dorata e blasonata della Gran Bretagna, inquinata da più di cent’anni di sangue giudaico, mette a nudo un altro aspetto di quel “vecchio mondo” che ha scatenato la guerra senza quartiere al “mondo nuovo”. In uno stile brillante, con frequenti richiami storici e politici, l’autore documenta gli stretti vincoli che uniscono da circa un secolo il giudaismo e la massoneria non pure alla classe borghese, ma anche alla aristocrazia ed alla stessa casa regnante della vecchia Inghilterra (…)
«Questa lega aristo-giudaico-massonica, che costituisce la colonna vertebrale della oligarchia che domina l’Inghilterra, e per estensione e comunanza d’interessi e di fini anche della dispotica plutocrazia nord-americana (…) ha potuto formarsi durante il secolo XIX all’ombra della famiglia reale della Gran Bretagna e più precisamente sotto la Regina Vittoria, il cui regno s’identifica con la massima prosperità britannica e con l’affermazione del moderno imperialismo inglese ad opera di un figlio di Giuda, Lord Beaconsfield, al secolo Beniamino Disraeli» (p. 5).
Nell’Introduzione, l’autore scrive:
«Naturalmente non esiste un Lord Cohn. Il titolo del presente volume non va interpretato in senso rigidamente letterale. Comunque, troviamo in Inghilterra dei nobili Isaac, Samuel, Simon e Rothschild. Ma sono pochi. Assai più numerosi sono i vari Lords Burnham, Southwood, ecc., che a loro volta fino a pochi anni or sono si chiamavano ancora Salzer e Levy» (p. 7).
E nell’Appendice, così chiosa la sua ricerca:
«Sintomatico per la penetrazione giudaica nella casta dominante britannica è l’albero genealogico della famiglia Rothschild. Vediamo che in un primo tempo questa schiatta permise soltanto matrimoni tra correligionari. Sino al 1880 si può constatare una serie impressionante di unioni contratte tra consanguinei, in parte unioni contratte con rami parigini, viennesi e napoletani dei Rothschild. Poi di botto diventano più frequenti i matrimoni contratti tra i Rothschild e l’aristocrazia britannica.
«Vediamo così Constance Rothschild andare sposa con Lord Battersea, una Hannah impalmare l’Earl of Rosebery, Bertha il barone Leonina, Helene il barone von Zuilen, Margherita il duca Alessandro di Grammont. Gli ebrei hanno raggiunto la meta: sono diventati membri equiparati dell’aristocrazia britannica, i loro figli, le loro figliole sposano i discendenti delle più antiche e illustri stirpi britanniche» (pp. 94-95).
(Qualche anno prima era stato pubblicato l’opuscolo di Arnold Spencer Leese, Our Jewish Aristocracy. A Revelation, Imperial Fascist League, London, 1936. Euler, op. cit., p. 105, n.3, scrive che l’opuscolo riporta solo una minima parte dei casi e contiene errori e imprecisioni, ma che comunque a suo avviso va salutato come un segno del risveglio di una coscienza razziale britannica. Quello di Leese, un inglese, non era un caso isolato. In quegli stessi anni, un americano d’origine norvegese, Jacob Thorkelson, membro della Camera dei rappresentanti degli USA, 1° distretto del Montana, in un opuscolo (Jewish Inroads into British Royalty. Rematks of Hon. J. Thorkelson of Montana in the British House of Representatives, Wednesday , August 21, 1940, islam-radio.net) denunciava parimenti che «per molto tempo uno dei metodi ebraici per raggiungere il dominio del mondo è stato quello di penetrare nei circoli privilegiati dove maggiore è il potere politico» e in conclusione invitava i lettori inglesi ad unirsi nella comune battaglia atta a risvegliare «quel che resta della grande nazione britannica alla coscienza razziale»).
Alcune pagine illuminanti di William D. Rubinstein, prolifico scrittore filo-ebreo, se non egli stesso ebreo, docente di storia e sociologia in varie Università, ci introducono al tema dell’ascesa del capitale giudaico nell’Inghilterra del XIX secolo (La sinistra, la destra e gli ebrei, Bologna, 1986).
