Dal dì che nozze, tribunali ed are… Risposta a Giorgio Agamben. (Parte I)

di Roberto PECCHIOLI

Un  giornalista che investiga da sempre gli arcani del potere, Maurizio Blondet, ha rilanciato un breve scritto di Giorgio Agamben, il più importante filosofo italiano vivente, nel quale il pensatore romano si è chiesto polemicamente “come è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia ?”. Tutto ciò, per di più, in pochissime settimane dalla comparsa del Coronavirus, poiché di questo  si parla. Abbiamo accettato di perdere in un colpo tutte le nostre libertà più elementari, abbiamo accettato senza fiatare che i nostri stessi parenti, le persone che hanno accompagnato le nostre vite, morissero da soli, senza uno sguardo,  un funerale, gettati chissà dove e chissà come. Rifiuti da nascondere e annientare. Non più morti, ma unità statistiche per esperti armati di disinfettante in camice bianco alle prese con ascisse e ordinate.

Una regressione civile che fa dimenticare Antigone, la sorella che sfidò il potere fino alle estreme conseguenze per seppellire il fratello Polinice. In nome di un rischio reale, sì, ma comunque aleatorio, viviamo tra limitazioni enormi nella libertà di movimento, nelle relazioni, nella sospensione di fatto rapporti di parentela, affetto e amicizia, senza contare il blocco economico e produttivo. L’unico valore a cui tutto è sacrificato non è più la vita, ma la “mia” nuda vita e sopravvivenza biologica. L’era della libertà e della liberazione si è repentinamente trasformata nel suo contrario. Il nemico è chiunque, in quanto possibile veicolo di contagio.

L’invito a riflettere, a tentare una risposta, viene da pulpiti talmente autorevoli che si rischia, esprimendosi, di non essere all’altezza delle voci  di personalità tanto importanti. Pure, ci proviamo, avvertendo i lettori, tra i quali abbondano i frettolosi per i quali ogni approfondimento diventa prolissità, complicazione, fastidio, che a quesiti tanto importanti non ci sono risposte semplici, sintetizzabili in poche righe. Innanzitutto, i problemi posti da Agamben sono oggetto di vivace dibattito internazionale tra coloro che osano sfidare il pensiero unico. Segno da un lato dell’importanza del tema suscitato dall’autore di Homo sacer, ma anche dell’attacco concentrico, davvero  globale, sferrato ai modi di vita, alle abitudini e alla libertà, non dal Coronavirus, ma attraverso di esso, da un’oligarchia di potere  sempre più sfacciata e pervasiva.

Una prima osservazione riguarda  Giorgio Agamben. Due mesi fa, in un intervento molto contestato, aveva negato l’importanza del contagio. Sbagliava  clamorosamente, ma non per questo le sue osservazioni successive perdono importanza.  Lo stesso Agamben, peraltro, ha una storia culturale che desta sospetto nei numerosi possessori della verità, tanto sul versante della sinistra giacobina e iper materialista, che nella piccionaia della destra  di sempre, legge e ordine, chiacchiere e distintivo. Il fatto è che Giorgio Agamben, comunque si giudichi il suo pensiero, rompe diversi schemi.  E’ stato allievo e studioso di personalità tanto diverse come Martin Heidegger e Gilles Deleuze, si è occupato di estetica sulle piste di Walter Benjamin, ma soprattutto ha approfondito il tema indigesto del biopotere, sollevato per primo da Michel Foucault. Potere sulla vita concreta, sui corpi e sugli spiriti, indagine sul complesso rapporto tra diritto e vita e sulle dinamiche del concetto di sovranità. Il frutto di decenni di lavoro intellettuale sono nel monumentale Homo sacer, una prestazione lunga vent’anni.

Proprio questo rapporto con la categoria proibita del sacro, pur se inteso nella particolarissima accezione di Agamben, lo rende sospetto al pensiero dominante. Il sacro è stato espulso dal panorama concettuale dell’ uomo occidentale non solo perché è un tema collegato alla dimensione spirituale , ma in quanto mette in crisi il paradigma della ragione calcolante e il dogma per cui tutto può essere compravenduto. Il tempio è sacro, diceva Ezra Pound perché non è in vendita, orribile prospettiva nell’epoca della mercificazione generale che non risparmia la dimensione corporale, intima dell’uomo. Non si dimentichi che sono stati depositati brevetti relativi al DNA umano, divenuto un prodotto come gli altri. E’ merce il corpo umano vivente,  diventa semplice rifiuto da smaltire il cadavere. Agamben rompe lo schema , indaga il sacro, è quindi sospetto di leso materialismo.  Per di più, ha riflettuto molto sulla distinzione cruciale tra  bìos e zòe, i due modi greci per designare la vita. Zoe è quella che chiama “nuda vita”, il fatto biologico di esistere, respirare, mentre bìos è la maniera in cui si vive, l’unione di vita fisica e cultura. Se vogliamo, sono modi distinti di designare corpo e anima, materia e spirito.

