SULLE ULTIME INNOVAZIONI LITURGICHE DELLA SANTA MESSA – di Luigi Copertino

SULLE ULTIME INNOVAZIONI LITURGICHE DELLA SANTA MESSA

Si vuole qui trattare delle ultime innovazioni liturgiche introdotte nel Rito della Santa Messa per esaminarle una alla volta. Con una premessa essenziale, però, ossia che lo scrivente non è né teologo, né biblista né liturgista e che quindi quelle seguenti sono soltanto le sue personali considerazioni di cristiano cattolico che, pur nel pieno rispetto della competente Autorità ecclesiale e della comune fede apostolica, si è posto alcuni interrogativi.

E’ necessario, sempre in premessa, rammentare che il Cristianesimo non ha, come l’islam, una “lingua sacra” sicché – ed è segno non casuale della sua apertura universale – i testi scritturali della fede cristiana hanno avuto, nel corso dei secoli, diverse traduzioni per l’evidente necessità del processo dinamico di evangelizzazione dei popoli. Orbene, come è noto, “tradurre” ha la stessa radice di “tradire”. Questa parola, che per noi ha un significato negativo, non aveva in origine altro significato che quello di “trasmettere adeguando ciò che si trasmette al contesto percettivo del ricevente”. Tale è il senso del latino “tradere”, da cui appunto i nostri “tradurre” e “tradire”.

Nel caso dell’islam l’arabo è lingua sacra perché sussiste la pretesa che il Corano, rivelato e scritto per l’appunto in arabo, sia la Parola di Dio consustanziale all’Eterno e, quindi, in via di principio non traducibile: il che rappresenta una chiara limitazione ad un pieno universalismo (e qui c’è da riflettere sul senso di tale limitazione a-universalista benché l’islam si voglia universale).

Nel Cristianesimo, invece, la Parola di Dio non è un Libro ma si è incarnata nella Persona di Cristo ed essendo dunque Essa, la Parola, una Persona, che, sul piano storico, ha usato il linguaggio del suo tempo e del suo luogo originario, è legittimamente soggetta all’operazione di “traduzione/trasmissione/tradimento” nella dinamica dell’incontro e della penetrazione nelle varie culture dei popoli che accolgono la fede.

Sappiamo che dall’aramaico/ebraico, utilizzato Gesù, la prima traduzione fu quella in greco – la lingua della koiné ellenistico-romana del tempo – per poi passare al latino che, essendo la lingua ufficiale dell’Impero di Roma, portava con sé quella prefigurazione universalista più tardi resa concretamente reale, raggiungendo effettivamente tutto il mondo, dalla Chiesa nel suo estendersi urbi et orbi. Gli specialisti concordano nell’ammettere che dietro il testo greco dei Vangeli si scorge una evidente radice linguistica ebraica, come quella di chi abbia tradotto in greco ma partendo da una struttura, anche mentale, ebraica. D’Altro canto ad un processo di traduzione era già stato soggetto l’Antico Testamento che dall’ebraico, in età ellenistica, fu tradotto in greco secondo la cosiddetta versione “dei Settanta”, la stessa usata dagli ebrei ai tempi di Cristo prima che il rabbinato decidesse, in opposizione alla nuova fede cristiana, di tornare, ossia ritradurre dal greco, all’ebraico dando forma, molti decenni dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme, al cosiddetto “testo masoretico” della Bibbia ancor oggi usato dagli ebrei.

Ora, il problema ad ogni traduzione dei Vangeli, e degli altri testi scritturali, è sempre stato quello di riuscire a trasmettere nel modo migliore possibile il testo originario, conservando il massimo di fedeltà possibile allo stesso e tuttavia calandone il significato ed il senso in un contesto altro e pertanto utilizzando gli schemi linguistici altrui meglio corrispondenti a detto senso e significato da veicolare. Un compito evidentemente non facile e sempre esposto al rischio di traduzioni non perfette che tuttavia, provvidenzialmente, non hanno mai inficiato l’essenza del contenuto rivelato cui i fedeli devono prestare fede.