Dapprima Rubinstein rammenta le quattro fasi che avrebbero caratterizzato i mutamenti dell’élite ebraica moderna e contemporanea: nella prima fase (dal 1815 fino al 1870 circa) una piccola élite sefardita o tedesco-askenazita consegue un «grande potere economico e considerevole influenza nell’ambito della comunità ebraica di molti paesi occidentali»; nella seconda fase (tra il 1870 e il 1914) «l’influenza di questa élite continuò a crescere, benché in presenza di una crescente reazione antisemita»; la terza fase (dal 1918 al 1945) è il momento peggiore della moderna storia ebraica, nel quale «il potere, la ricchezza e la capacità di guida della vecchia élite crollarono»; nella quarta fase, infine (dal 1945 fino agli anni ’80), si registra una «ascesa globale delle comunità ebraiche occidentali (…) in un quadro di generale abbondanza di risorse economiche e di sostanziale perdita d’influenza dei movimenti antisemiti» (pp. 5-6)
Rubinstein ‒ che estende la sua ricerca anche alle comunità ebraiche di Stati Uniti, Australia e URSS e Israele ‒ si sofferma soprattutto sull’Inghilterra, in quanto questo modello di sviluppo sarebbe individuabile con precisione proprio nella moderna collettività ebraica inglese, di cui ripercorre brevemente le fasi salienti a partire dal Settecento.
«Sebbene gli ebrei siano stati riammessi in Gran Bretagna da Cromwell nel 1653 (erano stai espulsi da Edoardo I nel 1290), soltanto verso la metà del XVIII secolo essi cominciarono a ricoprire un ruolo di rilievo nel mondo economico inglese. Dal momento che non erano numerosi – alla fine del XVIII secolo erano solo 25.000 gli ebrei insediati localmente ‒ non erano mai stati oggetto di diffuso antisemitismo né, d’altra parte, l’antisemitismo religioso rivestiva importanza particolare nelle principali religioni presenti in Gran Bretagna.
«Al contrario, molti motivi ispiratori dell’anglicanesimo suggerivano di considerare con favore gli ebrei. Diversi gruppi protestanti, specialmente quelli influenzati dal calvinismo, si consideravano anzi discendenti spirituali degli ebrei del Vecchio Testamento; altri reputavano un segno del favore di Dio sia lo stabilirsi degli ebrei in Gran Bretagna sia la loro prosperità economica» (pp. 6-7).
Inoltre la Gran Bretagna «era la sola nazione europea a garantire l’assoluta parità di diritti nelle leggi che regolavano le proprietà e i possedimenti di ogni genere, inclusi quelli conseguiti con l’esercizio dell'”usura”. C’era inoltre nell’aristocrazia inglese, piccola, sicura di sé e immensamente ricca, una singolare assenza di pregiudizi verso gli uomini di affari o verso la ricchezza che dagli affari poteva derivare» (p. 7).
Rubinstein si sofferma soprattutto sui rapporti tra capitale giudaico e quella che chiama élite politica inglese nel XIX e XX secolo.
«Nel mondo degli affari, la piccola comunità ebraica di quei tempi era quasi totalmente concentrata nella City di Londra. Gli ebrei erano in massima parte commercianti, banchieri, agenti di cambio, finanzieri, o impegnati in altri tipi di attività di intermediazione finanziaria. Sefardita all’origine, l’élite ebraica di Londra nel XIX secolo divenne a poco a poco tedesco-askenazita a causa delle migrazioni dall’Europa centrale. Le sue principali famiglie – tra i quali i Rothschild, i Montefiore, i Golsdsmid, i Samuel, gli Stern, i Beddington e i Sassoon – divennero immensamente ricche, formando una casta chiusa e con stretti vincoli di parentela che divenne nota come la Cousinhood (cuginanza)» (ivi).
Rubinstein aggiunge che queste dinastie ebraiche non suscitarono particolari motivi di risentimento antisemita nei centri minori, in quanto esse ruotavano attorno alle attività commerciali e finanziarie della City di Londra e non figuravano nelle industrie ad alto impiego di manodopera del Nord.
Né costituirono motivo di pregiudizi da parte dell’élite, poiché «nel periodo in cui la Gran Bretagna era la “stanza di compensazione” del mondo, esse rappresentavano l’asse portante dei suoi “invisibili” legami commerciali con i sei continenti. Tra l’altro queste famiglie erano in massima parte dislocate nella City, sempre aperta agli emigranti e ai nuovi arrivati. La formazione della Cousinhood coincise inoltre, fortuitamente, con una crescente tolleranza religiosa, tipica dell'”età delle riforme” vittoriana» (ivi).
Sino alla fine del XIX secolo gli ebrei inglesi formavano un circolo chiuso.
