USCIRE DALLA CAVERNA?

 

 

di Roberto PECCHIOLI

La presente riflessione ha il punto interrogativo. Non afferma, chiede. Non si propone di fare luce, si limita a cercare una lanterna. Nella tradizione dei Veda, le scritture sacre induiste, il Kali Yuga è l’ultima delle quattro ere del mondo: un’età oscura, caratterizzata dal conflitto e dall’ignoranza spirituale. Al termine, il mondo rinascerà con una nuova Satya Yuga (età dell’oro). Non prosegua la lettura chi è convinto che il presente sia un’era di libertà, progresso e felicità e neppure chi pensa che, nonostante i problemi, prima o poi ritroveremo un equilibrio, un centro, un asse attorno al quale rimettere “in forma” la nostra civiltà.

Non ci crediamo più: troppo avanzata è la decadenza, tanto che la maggioranza degli europei e degli occidentali non ne ha coscienza. La talpa non sa che sopra il mondo sotterraneo in cui vive esiste un mondo di luce. O, per fare un esempio più “alto”, l’uomo che è sempre vissuto nella caverna non conosce il mondo esterno. E’ la famosa metafora di Platone, uno dei fondatori della nostra civiltà, messo sotto accusa, significativamente, da falsi filosofi come Karl Popper, il banditore della società aperta di cui sentiamo sulla pelle il vento gelido che chiamano liberazione dai vincoli, opportunità, emancipazione.

La domanda è quella iniziale: vogliamo uscire dalla caverna o rimanervi, felici e rassicurati dal progresso incessante della società tecnologica, liberal libertaria e materialista? O è forse meglio impegnarsi ad affrettare la fine del ciclo, lavorare di pala e piccone per distruggere ciò che resta di tre millenni e più di cultura, civiltà, presenza dell’uomo bianco europeo? Chi scrive non ha la risposta, ma ha una certezza: questa è una sotto cultura, una civilizzazione di morte, un obitorio a cielo aperto dal quale fuggire. Purtroppo non c’è una caverna alternativa a disposizione, o un luogo fisico nel quale vivere e riconoscersi come uomini, comunità, creature. Restano il foro interiore, il cuore ed il cervello, uniti al desiderio prepotente, l’esigenza incontenibile di dissentire, gridare no.

Finirà questo calendario; farà anche presto: una cultura di morte è tale proprio in quanto corre verso l’estinzione.

Gaia, urlata, tra colori, luci e lustrini, ma sempre di morte si tratta. L’appello, prepotente, quasi disperato, è agli uomini di buona volontà: volete almeno lasciare traccia, costituirvi in opposizione, lasciare il segno del vostro dissenso come segnavia per qualcuno che verrà, o preferite la morte lenta, il dissanguamento “dolce”, l’eutanasia protagonista dell’angosciante kali yuga? La fede cristiana obbliga a mantenere la speranza, poiché il disegno divino è imperscrutabile e la nostra Babele, le nostre Sodoma e Gomorra non sono le prime sulla scena del mondo. L’Ecclesiaste ci ricorda che nulla di nuovo vi è sotto il sole, e ciò che è stato sarà ancora. La persona umana, tuttavia, ragiona su un pugno di decenni, quelli della sua vita: non sa, non può aspettare. Fornita del libero arbitrio e del bene dell’intelletto, deve agire.

Il nostro giudizio è chiaro: siamo nel pieno di una decadenza civile, morale, esistenziale, viviamo un tempo spiritualmente insensibile e psicologicamente fragilissimo, in cui al relativismo si è sovrapposto un pensiero debole, ma fortissimo nella china nichilista. L’essere e il nulla: il titolo dell’opera maggiore di uno dei cattivi maestri del XX secolo, Jean Paul Sartre è il simbolo di un male sottile, l’infezione, la sifilide mentale che ha corroso la nostra gente. Non resta che levare la voce, simile a quella del Battista, voce di chi grida nel deserto, nella speranza di scuotere l’albero, lasciare qualche seme per il domani e, comunque, dire a chi verrà che non tutti, nell’Occidente sazio e disperato, hanno accettato senza lottare la fine della loro civiltà.