Vediamo, dunque, quali sono state le innovazioni recenti alla liturgia.

Fratelli e sorelle

Nell’Atto penitenziale e nella Presentazione dei doni è stato introdotto un “fratelli e sorelle” in luogo del solo “fratelli”. Chiaramente qui l’innovazione sarebbe di poco conto se non fosse che essa dà l’impressione di una acquiescenza al politicamente corretto, lo stesso per il quale, ad esempio, è stato introdotto nel linguaggio comune l’equivoca e bruttissima parola “femminicidio” ad indicare l’omicidio di un essere umano di sesso femminile con il risultato, risibile, di fare del genere sessuale addirittura una distinzione di specie, in oltretutto palese contraddizione con l’attuale clima epocale nel quale si pretende che non esistano generi sessuali se non convenzionali. Se nel caso di una donna si deve parlare di femminicidio sorge spontanea la domanda, ironica, se quando ammazzano un omosessuale devesi parlare di “gaycidio” o di “lesbicidio”. La domanda, pur ironica e provocatoria – lo ammetto –, è tuttavia conseguente alle incongruenze del politicamente corretto che evidentemente negando, a proposito del femminicidio, il concetto univoco di umanità non può che portare alla conclusione della distinzione tra la “maschinità” e la “femminità” come fossero due specie diverse.

Nel termine umanità è da sempre ricompresa la distinzione sessuale ma questa distinzione non nega la comune natura umana dell’uomo e della donna. Comune natura che invece il politicamente corretto non solo nega ma vuole anche frammentare per contrapporne le parti. In tale aberrante ottica se l’omicidio di una donna, anziché essere omicidio, è un “femminicidio” allora l’omicidio di un uomo, anziché essere omicidio, dovrebbe essere “maschicidio”, come se si trattasse di diverse specie e non della stessa specie umana. Orbene, potrebbe sembra che questo nulla abbia a che vedere con l’innovazione del “fratelli e sorelle” eppure l’introduzione di tale espressione binaria nel linguaggio liturgico dà adito a pensare, visto il momento nella quale essa interviene, che sia una resa al politicamente corretto. Se una tale innovazione fosse avvenuta in un momento diverso, e non presumibilmente sotto la pressione ideologica dominante, nessun sospetto avrebbe sollevato il ricordare che siamo fratelli e sorelle nella comune umanità. Quando la Chiesa si mostra arrendevole verso le ideologie mondane puntualmente non le vengono risparmiate ostilità e disprezzo come ha potuto sperimentare lo stesso regnante Pontefice a proposito del titolo dell’ultima sua enciclica. Un titolo criticato perché limitato ai “fratelli” dimenticando le “sorelle” e forse anche questo ha influito sulla decisione di innovare il linguaggio liturgico. A dimostrazione che più la Chiesa apre al mondo, sperando di essere benevolmente accolta, più riceve schiaffi in faccia.

Pace agli uomini amati dal Signore

Nel “Gloria” la formula “e pace in terra agli uomini di buona volontà” è stata sostituita da quella “e pace agli uomini amati dal Signore”. Si tratta senza dubbio di un ritorno all’originaria formula greca e quindi di una cosa in sé lodevole. Eppure, come diremo, qui si nasconde il rischio di un fraintendimento teologico.

Un amico editore, cattolico, che, in vista della pubblicazione di un “Compendio Liturgico Ortodosso”, ha avuto stretti rapporti con esperti liturgisti ortodossi, mi ha confidato che essi considerano risibile il nostro “Pace in terra agli uomini di buona volontà” perché a loro dire si tratta di un errore storico di traduzione dal greco, poi mantenuto dalla “supponenza romana”.