«Gli ebrei praticanti erano esclusi dalla possibilità di diventare membri della Camera dei Comuni, almeno fino al 1858. Disraeli, che naturalmente era stato battezzato già da ragazzo, fu così il solo ebreo a ricoprire un posto di rilievo nella politica inglese fino agli ultimi anni del XIX secolo. Fino alla metà del XIX secolo gli ebrei praticanti furono anche esclusi dalle Università di Oxford e Cambridge, con la conseguenza che gli ebrei inglesi ebbero un ruolo nella vita intellettuale di allora molto meno rilevante di quello che avrebbero avuto nel XX secolo. È difficile elencare più di quattro o cinque intellettuali inglesi che fossero ebrei: Disraeli e Ricardo (anch’egli convertito al Cristianesimo) sono forse i soli nomi che si possono ricordare» (pp. 7-8).
Rubinstein, che sorvola disinvoltamente sui crimini dell’imperialismo anglo-giudaico, a partire dalle guerre dell’oppio, sottolinea come non fu difficile a questa Cousinhood (l’autore precisa che agli inizi del Novecento circa il 20% di tutti i milionari inglesi erano ebrei) ‒ ben rappresentata da Nathan Rothschild (morto nel 1833), fondatore del ramo inglese della famosa banca d’affari, il quale «era probabilmente il più ricco borghese della prima metà del XIX secolo» ‒ di far valere la propria pesante influenza economica per entrare nell’élite inglese.
«Date queste enormi ricchezze, nel tardo Ottocento divenne relativamente facile entrare a far parte dell’élite politica inglese. Il caso dei Sassoon illustra al meglio ciò che la vera grande ricchezza rendeva possibile anche per la famiglia di più recente immigrazione. I Sassoon erano ebrei di Bagdad che non avevano mai messo piede in Europa, né mai indossato abiti occidentali prima della metà del XIX secolo. Come esercenti nell’Estremo Oriente di vari commerci (tra i quali quello dell’oppio), i Sassoon avevano accumulato un patrimonio che agli inizi di questo secolo venne valutato in 20 milioni di sterline.
«Stabilitisi in Inghilterra solo intorno al 1850, già nel 1910 erano divenuti baronetti e membri ereditari del seggio in Parlamento per il collegio di Hythe, nella zona rurale del Kent. L’uomo politico più notevole della famiglia, Sir Philip (morto nel 1939), ricoprì incarichi ministeriali negli anni Venti e Trenta, malgrado esistesse una notevole antipatia latente nei suoi confronti in quanto ebreo» (p. 8).
«Gli anni intorno al 1890 videro anche l’emergere di un nuovo gruppo di milionari ebrei sudafricani, specializzati nel commercio di oro e diamanti, quali i Beit, i Joel e i Barnato, assieme ad altri ricchi sudafricani, questa volta gentili, quali i Wehrner e i Rhodes, e diversi nouveaux riches americani; la nuova lobby divenne oggetto di forti ostilità sia da parte della destra che della sinistra» (p. 9).
Il periodo che va grosso modo dal 1890 al 1920 vede diffondersi anche in Inghilterra un’ondata di antisemitismo, ma ciò non produsse particolari effetti sull’élite ebraica inglese.
«Al contrario si può osservare che l’influenza e il prestigio della Cousinhood non erano mai stati così alti. Sul piano politico, ebrei praticanti assunsero per la prima volta incarichi a livello di Gabinetto nel lungo governo liberale del periodo 1905-1914, mentre in campo economico, nell’età d’oro del “capitale finanziario”, le grandi banche d’affari internazionali erano al massimo della loro ricchezza e influenza. L’elevata posizione e il grado di riconoscimento sociale che questa frangia di società anglo-ebraica poté raggiungere furono esemplificati in maniere evidente dall’amicizia e dalla protezione concessale dal re Edoardo VII. Anche molti uomini politici conservatori rimasero filosemiti; in particolare Arthur Balfour, leader del partito conservatore dal 1902 al 1911» (pp. 9-10).
Se Rubinstein cerca di sottacere o minimizzare, altri utilizzano la mole di materiali scientifici oggi disponibili per interpretazioni di segno opposto.
Esemplare a tale riguardo è lo scritto di Andrew Joyce, Free to Cheat: “Jewish Emancipation” and Anglo-Jewish Cousinhhod, Part 1, «The Occidental Observer», January 16, 2022; Part 2, August 29, 2022. Basandosi su una bibliografia scientifica mirata, l’autore ricostruisce in breve, ma con precisione, la storia delle agitazioni degli ebrei inglesi e dei loro complici (tra cui lo storico Macauly, che pure era consapevole del ruolo e del potere della finanza nella società e sosteneva che l’ebreo può governare il mercato monetario e il mercato monetario può governare il mondo, e che lo scarabocchio di un ebreo sul retro di un pezzo di carta può valere più di tre re) per ottenere la cittadinanza (le cui conseguenze per l’Inghilterra furono «lunghe e sordide, piene di ipocrisia, intrighi dietro le quinte e interessi etnici»), nonché la storia della capitolazione di un’élite britannica ormai largamente ebraizzata e la sua fusione nel sistema di dominio anglo-giudaico. Una figura emblematica al riguardo, scrive, fu Disraeli, compagno di merende di Rothschild e dei membri della “Cousinhood” ebraica, battezzato cristiano all’età di dodici anni, ma che non smise mai di sostenere gli interessi ebraici, e che nei suoi romanzi aveva sposato «un ripugnante suprematismo ebraico».