Sì, vogliamo uscire dalla caverna e innanzitutto gridare che sappiamo che è tale. Lo dimostra il buio in cui brancoliamo, dal quale vogliamo uscire per scoprire una buona volta che cosa c’è là fuori, respirare un’altra aria, sbattere le palpebre davanti a una luce nuova. Occorre essere cauti, non ci si può risvegliare di colpo; non c’è un principe per scuotere dal sonno la Bella Addormentata. Bisogna agire come Fiorello all’inizio del Barbiere di Siviglia: “piano, pianissimo, senza parlar, tutti con me, venite qua. Piano pianissimo, eccoci qua. Tutto è silenzio, nessun qui sta, che i nostri canti possa turbar.” O forse è più efficace l’invocazione di Paolo nella lettera agli Efesini: svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà. Trascurate, eventualmente, l’esortazione confessionale, ma lasciate che siano gli occhi a vedere, la ragione a valutare.

In questi giorni abbiamo visto e trascurato come bagatelle (Bagatelle per un massacro, con le parole di Céline) alcuni episodi di cronaca giudiziaria. La Corte di Cassazione a sezioni riunite ( il massimo dell’ufficialità giuridica istituzionale) ha stabilito che si può coltivare cannabis per uso personale; un tribunale della repubblica ha assolto l’esponente radicale che ha promosso il suicidio per eutanasia  di DJ Fabo; il giudice arbitrale di una trasmissione televisiva di Mediaset –  il male fatto dai media di Berlusconi all’Italia è enorme- dedicata a controversie civili, ha rifiutato di concedere la separazione con addebito a un marito la cui moglie vuole offrire l’utero per la gravidanza impossibile di un’amica. La chiamano pudicamente GPA (gestazione per altri), ma è un turpe commercio all’ombra della tecnologia, pur se nello specifico la signora non intendeva farsi pagare il “servizio” fornito: stavolta, utero senza fini di lucro.

Un’amica ci ha rivelato la condizione di milioni di altri: lavora per 3 euro all’ora, in condizioni non facili e senza garanzie. Poche settimane fa l’ISTAT ha fornito un quadro tremendo della natalità, dello sfilacciamento delle famiglie, della solitudine di milioni di connazionali definiti “famiglia mononucleare”. Eufemismi politicamente corretti, come interruzione volontaria di gravidanza, non vedente o diversamente abile, per celare un vuoto riempito dalle mille sfumature di grigio di una sottocultura di morte.

Probabilmente, siete d’accordo con le situazioni esposte e con il modo di vita di cui sono espressione: è normale. La pressione mediatica, socio culturale, civile è troppo grande perché abbiate tempo e voglia di riflettere un po’ più a fondo, tanto meno dire no, in mezzo alla corsa della vita, delle difficoltà di ogni giorno. Se però ci pensate, converrete che tutto va verso un’estensione della morte. Drogarsi diventa lecito: sono fatti miei, anche se significa degrado personale, disastro morale, decadenza collettiva, malattie, illegalità varie. Sono “fatti loro” i vantaggi. Quelli di chi controlla la produzione, il traffico e la distribuzione (spaccio no, è parola brutta dell’era proibizionista). Chiedetevi se gli interessi siano solo della criminalità propriamente detta – mafie, cartelli, malavita spicciola- o se dietro la diffusione di certe sostanze non ci sia qualcuno seduto nei consigli di amministrazione di banche e multinazionali, di potentati politici, di servizi segreti per nulla deviati.

Intanto la decadenza della società avanza sulle ali dell’uso di erbe, polveri e pasticche. Nessun problema. Sei malato, soffri o sei depresso. Puoi morire con assistenza medica, con tutte le garanzie. Se sei vecchio, meglio ancora. Ricorda di lasciare i soldi per il funerale e, se qualche organo è in buono stato, sii felice che te lo espiantino. In un film di fantascienza – ma spesso la fantascienza è solo preveggenza- I sopravvissuti-2022, le persone anziane erano spinte a lasciare la vita in tranquillità, lontani dalle famiglie, tra musica classica e fondali colorati in centri di eutanasia che trasformavano poi i resti in farina alimentare. Ecco a che serve la nostra esistenza. Si può abortire a piacimento, e, comunque la pensiate, non potete negare che si tratta di negare la vita a un futuro essere umano, altro che l’ablazione di un grumo di cellule. Si può anche affittare l’utero per sgravare di tempo, fatica, dolore e problemi una donna più ricca che vuole un figlio.