E’ noto che lo scisma del 1054 ha avuto una lunga maturazione e che è stato causato soprattutto dalla diversificazione delle strutture filosofiche, e di quelle concettuali che ne derivavano. Nel mondo greco ha prevalso un orientamento più “sofianico”, più “comunitario”, più “decentrato” mentre nel mondo romano l’orientamento è stato più “giuridico”, più “gerarchico” e più “accentrato”. In questa diversità di orientamenti ha influito sicuramente anche una differenziazione di tipo filosofico e culturale. In Oriente infatti un eccesso di platonismo ha comportato una tendenza all’apofaticità radicale che ha sfiorato in certi casi una diffidenza, se non un vero e proprio orrore, della carne. Tale tendenza ha agito anche nella polemica sul “filioque” che è stato rifiutato dagli Ortodossi (non tutti, san Massimo il Confessore non lo trovava affatto fuorviante) in quanto duplicherebbe l’Unica Fonte dell’emissione dello Spirito Santo, introducendo nella Trinità una “diarchia” con il Figlio in luogo della “monarchia” del Padre. Tale rifiuto del “filioque”, al di là del fatto che effettivamente l’originaria formulazione del Credo non contemplava detta aggiunta, ha tuttavia la sua prima, silente, motivazione nella difficoltà tutta orientale, e di chiara derivazione platonico-radicale, nei riguardi della concretezza materiale della corporeità. Infatti, la non accettazione della “diarchia” del Figlio nella “spirazione” segnala, con tutta evidenza, una svalutazione della dimensione incarnata del Verbo. Non a caso, infatti, la stupenda arte iconografica ortodossa è più “eterea” dell’iconografia latina, questa più evidentemente “carnale”.

E’ senza dubbio certissimo che tale tendenza ad una eccessiva spiritualizzazione non ha mai toccato il dogma di fede e che, quindi, l’Ortodossia è sempre rimasta nel sicuro solco dell’apostolicità, tuttavia è innegabile che proprio da questo platonismo alquanto non ben equilibrato siano derivate le eresie monofisite che negavano realtà e concretezza al corpo di Gesù Cristo, negando con ciò l’Incarnazione stessa. Si trattava dell’influsso di una falsa gnosi che si nutriva, appunto, del Plato a-christianus in opposizione al Plato christianus. Ancora oggi la Chiesa copta d’Egitto porta seco le conseguenze di questo monofisismo.

D’altro canto, può dirsi che nella Chiesa romana, anche per via dell’aristotelismo medioevale (benché troppo spesso si dimentica che Tommaso d’Aquino elaborò la sua teologia innanzitutto su Agostino e Dionigi Pseudo-Areopagita), ha prevalso un eccesso di “carnalità” con conseguente tendenza, di eredità chiaramente latina, alla giuridicità ed all’istituzionalismo nonché, nella scolastica decadente (che con l’Aquinate non ha nulla a che fare se non come la corruzione con la purezza), anche al “razionalismo teologico”.

Il fatto è che la Rivelazione cristiana, come dice Vittorio Messori, è un “et-et” – fede e ragione, Divino/Umanità, Cielo e terra, carisma e istituzione, mistica e teologia, profezia ed esegesi, simbolo e storia, Spirito, anima e corpo – sicché può anche darsi una diversa “miscelatura” delle componenti, con evidenziazione maggiore dell’una o dell’altra, ma non può mai mancare né l’una né l’altra pena lo scivolare nell’eresia.

Tutto quanto abbiamo qui sinteticamente ricordato serve per comprendere che se da un lato gli ortodossi hanno probabilmente ragione circa l’erronea traduzione, dal greco, del nostro “Pace in terra agli uomini di buona volontà” – pertanto ben venga l’innovazione del “Pace agli uomini amati dal Signore”, la quale, quindi, non è affatto innovazione ma ritorno all’originaria e migliore traduzione – dall’altro lato è necessario riflettere un po’ sui motivi che possono aver spinto, per secoli, la “supponenza romana” a non correggere l’errore, che forse, a ben rifletterci, mostra un volto più provvidenziale di quanto possa sembrare.

Orbene se la formula ora nuovamente introdotta è linguisticamente più esatta può darsi che, tuttavia, la traduzione ritenuta errata corrispondesse ad una necessità di chiarezza teologica sentita più dalla Chiesa romana che da quella ortodossa. Si tratta del problema del rapporto tra la Grazia ed il libero arbitrio. E’ il problema dello spazio che ha l’uomo nei confronti dell’agire di Dio, perché, secondo la Rivelazione, l’iniziativa prima è sempre di Dio, non dell’uomo.