Anche se l’autore non menziona mai la massoneria, non si possono non ricordare, in merito al nostro argomento, le considerazioni di Carrol Quigley, docente alla Georgetown University, autore di varie opere, tra cui Tragedy and Hope. A History of the World in Our Time, New-York – London, 1966, riprese e ampliate nell’opera pubblicata postuma Anglo-American Establishment, New York, 1981 (trad. francese col titolo: Histoire secrète de l’oligarchie anglo-americaine, Editions Culture et Racines, 2020).
Nell’Avant-propos dell’ed. francese, riassumendo alcuni tratti salienti dell’opera, Pierre Hillard scrive che, grazie ai lavori di questo docente universitario americano, è ora possibile conoscere meglio gli arcani di quel mondo oligarchico opaco, la cui azione è stata determinante per il mondo anglosassone e, indirettamente, per l’intero pianeta.
Sulla scorta di un’abbondante documentazione d’archivio, Quigley mostra come le élites anglosassoni abbiano elaborato, nella metà del XIX secolo, un vero e proprio piano di battaglia allo scopo di consentire all’Impero britannico, associato agli Stati Uniti, di imporre un’egemonia assoluta sul mondo.
Questa volontà di potenza e di dominio è stata opera di un pugno di uomini legati all’alta finanza della City e di Wall Street. L’autore descrive i legami interni di questa ristretta cricca anglosassone dove il giudaismo e il mondo dell’alta finanza, impregnati d’una visione messianica, si adoperano a far funzionare l’enorme macchina dell’Impero britannico.
Per Quigley, questa alleanza giudeo-anglosassone-protestante è stata definitivamente sigillata a partire da Cromwell ad esclusivo profitto della City e della politica imperialistica inglese, sullo sfondo del messianismo giudaico.
Riguardo ai legami del giudaismo britannico con la famiglia reale non è senza interesse riportare quanto scrive recentemente un autorevole giornale ebraico (The Royal links that go back to “Natty” Rothschild. A hundred and thirty years ago, he made history in the relationship between the Royals and Britain’s Jews, by Zaki Cooper & John Cooper, «The Jewish Chronicle», January 15, 2020, thejc.com. John Cooper è l’autore di The Unexpected Story of Nathaniel Rothschild).
Centotrenta anni fa ‒ scrive il giornale ebraico ‒ Lord Nathaniel “Natty” Rothschild (1840-1915) fece la storia nei rapporti tra la famiglia reale e la comunità ebraica. Egli fu nominato Lord Lieutenant del Buckinghamshire, e questa fu la prima volta che un ebreo ricoprì tale carica. Natty aveva fatto un passo avanti rispetto a suo zio Mayer, il quale era stato High Sheriff del Buckinghamshire. I Lord Lieutenant svolgono un ruolo di ambasciatori nelle regioni.
In passato tra gli ebrei vi sono stati alcuni vice High Lieutenant, come Sir Samuel Montagu (1832-1911), il grande rivale di Natty, che era ortodosso e banchiere.
Rothschild non fu solo il primo Lord Lieutenant ebreo, ma anche il primo ebreo a sedere nella Camera dei Lord, dopo che gli era stato conferito un titolo nobiliare nel 1885. Il primo ministro liberale William Gladstone lo nominò pari ereditario. Nathaniel Rothschild seguì le orme di suo padre, Lionel, che era diventato il primo deputato ebreo nel 1858.
La nomina di Natty a Lord Lieutenant costituì una svolta significativa non solo per lui, ma per l’intera comunità ebraica. Il principe di Galles, futuro re Edoardo VII, strinse una stretta amicizia con Natty, del quale soleva dire: “È una brava persona e un uomo d’affari, e lui e la sua famiglia possiedono metà della contea”. Nel corso di diversi decenni lo stretto rapporto di Natty col re si intensificò.