Se siete uomini (uomini?) potete vendere il seme dopo una solitaria prestazione in ambiente asettico con provetta alla mano. Questa sì che è civiltà. Son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive, è il brutto verso di Terenzio Mamiani citato con sarcastico sberleffo da Giacomo Leopardi. Avete ancora voglia di sposarvi? Strano, siete tra i pochi, ma dimenticavo, forse lo fate tra uomini, o tra donne. In quel caso va benissimo. Se volete figli, un modo si troverà: scienza e tecnica, unite nel Dio mercato, vi soccorreranno. Ogni desiderio è un ordine per il cliente solvibile e pagante. Quanto alle leggi, abbiamo inventato il positivismo giuridico, ovvero vale ciò che è legale oggi, domani vedremo, senza riguardo alla morale, alla giustizia, al bene. O forse aveva già capito tutto Semiramide, la regina babilonese rotta a ogni depravazione, che “libito fé licito in sua legge” secondo Dante, ovvero rese legale ogni suo capriccio e bassezza.

Il diritto di Semiramide sembra essersi impadronito dei codici occidentali. Unioni sterili, droga libera, alcoolismo, abortismo. Può piacere, piace, ma sono trucioli di una cultura di morte. Abbiamo creduto a un immigrato a Vienna moravo di ascendenza ebraica, Sigmund Freud: tutto nasce nelle sfere infere dell’uomo, tra pulsione erotica e tensione alla morte. Scrisse un grande poeta spagnolo, Juan Ramòn Jiménez, “E’ verità, adesso. / Ma è stata talmente menzogna, / che continua ad essere impossibile, sempre.” Forse dovremmo imparare a memoria la strofa, scriverla a lettere di fuoco nel profondo dell’anima. Non ci stiamo, non crediamo alle menzogne postmoderne, vogliamo uscire dalla caverna e vedere la luce. Il più grande poema della nostra letteratura termina la sua prima cantica, l’Inferno, con un prodigioso endecasillabo: “e quindi uscimmo a rivedere le stelle”.

State pur dentro alla vostra caverna, paradiso di libertà, democrazia e progresso. Come mai, però, non siete felici? Anche i più insensibili avvertono una mancanza, la nostalgia di qualcosa cui non riescono a dare il nome. E’ il senso perduto del Bello, del Giusto, del Vero, rovesciati al tempo delle streghe di Macbeth. Bello è il brutto, e brutto è il bello. Ognuno è infelice a suo modo, aveva ragione Tolstoj, ma l’assenza della bellezza, della grandezza, della trascendenza lascia il vuoto anche nei cuori induriti dal cinismo e dal consumo. Abbiamo la democrazia, dicono, e dovrebbe bastarci. Uno a cui dovreste prestar fede, il nipote di Freud, Edward Bernays, inventore della moderna propaganda, scrisse che la democrazia è il miglior modo di dominare i popoli, se si possiedono i mezzi di comunicazione e si controlla la diffusione delle notizie. Appunto.

E’ così bello, vi fanno credere, l’universo liquido della caverna. Tutto cambia, basta con i punti di riferimento, che orrore tutto ciò che è “per sempre”. Sarà, ma allora perché non siete sereni, perché sentite confusamente che non tutto ha un prezzo, che il cartellino e il codice a barre bastano. Disse Ezra Pound, poeta maledetto perché odiava gli usurai, signori di questo tempo bastardo, che il tempio è sacro perché non è in vendita. Probabilmente, anche nella caverna vorreste qualcosa di solido, un principio, un valore, un’idea a cui inchinarvi. Ah, ma l’avete già, dimenticavo. Si chiama Mercato, è un Dio esigente e volubile; qualcuno, come il modesto scrivano, ritiene che sia la sorgente dei mali che subiamo. Se tutto ha un prezzo, niente ha valore, se non il valore stesso.

Non crediamo più in nulla, adoriamo le cose, e intanto la crisi economica prodotta dal dio usuraio ci trascina alla perdita della nostra libertà, della stabilità, dell’identità perduta per cui ci guardiamo allo specchio senza riconoscerci, nell’orrore del vuoto che riempiamo correndo a perdifiato. La meta: il nulla. Può darsi che la nostra sia una visione apocalittica, fosca in quanto incapace di capire, troppo grossolana per cogliere la bellezza del mondo nuovo. Bellezza, poi: l’arte è oggettivamente brutta, anzi assente, giacché chiamano arte la bizzarria e l’agitazione. Gran parte della musica è solo ritmo, baccano elettronico per esaltare la discesa dell’animo verso il basso. Spesso è franca apologia dei paradisi artificiali, droga, alcool, sesso, sfrenatezza, “sballo”.