Già Lutero protestava contro la dimenticanza scolastica del primato di Dio. Ma come accade quando una contestazione non è mossa da amore verso la Verità, essendo soltanto pretesto per scardinarla, al rilievo, in sé giustissimo e verissimo, che l’iniziativa è sempre di Dio (“Non voi avete scelto Me ma Io ho scelto voi” Gv. 15,16), non ha fatto seguito in Lutero la riaffermazione della verità tradizionale per la quale il Dio che, per primo, ama l’uomo resta in attesa della libera risposta dell’uomo al Suo Amore. Perché Dio, che ha fatto l’uomo libero e ne rispetta la libertà, non salva l’uomo senza che egli lo voglia. Dio non costringe l’uomo, che ama, alla salvezza pur, nella Sua Onnipotenza, potendolo fare. Che amore sarebbe quello coatto? Dio vuole essere liberamente corrisposto dall’uomo.

L’attesa di Dio è stata straordinariamente compresa da sant’Agostino quando nel Sermo 169, 11-13, afferma “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te”. Non perché Egli non sia Onnipotente ma perché non impone a nessuno il Suo Amore e donandolo a tutti aspetta il nostro “sì”. Come quello di Maria la quale non era soggetta a nessuna predestinazione, ossia non era affatto predeterminata a dire il suo “sì”. La Santissima Vergine, durante la sua vita terrena, pur immacolata e dunque esente da qualsiasi macchia di peccato, era comunque una creatura libera di corrispondere o meno all’annuncio dell’Incarnazione, non era affatto costretta a dire “sì”. Quel suo “sì” è stato del tutto libero. E’ stato un atto di totale corresponsione ed affidamento al Signore senza del quale l’Incarnazione non sarebbe potuta avvenire (almeno nel modo che è avvenuta). Maria, dunque, è stata l’essere umano di “buona volontà” per eccellenza.

Capiamo ora il senso profondo della formula “e pace agli uomini di buona volontà”. La quale, se non si oppone a quella che ci rammenta il primato di Dio, non si può facilmente elidere, come è stato fatto, se non per un equivoco di fondo che segnala, a giudizio dello scrivente, un potente influsso protestante piuttosto che un ritorno alla migliore traduzione dal greco. Infatti, Lutero partendo, probabilmente in modo fraudolento e strumentale, dalla necessità di riaffermare il primato dell’iniziativa salvifica di Dio giunse alla negazione totale di ogni consistenza dell’umana natura e quindi di ogni capacità dell’uomo di corrispondere a Dio (in questo agiva l’influsso della sotterranea corrente neoplatonica ed ermetica, riemersa ai suoi tempi, in quella che De Lubac con riferimento a Pico della Mirandola ha chiamato “l’alba incompiuta del Rinascimento”, che sbilanciò la spiritualità cristiana in un senso unilateralmente apofatico senza più alcuna catafaticità).

Per Lutero l’uomo non è soltanto ferito, come insegna la fede cattolica, dal peccato originale ma ne è stato totalmente corrotto sicché in lui non c’è più nulla della purezza originaria e tutto nella creatura umana è irrimediabile corruzione, irredimibile peccato. Anche la carne ossia il corpo dell’uomo è immondizia (qui è evidente l’influsso della gnosi spuria), non più l’elemento materiale della natura umana destinato, se purificato dall’Amore di Dio, alla glorificazione. Un uomo di tal genere, essenziale e totale corruzione, non ha alcuna capacità di corrispondere a Dio, è totalmente passivo, totalmente “quieto” (il “quietismo” fu una delle correnti della spiritualità protestante che incitava il fedele al completo e passivo annichilimento nel Divino, secondo uno schema già presente qualche secolo prima tra i catari i quali praticavano il suicidio rituale per liberare la scintilla divina prigioniera della carne e dissolverla nell’unità pleromatica supposta in origine).