Come capo della banca Rothschild, nel 1883 Natty mise a disposizione del principe 100.000 sterline, una somma enorme per quei tempi, accendendo un mutuo sulla tenuta di Sandringham; Edoardo espresse la sua gratitudine per la sua “gentilezza e liberalità”. Non sorprende che nel 1902 Natty fosse invitato a far parte del consiglio privato dopo l’incoronazione del re.
Rothschild ‒ continua il «Jewish Chronicle» ‒ era amico degli altri giganti della sua epoca: Disraeli, Balfour e Asquith, così come Theodor Herzl e Cecil Rhodes.
«Ha beneficiato dell’espansione imperiale della Gran Bretagna, ed in ciò ha avuto un ruolo, in particolare in Egitto e Sud Africa. La sua amicizia con Rhodes gli permise di investire pesantemente nelle miniere di diamanti del Sud Africa, in particolare De Beers, e di partecipare pienamente all’espansione delle profonde miniere d’oro nel Rand. Rhodes aveva una visione gigantesca di un Impero britannico alla conquista del mondo intero. Pensava che la Gran Bretagna dovesse conquistare l’intero continente africano. In una certa misura Rothschild condivise questa visione, e talvolta intervenne per sostenere le ambizioni politiche imperiali britanniche in Sud Africa e in Egitto.
«Sino alla fine della vita di Herzl, Natty sostenne i suoi progetti di colonizzazione a El Arish e nell’Africa orientale (…) Natty era una figura di spicco della sua epoca e intratteneva un rapporto particolarmente stretto con la famiglia reale. Era un uomo dai molteplici aspetti, ma in tutto ciò che ha fatto, il suo ruolo di Lord Lieutenant ha evidenziato i suoi stretti rapporti con la famiglia reale e ci ricorda che non c’è nulla di nuovo sotto il sole nell’impegno positivo di oggi tra la nostra comunità e la famiglia reale».
Il riferimento all’«espansione imperiale della Gran Bretagna», di cui i Rothschild seppero beneficiare da par loro, ci porta ora direttamente al cuore dell’imperialismo anglo-giudaico.
Il capitale giudaico adesso era abbastanza forte e influente da avventurarsi nell’intrapresa imperialistica, e lo faceva sulla base della coincidenza di interessi fra le aspirazioni messianiche di dominio mondiale degli ebrei talmudisti e quelle della plutocrazia britannica che mirava all’egemonia politica ed economica internazionale.
In generale la ricerca storiografica sull’argomento si divide fra i laudatori del sistema liberal-capitalistico e della concezione imperiale britannica e i suoi critici, fra i quali però non mancano gli smemorati e i reticenti.
Un esempio emblematico di tutto ciò è costituito dalla pur documentata ricerca di John Newsinger, Il libro nero dell’Impero britannico, Palermo, 2014.
Ogni pagina del libro di Newsinger, docente di Storia alla Bath Spa University (Inghilterra) ‒ che muove dalla rivolta in Giamaica del 1736 per arrivare fino ai giorni nostri, passando per i crimini commessi dagli inglesi in Irlanda, Cina, India, Egitto etc. ‒ è un severo atto d’accusa non solo contro l’imperialismo britannico, ma anche contro i suoi apologeti.
Nell’Introduzione alla seconda edizione (2013) (pp. 15 sgg.), l’autore rileva che le poche migliaia di copie di libri che sostengono la tesi antimperialista sono sommerse dalle enormi tirature dei libri di Niall Ferguson e compagnia cantante, alcuni opportunamente accompagnati dalla serie televisiva di turno.
A Westminster, continua Newsinger, pezzi grossi della politica, sia conservatori che laburisti, proclamano allegramente che l’Impero britannico fu cosa buona e giusta, e che non c’è nessuna ragione di scusarsi.
Come esempio delle apologie contemporanee dell’Impero l’autore cita il best-seller di Niall Ferguson, Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno (Milano, 2007), un volume inteso a caratterizzare lo spirito dei tempi (intervento in Iraq), nei giorni in cui la politica imperiale veniva celebrata come un vero e proprio dovere che s’impone alle grandi potenze nel loro rapporto con i popoli più deboli, e nel quale tra l’altro l’autore definisce «un periodo prodigioso» la sua esperienza nell’Africa coloniale, senza sottolineare che quel periodo fu reso possibile da uno dei più feroci episodi di repressione della storia imperiale britannica.
Ma lo sdegno di Newsinger si ferma alle soglie della Sinagoga.
Nelle pagine dedicate alle guerre dell’oppio (pp. 76-96), vera cartina di tornasole dell’imperialismo anglo-giudaico in Asia, egli riesce nella titanica impresa di non nominare neppure una volta il nome degli ebrei Sassoon!