C’è bisogno di paradisi artificiali, nella caverna, perché quelli veri, naturali, sono stati cancellati, screditati, derisi, come qualsiasi idea, gesto, pensiero che distragga dal Mercato, dal consumo, dalla fuga verso il nuovo, l’inusitato, il gigantesco. Nella cultura popolare francese c’era il Grand Guignol, una forma teatrale fatta di sangue, violenza, orrore, macabro, crudo realismo. Morto nei teatri parigini, ha conquistato il mondo reale della caverna. Ha vinto il caos: niente più famiglia, Dio è morto, i legami naturali sono derisi, quelli comunitari sciolti. Conta ciò che Io voglio, Io, l’unico finto sovrano in tempo d’Usura. Voglio godere fino a morirne, bere, drogarmi, urlare, suonare, dimenarmi. Posso farlo. Voglio distruggermi, ancora meglio. Morire, è così facile. Voglio credere di essere padrone della natura, decisore unico, femmina oggi, maschio domani, domenica ermafrodito, il bianco è nero, la neve scalda. Si può fare, anzi si deve. Nella caverna imperano valori divenuti luoghi comuni: pace, amore, libertà senza limiti, accoglienza, uguaglianza. No, quella no, almeno non nel portafogli.

Siete diventati liberali tanto quanto in altri tempi sentivate la fascinazione per l’utopia rossa, ma non capite che il marxismo ha vinto sotto mentite spoglie. Ha perso l’utopia egualitaria e, complice d’Usura, si è vestito di libertarismo, emancipazione, universalismo, globalizzazione, ribaltamento di tutti i valori. Insieme, il rosso stinto nel fucsia degli internazionalisti e il grigio dei signori del denaro senza patria, ci hanno gettato nella caverna, colonizzato l’immaginario, estirpato tutto ciò che tendeva in alto, puntava all’Oltre, allo spirito. Viviamo un ossimoro sorprendente: l’individualismo conformista. Anche chi non è d’accordo con quanto scritto sa, in un angolo del Sé, di non essere felice, di essere rimasto orfano. Orfani di qualcosa e di qualcuno: mancano i padri, sono stati cacciati dalle cattedre i maestri, gli eroi fanno ribrezzo. Bertolt Brecht, un altro dei mille distruttori, scrisse “beato il popolo che non ha bisogno di eroi”. Falso, terribilmente falso. L’eroe è un esempio da seguire. Non necessariamente è un guerriero o un conquistare. Eroe è una madre che cresce i figli, uno che lavora con onestà una vita intera, eroe è chi fa il suo dovere e accetta le responsabilità dei suoi atti.

Allora, provate una volta a chiedervi se il buio della caverna, intervallato dalle luci del varietà, è l’unico destino e, tutti insieme, proviamo a rialzarci. Tentiamo la fuga dal quadro astratto che è diventata la nostra società, una colata informe di colori gettati a caso, linee impazzite, né alto né basso, ne sotto né sopra, nessuna direzione o figura reale, e riprendiamo la strada della concretezza, del bene comune. Un poeta, Eugenio Montale, nella Casa dei Doganieri, invitò invano a riannodare il filo spezzato.” Libeccio sferza da anni le vecchie mura/e il suono del tuo riso non è più lieto:/la bussola va impazzita all’avventura/e il calcolo dei dadi più non torna/ Tu non ricordi; altro tempo frastorna/ la tua memoria; un filo s’addipana/ Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana /la casa e in cima al tetto la banderuola/affumicata gira senza pietà. /Ne tengo un capo; ma tu resti sola/ né qui respiri nell’oscurità.”

Concludeva con una triste constatazione: ed io non so chi va e chi resta. Andare, uscire dalla caverna, è un’ardua scommessa; restare nella caverna è morire mille volte. Fuori dalla caverna, fuori dalla post modernità. Deglobalizziamoci, diventiamo quel che siamo: uomini liberi. Oppure, sempre con le parole di Nietzsche, accettiamo la profezia di Zarathustra e non pensiamoci più: “La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quello che tutto rimpicciolisce. La sua genìa è indistruttibile, come la pulce di terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti. Noi abbiamo inventato la felicità, dicono gli ultimi uomini, e strizzano l’occhio.”