Lutero, in altri termini, nega la capacità della Grazia di trasformare il cuore dell’uomo, risanandolo, ed infatti per il monaco tedesco la Grazia è piuttosto una sorta di decreto esterno con il quale Dio fa finta di non vedere la corruzione ontologica dell’uomo e decide, al di là delle opere meritorie (che come l’uomo sono soltanto corruzione scaturenti dall’orgoglio), di salvare alcuni “coprendone”, attraverso la Croce del Figlio, la corruzione che pertanto non è eliminata. L’uomo, anche se salvato, resta corrotto.

Senza forse essersene reso conto, Lutero ha in sostanza negato la Grazia, la sua capacità santificante, e partendo dalla rivendicazione, in sé giusta, del primato di Dio ha finito con il negare l’uomo, aprendo per reazione la strada all’affermazione del prometeismo umano. Non a caso dopo Lutero, come contraccolpo alla sua posizione, si sono affermate le filosofie dell’autocostruzione umana che rivendicano la più completa emancipazione dell’uomo da Dio apofaticamente relegato al di fuori della creazione che ora viene intesa, manicheisticamente verrebbe da dire, come l’antitesi a Dio. Il problema di Lutero fu nel non aver conservato la tradizionale “analogia entis” che sola può dare ragione della relazione bilaterale tra Dio e uomo, tra il Dio che ama per primo e l’uomo che liberamente corrisponde all’Amore di Dio per “buona volontà”. Una buona volontà mossa certo dalla Grazia trasfigurante e santificante ma comunque sempre libera volontà umana.

Quindi sono vere entrambe le cose: Dio ama per primo ma è necessario che, per la sua salvezza, l’uomo corrisponda questo amore disponendosi in atteggiamento di buona volontà. Forse si sarebbe potuto pensare ad una formula sintetica del tipo “Pace agli uomini di buona volontà che Dio ama”. In tal caso, però, sarebbe potuto sorgere un altro equivoco, quello per il quale Dio amerebbe solo gli uomini di buona volontà mentre Egli ama tutti gli uomini anche quelli che fino all’ultimo non mostrano “buona volontà”. Dio di questi è dispiaciuto ma certo non può non amarli perché Egli è essenzialmente Amore come dice san Giovanni nella sua lettera apostolica. Anzi, possiamo dire che Dio ama persino i dannati – infatti Egli è presente ovunque e quindi anche negli inferii – ma sono essi, i dannati, ad essere chiusi a questo amore ovvero ad averlo rovesciato, per la loro protervia e cattiva volontà, nel suo contrario auto-concretizzando quella pena del senso che viene tradizionalmente indicata a volte come fuoco a volte come ghiaccio o come altre forme orrifiche di sofferenza. E – si badi – non si tratta di meri simboli!

Come anche noi li rimettiamo

Veniamo ora alla questione forse più delicata, quella delle modifiche alla preghiera sacerdotale del “Padre Nostro”.

Qui innanzitutto va messo in evidenza che l’introduzione di un “anche” nel passaggio “come noi li rimettiamo ai nostri debitori” è un innegabile innovazione, non dunque come nel caso precedente un ritorno ad una migliore traduzione, rispetto alla versione tradizionale come pervenutaci dal latino e dal greco. Cosa si vuol dire con l’aggiunta dell’“anche”? Che noi rimettiamo i debiti mossi dall’iniziativa di Dio il Quale per primo rimette a noi i nostri debiti? Se così fosse, ed a parte le considerazioni già svolte in precedenza sul giusto modo di intendere la relazione tra il primato di Dio e la risposta dell’uomo, lo scrivente non riesce proprio a vedere i motivi per introdurre una parola che Nostro Signore Gesù Cristo non ha usato quando ha insegnato ai suoi apostoli e discepoli la preghiera del “Padre Nostro”, l’unica da Lui direttamente rivelataci e per questo detta “sacerdotale”. Così facendo sembra quasi di accusare Gesù di essere stato incompleto, impreciso e poco chiaro.