È bensì vero che menziona i Rothschild tra i protagonisti della questione del Canale di Suez (p. 125), ma solo in quanto proprietari di una banca d’investimento, e non in quanto ebrei.
Mai gli ebrei compaiono nelle attività predatorie imperialistiche britanniche.
Ma il nome di Sassoon non compare neppure nel volume di Ferguson, ed anche i Rothschild stranamente vi compaiono sempre come uomini della finanza, e mai come ebrei.
Nondimeno, la natura politica degli intrecci tra plutocrazia, imperialismo britannico e affarismo ebraico emerge con tutta chiarezza da questa pagina esemplare:
«La maggior parte dei grandi flussi di denaro proveniente dai numerosi investimenti britannici oltremare scorreva verso una piccola élite di poche centinaia di migliaia di persone. Al vertice si trovava davvero la banca Rothschild il cui capitale totale tra Londra, Parigi e Vienna ammontava alla strabiliante cifra di 41 milioni di sterline, il che ne faceva senza confronti la maggiore istituzione finanziaria del mondo. La maggior parte delle proprietà della banca era investita in bond governativi, e di questi un’alta percentuale era in economie coloniali come l’Egitto o il Sudafrica. Né si può negare che l’estendersi del potere britannico in quelle economie generasse abbondanza di nuovi affari per i Rothschild e i leader politici del momento. Disraeli, Randolph Churchill e il conte di Rosebery erano tutti in modi diversi legati a loro sul piano sociale come su quello finanziario. Colpisce particolarmente il caso di Rosebery – che fu ministro degli Esteri con Gladstone e gli successe come primo ministro nel 1894 – il quale nel 1878 sposò addirittura la cugina di Lord Rothschild, Hannah» (Impero, p. 235).
Dicevamo stranamente, perché invece nella sua biografia di Rothschild (The House Rothschild. The World’s Banker 1849-1998, Penguin Books, 1999), Ferguson menziona a profusione l’ebraicità di Rotschild (ma anche dei vari Sassoon, Disraeli etc.).
Come abbiamo già osservato, la misura dell’estensione dell’imperialismo inglese è visibile plasticamente nelle cronologie delle conquiste e delle annessioni nel corso dei decenni, e nell’impressionante elenco dei territori dominati dalla Gran Bretagna in tutte le regioni del mondo che compaiono in Paul Ritter, Lebensgrundlagen britischer Weltherrschaft, München, 1941, pp. 141-143 e in Ferdinando Gral, L’Inghilterra annette ossia Le conquiste inglesi nelle cinque parti del mondo, Roma, 1941, pp. 5-9, 37 sgg.
In passato non sono mancate dure prese di posizione contro l’imperialismo britannico e i suoi crimini, soprattutto da parte di chi questo imperialismo lo ha veramente combattuto, e non solo sui libri.
Tra i numerosi articoli sull’argomento apparsi sulla rivista «Zeitschrift für Politik» ci limitiamo a segnalare: Fritz Stellberger, Die Entstehung des britischen Imperiums, 29 (1939), pp 625-638 e Hans Wolf, Die geistige Grundlagen des britischen Imperialsmus, 30 (1940), pp. 457-471, dove l’autore non manca di sottolineare gli stretti legami del capitalismo liberale col giudaismo e di rimarcare altresì il ruolo dello «jüdische Staatsmann Disraeli» (p. 461), «der grösste Jude, der je dem Weltreich gedient hat» (p. 71).
Va inoltre segnalato Hermann Lufft, Der britische Imperialismus, Bremen, 1940, cui nuoce però l’assenza di note e riferimenti bibliografici, appena giustificabile in un’agile rivista di politica come quella citata, molto meno in un volume di quasi 300 pagine.
Per ciò che concerne il nostro paese, cfr. Carlo Giglio, forse il maggior conoscitore italiano dell’imperialismo britannico in Africa: L’imperialismo britannico e l’ora presente, «Nuova Antologia», settembre 1939, pp. 131-138; Storia dell’imperialismo britannico dalle origini al 1783 (Il Primo Impero), Roma, 1940; Come l’Inghilterra s’impossessò dell’Africa Occidentale, «Rivista delle Colonie Italiane», marzo 1942, pp. 259-290.; Le origini del dominio inglese in Africa Orientale, «Gli Annali dell’Africa Italiana», 1942, pp. 349-288; Come l’Inghilterra s’impadronì dell’Egitto e del Sudan, ivi, 1943, pp. 173-216; La questione egiziana dal 1798 al 1841, «Oriente Moderno», n. 11/12, Novembre – Dicembre 1943, pp. 455-500.