Ecco perché solo Agamben poteva porre il tema iniziale, la domanda capitale: l’epidemia, il modo con cui la affrontiamo, permette ancora di chiamare umanità la nostra specie, o abbiamo ceduto –per iniziativa, volontà e interesse del potere-  al semplice istinto di conservazione ? L’uomo, quindi, è ancora sacro? La risposta, allo stato dei fatti, è no. Quanto alla domanda posta da Agamben, abbiamo una nostra risposta, cui allude il titolo del presente elaborato.  Ugo Foscolo, nei Sepolcri, la vetta della sua poetica e del pensiero romantico italiano, afferma che l’uomo è diventato davvero civile, ovvero consapevole di se stesso “ dal dì che nozze, tribunali ed are/dier alle umane belve essere pietose/ di se stesse e d’altrui”.  Non si è ancora uomini, o non lo si è più, senza leggi, matrimonio e religione. Ci volle un poeta per gridarlo, ma lo aveva già capito un filosofo, Giambattista  Vico, nella Scienza Nuova. Per  il grande napoletano esistono delle “degnità”, dei principi comuni, l’antropologia direbbe delle invarianze, in ogni civiltà umana: tutte volgono lo sguardo verso l’Oltre, attraverso la religione; in tutte si contraggono matrimoni solenni e ciascuna, in modi diversi, seppellisce i suoi morti.

In queste settimane, i poveri corpi dei deceduti per contagio non hanno diritto al compianto, al rispetto e all’addio. Frettolosamente coperti e, in genere, bruciati. La più orgogliosa, sapiente,  civilizzazione della storia universale, ha rinunciato alla sepoltura, dopo aver abolito lo sguardo verso l’alto. Nessun Dio, nessuna religione, nessun afflato spirituale. Quanto alle nozze, a parte l’assurdo logico dell’unione tra persone dello stesso sesso,non è che un contratto di diritto privato, sostanzialmente a termine, con clausole, commi, codicilli, modalità di esecuzione e termini di impugnazione. I tribunali non deliberano più in base ad alcun principio generale o alla rifiutata legge naturale, ma semplicemente al criterio del momento, imposto dal più potente o da maggioranze momentanee manipolate dall’alto. Lo chiamano positivismo giuridico, è il trionfo dell’oggi.  Siamo ancora una civiltà, dunque, siamo ancora in grado di distinguere tra zòe e bìos ?

Temiamo di no, e con questo avremmo risposto a Giorgio Agamben : non è crollata “politicamente ed eticamente, “ una nazione, ma si è accartocciata su stessa una civilizzazione. C’era bisogno del detonatore, presentatosi sotto forma di un virus sconosciuto dalle origini assai sospette; il risultato è quello drammaticamente colto da Re Lear: sono tempi maledetti quando i ciechi conducono i pazzi. O, con le parole di uno scrittore molto amato da Agamben, José Saramago, “non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono”. E, aggiungiamo , non sanno vedere altro che zòe, la nuda vita minacciata.  La regressione non è evidente alla massa, non è percepita perché troppo lungo è il cammino all’indietro – o in avanti- è lo stesso, Gran parte della gente- senza distinzione di cultura- non è in grado di comprendere la domanda di Agamben per estraneità, mancanza di strumenti per immaginare – solo immaginare- modi di vita diversi da quelli correnti.

E’ la grande vittoria dell’ Homo materialis sull’homo sacer. Il vecchio Nietzsche, nella sua geniale, visionaria follia, ci offre l’immagine degli “ultimi uomini”, la nuda vita tanto somigliante all’umanità di questo preciso momento storico. L’ultimo uomo è una creatura apatica senza passioni né impegni” , se non il puro istinto di conservazione. Aborre i rischi e cerca solo comodità, sicurezza e tolleranza reciproca, rileva senza inquietarsene troppo lo psicanalista e filosofo neomarxista Slavoj Zizek.  Ecco il “sacro” dell’umanoide occidentale contemporaneo,  il culto della sicurezza ( e del controllo che ne deriva) , la tacita accettazione di tutto: lasciatemi in pace, lasciatemi vivere, nel senso animale del termine.  “Ahimè! Si avvicina il tempo dell’uomo più disprezzabile, quello che non sa più disprezzarsi. […] La terra è diventata piccola e su di lei saltella l’ultimo uomo che rende tutto piccolo. La sua razza è inestinguibile come quella della pulce di terra; l’ultimo uomo vive più a lungo di tutti. Noi abbiamo inventato la felicità,  dicono gli ultimi uomini, e ammiccano”. L’uomo contemporaneo non sa più disprezzarsi, preso com’è a sorvegliare, difendere, auscultare la propria individuale sopravvivenza, venerare il proprio ombelico.