Orbene la formula originaria, “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, mentre sottende quell’“anche” senza necessità di esplicitarlo, tanto ne è palese il senso, ha molteplici significati tutti in sintonia con quanto abbiamo già evidenziato circa la relazione tra Dio e uomo.

Innanzitutto, essa sta a significare che Dio, al Quale spetta il primato, rimette all’uomo i suoi peccati nella misura in cui l’uomo si mostra, trasformato intimamente dalla Sua Grazia, disposto a rimettere al prossimo i suoi peccati, ossia a perdonare. Altrimenti non c’è remissione di peccati da parte di Dio. In secondo luogo, la formula tradizionale spiega che l’uomo diventa capace di perdonare il prossimo nella misura in cui s’avvede del perdono di Dio nei suoi confronti e, quindi, mosso dal Suo Amore, trasformato in interiore dalla Grazia, si apre, per imitazione, al perdono verso il suo prossimo.

Nella formula tradizionale la “remissione dei debiti” è contemporaneamente vista da entrambi i poli della relazione, quello di Dio e quello dell’uomo, senza bisogno di un “anche” che più che esplicativo sembra ridondante.

Non abbandonarci alla tentazione

Circa il “Padre Nostro” l’innovazione che lascia più perplessi è quella della sostituzione del tradizionale “non indurci in tentazione” con l’equivoco “non abbandonarci alla tentazione”. Le motivazioni ufficiali dell’innovazione affermano che la versione antica sarebbe equivoca perché un Dio che induce l’uomo in tentazione sarebbe in contraddizione con la Sua Misericordia. Si tratta della cosiddetta tesi semantica, di cui diremo successivamente. Lo scrivente ritiene che invece ci siano ampie ragioni per criticare detta innovazione ad iniziare dal fatto che biblicamente Dio, al contrario, induce continuamente l’uomo in tentazione, ovvero permette che egli sia tentato, come nel caso di Giobbe.

I biblisti spiegano che la traduzione latina “inducere”, da cui l’italiano “indurre”, corrisponde perfettamente al greco “εἰσενέγκῃς” (eisenekes), sicché renderla mediante “abbandonarci” è una forzatura. Tuttavia, al di là della corrispondenza più o meno esatta della traduzione, bisogna evidenziare la questione fondamentale che la nuova traduzione sembra dimenticare. Se si tiene in debito conto quanto, con la nuova formula, è stato dimenticato anche la Misericordia di Dio, anziché uscirne oscurata, viene al contrario esaltata. Nella nuova versione viene sminuita l’importanza della “prova”, appunto la “tentazione”, che è invece un dato presente nella Scrittura, sin dal Genesi, nonché nella Rilevazione, laddove persino per gli angeli viatori si parla di un “esame di fedeltà” a Dio. Si vedano in proposito sia il Catechismo di San Giovanni Paolo II sia quello di San Pio X.

Nel suo libro su Gesù, Sua Santità (perché tale è ancora!) Papa Benedetto XVI spiega che “non indurci in tentazione” significa “non metterci alla prova”, “non provare la nostra fede e la nostra fedeltà perché deboli come siamo, senza il Tuo aiuto, non riusciremmo a superare la prova”. Questo il senso tradizionale di quella formula. Per fugare ogni apparente ed inesistente ambiguità della versione tradizionale bastava spiegare al popolo cristiano il senso autentico dell’antica formula.

Ma perché Dio mette alla prova angeli e uomini? In fondo lo abbiamo già accennato parlando del rapporto tra la Grazia ed il libero arbitrio. Dio vuole essere liberamente riamato dalle sue creature intelligenti, perché un amore sotto costrizione – come sarebbe quello causato dal Suo manifestarsi in tutto lo Splendore della Sua Luce Inaccessibile che finirebbe per schiacciare la creatura nell’evidenza inoppugnabile della Sua Essenza (per questo Egli ammonì Mosé sul Sinai di coprirsi il volto dato che vederLo nella Sua Luce Essenziale avrebbe provocato la morte estatica del Patriarca) –, non è vero amore, non è vera e libera corresponsione da parte della creatura. Da qui la necessità di sottoporre la libertà della creatura alla prova, alla tentazione. Tuttavia, Dio sottoponendo la creatura alla prova non la lascia sola – appunto non la abbandona – sostenendola con la Sua Grazia affinché superi la prova.