Si vedano anche: A. Sammarco, La verità sul Canale di Suez, «Oriente Moderno», n. 1, Gennaio 1939, pp. 1-30, e Aldo Fiaccadori, La supremazia economica inglese e le origini della sua decadenza, Milano, 1940, dove troviamo appena un cenno agli ebrei, peraltro limitato all’età medievale (p. 26), ma nulla sul processo di giudaizzazione della classe dominante inglese e sul ruolo degli ebrei nella vita economica e nell’imperialismo della Gran Bretagna.
Per contro, Ottavio Bariè, Idee e dottrine imperialistiche nell’Inghilterra vittoriana, Bari, 1953, non manca di mettere in evidenza gli innegabili tratti ebraici che caratterizzano l’imperialismo di Disraeli (pp. 91 sgg.).
Su questo argomento esiste una ricca bibliografia. Fra le opere che rivestono un interesse rilevante per la mole di informazioni e per le puntuali indicazioni bibliografiche che contengono, non si può non menzionare Chaim Bermant, The Cousinhood. The Anglo-Jewish Gentry, London, 1971 (con tavole fuori testo riportanti l’albero genealogico di vari membri della “Cuginanza” giudaica), da cui emergono tutte le sfaccettature del connubio tra imperialismo, casta plutocratica britannica e capitalismo ebraico.
Per le stesse ragioni, non meno importanti sono diversi altri scritti: W. Rubinstein, Jewish top wealth-holders in Britain, 1809-1909, «Jewish Historical Studies» 37 (20019, pp. 133-161), ‒ che si pone sulla scìa degli studi di P. Emdem, The Jews of Britain (1943), Chaim Berman, The Cousinhood. cit. e H. Pollins, Economic History of the Jews in England cit., i quali esplorano il mondo delle grandi famiglie anglo-giudaiche ed il ruolo significativo giuocato dal capitalismo ebraico nelle industrie e nel sistema finanziario britannico, riportando lunghi elenchi, anche se non esaustivi, dei principali capitalisti ebrei, vissuti lungo l’arco di un secolo, con l’ammontare dei rispettivi patrimoni, dai tre più ricchi (Nathan Rothschild, circa 4-5 milioni di sterline; Herman Stern, 3.545.000 sterline; Alfred Beit, 8.050.000 sterline) a molti altri che possedevano patrimoni più o meno consistenti.
Ranald C. Michie, Jewish Financiers in the City of London: Reality versus Rhetoric, 1830-1914, «Academic Research Journal of History and Culture» 1 (1), January 2014, pp. 1-14, esamina il ruolo, l’importanza e i successi dei finanzieri ebrei nella City di Londra nel XIX e XX secolo e le ragioni dell’ostilità che si diffuse fra il pubblico inglese in quegli stessi anni, attribuita al loro modo d’operare considerato spesso fraudolento.
Altri lavori, pur non prendendo in considerazione direttamente il ruolo giuocato dal capitale ebraico, forniscono nondimeno un importante materiale grezzo da rielaborare criticamente: Y. Cassis, Bankers in English Society in the Late Nineteenth Century, «The Economic History Review» 38 (1985), pp. 210-229; J.R. Ward, The industrial Revolution and British Imperialism, 1750-1850, ivi, 47 (1994), pp. 44-65.
Una particolare menzione meritano due importanti scritti di Benjamin Ginsberg e David Feldman, che sono altrettante autoconfessioni ebraiche dinanzi ad un ideale tribunale della storia: B. Ginsberg, The Fatal Embrace. Jews and the State, Chicago and London, 1993; D. Feldman, Jews and the British Empire c. 1900, «History Workshop Journal» 63 (1), 2007, pp. 70-89.
Benjamin Ginsberg, docente di scienze politiche alla Cornell University e alla Johns Hopkins University, dopo aver sottolineato la «extraordinary prominence» degli ebrei nella vita economica, culturale e politica americana a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, e il loro «remarkable role» nell’edificazione di numerosi Stati sia nell’Europa cristiana che nel Medio Oriente musulmano fino all’età moderna, in merito al nostro argomento scrive (pp. 22 sgg.) che, anche se gli ebrei non figurano fra i creatori dello Stato liberale britannico, essi nondimeno hanno contribuito a rafforzarlo e ad espanderlo.
Fra la metà e la fine del XIX secolo gli ebrei accumularono enormi ricchezze e conquistarono una grande influenza politica: i Rothschild erano una delle due più importanti famiglie di banchieri, ma non meno importanti e influenti erano finanzieri come i Sassoon, i Cassel, gli Hirsch e i Semon.