Che senso avrebbe disprezzarsi, poi? Conosciamo tutto, abbiamo forzato molti segreti della natura, l’homo sapiens è talmente sapiens da dominare l’universo, tranne un grumo invisibile, il virus.  Abbiamo inventato la felicità! Felicità è l’ultima moda, il partner giusto per oggi, la vita media che si allunga . Tutto è a portata di mano. E non abbiamo niente. Prosegue Nietzsche-Zarathustra: Ammalarsi e diffidare è da loro considerato peccaminoso: si procede circospetti. Stolto chi incespica ancora nelle pietre e negli uomini. […] Nessun pastore e un solo gregge. Ognuno vuole la stessa cosa, ognuno è uguale: chi sente in modo diverso, entra spontaneamente in manicomio“. Ammalarsi è Il Male che si incarna, la salute è insieme idolo, totem e tabù, incarnato nelle nostre menti.  “Una la cultura, una la legge, uno il pensiero, nessun padrone e molte pecore. (…). “Il prossimo mio, pensa come si deve pensare o è un folle? Per questo procediamo circospetti, intenti a scovare coloro che hanno un’idea diversa: è impossibile avere un’idea diversa, non è sano”. Un po’ di veleno di tanto in tanto procura sogni piacevoli. E molto veleno alla fine, per una morte piacevole”. Cristallizzate in queste frasi di Zarathustra, ritroviamo i nostri terrori: la paura della sofferenza e della morte.

Agamben individua nel male presente precise responsabilità: quelle della Chiesa, che per la prima volta in due millenni ha taciuto, sospeso riti e sacramenti, ridotta a stanco megafono del potere: restate a casa ! Non salì sulla croce per così poco, il fondatore. Poi le responsabilità dei giuristi, che hanno accettato senza fiatare modalità di decisione estranee allo Stato di diritto di cui vantavano le meraviglie. E’ lo stato d’eccezione, Agamben conosce bene Schmitt, ma spaventa il silenzio di tecnici e teorici del diritto , che hanno abdicato come la Chiesa. L’una, al dovere di richiamare l’uomo al suo destino più elevato e intanto consolare, diffondere speranza e conforto. Il diritto, all’impegno di verificare la portata delle norme , la loro compatibilità con il sistema di cui erano  custodi orgogliosi e pignoli. Insegnavano, prima del virus sovrano, che nel diritto la forma è sostanza, ma si legifera a colpi di decreti del presidente del consiglio e un governatore di regione, Vincenzo De Luca, convinto di sedere sul trono del Sacro Campano Impero, minaccia di chiudere i confini del suo dominio, forse attraverso una guardia neoborbonica attestata sul Garigliano e sui monti del Matese.

Stiamo vedendo tutto e il contrario di tutto, con il sottofondo insopportabile di esperti che strologano e litigano su ogni cosa in quanto nulla sanno dell’essenziale , mentre l’uomo della Ragione, l’illuminato e illuminista post moderno chiede a gran voce il miracolo, come nell’esecrato medioevo. Si scopra il sepolcro ed esca il Vaccino Redentore. Sarà Bill Gates, Big Pharma o un umile medico di provincia, ma il nuovo Avvento si chiama vaccino, demiurgo della religione tecnica e scientifica che perde i suoi credenti per colpa di Covid19, invisibile livella postmoderna. Ha ragione Agamben: tutto nasce da una scissione, una delle tante della modernità: “ abbiamo scisso l’unità della nostra esperienza vitale, che è sempre inseparabilmente corporea e spirituale, in una entità puramente biologica da una parte e in una vita affettiva e culturale dall’altra”. Ancora, zòe e bìos, ma è la prima, la nuda vita, a vincere e farci accettare tutto per un pezzetto di esistenza in più.

Lo stato di eccezione sarà davvero provvisorio o si protrarrà e il nostro futuro sarà il distanziamento sociale, sintagma dolciastro, eufemismo che nasconde solitudine, soggettivismo estremo e ostilità per il prossimo, possibile untore, veicolo di contagio, nemico oggettivo e assoluto ? Abbiamo paura della risposta che sgorga dalle labbra. Se il virus reale cela un esperimento di ingegneria politica e sociale, temiamo che stia riuscendo in pieno, in Italia più che altrove. Nessuna voce politica dissenziente, pochi irregolari a eccepire, i soliti, un anziano filosofo sbeffeggiato, trattato da cretino per aver osato porre il problema della libertà concreta, quotidiana e persino del senso della vita ( biòs o zòe) al tempo felice della civilizzazione liberale, liberista, libertaria e libertina. Una società programmaticamente aperta, spalancata, che si richiude in un attimo per il terrore del contagio e disprezza, squalifica, taccia di mentitore e punisce penalmente chi esercita la funzione più sacra e umana di tutte, il pensiero.

Ne riparleremo, poiché l’ intervento di Giorgio Agamben è l’ultima di una serie di riflessioni svolte nell’ultimo mese e mezzo, alle quali il sistema ha risposto nei soli modi che conosce: l’insulto e la ridicolizzazione. Se è vero che la nostra società è fuoriuscita dalla civiltà umana per i motivi sostenuti all’inizio, è importante conoscere per intero le argomentazioni di Agamben e quelle dei suoi “illuminati” detrattori. Resta valida la vecchia provocazione di Massimo Fini: la Ragione aveva torto ?