Se Lucifero, il più alto degli angeli, non superò la prova, e con lui quelli tra gli angeli da lui gerarchicamente dipendenti, fu a causa del suo libero rifiuto, per orgoglio, di adorare, in visione, il Verbo Incarnato (il “non serviam” nasconde la protesta luciferina contro l’invito ad adorare un Dio che voleva “insozzarsi” con la carne facendosi umile creatura: Lucifero fu il primo dei falsi gnostici in opposizione alla vera gnosi del Verbo). Ciononostante, Dio tentò di aiutarlo affinché riconoscesse la Verità del Suo Amore che, sebbene dato anche agli uomini inferiori agli angeli, non era certo negato alle creature angeliche. L’opposizione di San Michele arcangelo a Lucifero implica non solo la definitiva condanna dell’angelo ribelle ma anche il Soccorso di Dio, dato che tradizionalmente l’Angelo è non solo una creatura spirituale ma anche la manifestazione della “forza” di Dio stesso.

La condanna del principe tra gli Angeli, e delle sue schiere, fu definitiva perché – a differenza dell’uomo che, creato nella gnosi vera, da lui tentato avrebbe anch’egli ceduto, nonostante anche in tal caso l’aiuto di Dio, alle lusinghe della gnosi spuria – Lucifero, in quanto angelo, era completamente libero da qualsiasi “limitazione carnale” e quindi era del tutto capace di antivedere le conseguenze del suo rifiuto. Mentre l’uomo, limitato dalla sua natura psico-corporea, pur benedetta perché tutto ciò che è creato è “cosa buona”, non è sempre in grado di vedere in modo integrale le conseguenze delle sue scelte, le quali tuttavia non gli tolgono la colpa ma certo l’attenuano rendendo possibile la remissione, l’angelo, puro spirito, non è soggetto a tale limitazione e quindi è pienamente responsabile delle sue scelte.

Se questo è il senso alto, metafisico, celato dalla versione tradizionale del “non indurci in tentazione”, allo scrivente appare equivoca non essa ma la traduzione “non abbandonarci alla tentazione”, dato che in tal modo si rischia di sottendere che Dio possa abbandonare la creatura proprio nel momento della prova mentre al contrario è in quel momento che Lui è maggiormente presente per afferrare, se lo vogliamo, la nostra mano e portarci in Alto, innalzarci verso di Lui. Anche qui, forse, se si voleva innovare, una formula sintetica del tipo “non indurci e non abbandonarci nella tentazione” sarebbe stata probabilmente meglio.

Non è, inoltre, del tutto convincente la tesi del mutamento semantico, nella lingua italiana, della traduzione con “indurre” della parola latina “inducere”. Tesi è stata avanzata, con autorevole competenza, anche dallo storico Franco Cardini sul suo blog personale. Secondo il noto storico fiorentino l’innovazione nel “Padre Nostro” è stata necessaria non perché il latino “inducere” traduca male il greco eisenekes ma perché è la traduzione italiana del latino resa con “indurre” ad aver subito una metamorfosi semantica. Infatti mentre il latino “inducere” significa “far entrare dentro”,  l’“indurre” italiano ha il senso, o ha anche il senso, di spingere, sospingere, qualcuno verso qualcosa di negativo e, dunque, di ingannare.

« … nell’italiano indurre – scrive Cardini – è insita un’accezione di “spingere qualcuno, maliziosamente, a credere, a dire o a fare cose che potrebbe fare altrimenti se fosse lasciato libero di scegliere”. Questa sfumatura d’inganno non c’è nel latino inducere».