Diverse famiglie ebraiche controllavano importanti organi di stampa, mentre un certo numero di uomini politici ebrei (a cominciare da Disraeli), tra cui G.J. Goschen, Farrer Herschell, Sir George Jessel, Rufus Isaacs, Edwin Samuel Montagu, raggiunsero «posizioni di considerevole influenza nel governo britannico».
Ginsberg richiama l’attenzione su quella che chiama «coalition» di forze aristocratiche, militari, politiche e culturali che, sotto l’influsso di Disraeli, concepì il programma imperialista in India, Medio Oriente ed Africa, e che noi chiameremmo più semplicemente “alleanza imperialistica anglo-giudeo-massonica”. Difatti, «finanzieri ed editori di giornali ebrei erano membri importanti di questa coalizione».
Alla fine del XIX secolo più di un quarto dell’intero capitale britannico era investito oltreoceano, e tra gli investitori figuravano numerosi ebrei.
«Gli interessi finanziari e affaristici ebraici furono componenti importanti dell’intrapresa imperialistica. Ad esempio, la rete ferroviaria che Sassoon aiutò a finanziare era strettamente connessa all’amministrazione imperiale, e l’agenzia di stampa di Julius Reuter funzionava come un meccanismo di comando e di controllo del governo coloniale. A volte il governo britannico si rivolgeva anche a case bancarie ebraiche per finanziare l’espansione coloniale.
«Ad esempio, l’acquisto del canale di Suez nel 1878 fu reso possibile grazie agli estesi contatti che Henry Oppenheimer aveva in Egitto e grazie ad un prestito di quattro milioni di sterline da parte di Lionel Rothschild. Il ruolo giuocato dal capitale ebraico nella creazione dell’impero britannico nel XIX secolo non sfuggì ai suoi critici. Nella sua classica opera che divenne la base della teoria dell’imperialismo di Lenin, J.A. Hobson affermò che “uomini di una razza unica e particolare, che ha dietro di sé secoli di esperienza finanziaria” costituiscono “il ganglio centrale del capitalismo internazionale”» (p. 24).
Feldman, docente di storia e direttore del Birbeck Institute for the Study of Antisemitism, School of Science, History and Philosophy, Birbeck, University of London ‒ considerato uno dei massimi esperti al mondo di storia dell’antisemitismo, il che non gli impedisce, dissimulando le vere ragioni dell’antisemitismo, che risiedono soprattutto nel secolare odio ebraico contro i non-ebrei, di ripetere sulla genesi dell’antisemitismo le solite banalità trite e ritrite a base di “pregiudizio”, “supersessionismo” e “cospirativismo” (cfr. Antisemitism: The Past, Present & Future. A conversation with Professor David Feldman, thougtheconomics.com) ‒ denuncia il silenzio degli studiosi riguardo al rapporto che aveva l’impero britannico con gli ebrei all’inizio del XX secolo, e si chiede se l’identificazione dell’imperialismo con la finanza ebraica da parte di J.A. Hobson e di altri critici radicali non abbia reso tale rapporto un problema difficile da tramandare alle future generazioni.
Eppure, osserva, l’argomento non manca di chiarezza.
Se si guarda ad alcune delle istituzioni centrali della comunità ebraica inglese, scrive Feldman, si scopre che esse avevano già una dimensione imperiale.
Il rabbino capo era il capo delle Congregazioni Ebraiche Unite non solo dell’Inghilterra, ma di tutto l’impero britannico.
Il sostegno del giudaismo britannico all’impero era addirittura smaccato (fulsome).
Nel 1897 il giubileo della regina Vittoria fu celebrato in ogni sinagoga della Gran Bretagna.
Il rabbino capo, Nathan Adler, ebbe a dichiarare con entusiasmo che «niente nella storia del mondo è stato più notevole della crescita e dell’espansione, a passi da gigante, della prosperità dell’impero, della sua popolazione e della sua ricchezza, del suo commercio ed industria».
Un paio d’anni dopo, il rabbino capo Adler sottolineò in un sermone che la dottrina religiosa ebraica coincideva col patriottismo imperiale.
Il ministro della sinagoga di Hammersmith, Michael Adler, dopo aver esaminato la condizione politica degli ebrei in quegli anni dell’impero, la trovò migliore che in qualsiasi periodo precedente dell’esilio.
Il Board of Deputies of British Jews, che rappresentava gli ebrei presso il governo britannico, «cercò di influenzare gli affari coloniali quando riteneva che fossero in gioco interessi ebraici».