Orbene nonostante questa effettiva sottigliezza semantica, messa in rilievo da Cardini, lo scrivente ritiene che l’uso del “non abbandonarci alla tentazione” sia ancora più equivoco proprio per quanto si diceva poco fa. Per il semplice fatto che se si trattava di eliminare il senso assunto in italiano dalla parola “indurre” si trattava anche di lasciare inalterato, possibilmente, il senso originario dell’“inducere” latino che fa precipuo riferimento alla prova. Riferimento che, come abbiamo visto, è teologicamente coerente con il dato rivelato. Un più chiaro “non sottoporci a prova” oppure semplicemente “non provarci” o ancora “continua ad aiutarci anche nella prova” avrebbe mantenuto il senso originale fugando la lamentata metamorfosi semantica. Il “non abbandonarci” se sembra risolvere un equivoco potenzialmente, come si accennava, ne apre un altro perché dà adito ad un’altra possibile interpretazione ambigua come quella di chi supplica Colui che, pur potendolo aiutare, si defila e lo abbandona proprio nel momento nel quale avrebbe più bisogno del suo aiuto. Insomma se indurre potrebbe far pensare ad un inganno, non abbandonarci fa pensare ad un Dio che va implorato perché sarebbe solito lasciare a piedi la sua creatura la quale, quasi inutilmente, lo supplica di non farlo.

Beati gli invitati alla cena dell’Agnello   

Un’altra innovazione è quella introdotta nel Rito di Comunione facendo seguire alla formula “Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che toglie i peccati del mondo” – già di per sé non ottimale dato che il latino “tollit” più che “toglie” significa “porta”, “prende su di sé” – l’inciso “Beati gli invitati alla cena dell’Agnello”.

Qui in apparenza sembra immediato l’influsso della concezione protestante della Messa come “cena”. Ma il discorso è da approfondire perché l’idea della Messa come “cena” non è del tutto estranea alla Tradizione ed infatti l’Eucarestia è stata istituita durante l’Ultima Cena, benché, poi, nell’accezione luterana questo suo aspetto è stato completamente distorto in senso antitradizionale.

Nella celebrazione della Pasqua ebraica, in memoria del comando di Dio nella notte della liberazione dalla schiavitù d’Egitto (Pesach), gli ebrei si radunavano in famiglia per condividere il pasto comune secondo le prescrizioni rituali del caso. Il capofamiglia divideva tra tutti i membri del gruppo familiare le porzioni di un agnello arrostito, cucinato in un modo particolare, che veniva consumato con l’aggiunta di erbe amare e pane azzimo.

Nel linguaggio biblico l’Agnello – qualche volta il capro (non a caso “espiatorio”, nel rito ebraico il capro veniva caricato dei peccati del popolo e mandato a morire nel deserto) – è simbolo del Messia salvatore. “Agnello di Dio” è formula messianica che indica Colui che porta la Salvezza del Signore. Nell’Apocalisse l’Agnello di Dio siede, insieme a Dio Padre, sul Trono posto al Centro della Gerusalemme Celeste scesa direttamente dal Cielo, da Dio. Dunque l’Agnello è il Messia che deve essere sacrificato per ottenere la salvezza del mondo.

L’agnello della Pasqua ebraica era nient’altro che la figura del Vero Agnello di Dio che sarebbe stato sacrificato sul Calvario, sulla Croce, nella Pasqua cristiana. Pertanto l’Ultima Cena non fu un pasto conviviale ed “orizzontale” tra amici riuniti per celebrare una festività ma è stata, con l’istituzione dell’Eucarestia, il passaggio dalla figura antica alla nuova realtà concreta e davvero efficacemente salvifica. Filosoficamente potrebbe dirsi un passaggio dalla potenza all’atto.

Ecco perché l’Eucarestia è Sacrificio dell’Agnello, più che semplicemente “cena dell’Agnello”. L’intero complesso che va dall’Ultima Cena alla Croce sul Calvario costituisce un unico Rito Sacrificale, espiatorio, il cui senso più metafisico è Verticale, non orizzontale. L’Altare pertanto non è solo la mensa dell’Ultima Cena ma anche, e soprattutto, il Calvario, il Monte, del Sacrificio del Vero Agnello. L’aspetto orizzontale, assembleare, comunitario, viene solo in secondo luogo come una conseguenza che senza il suo Fondamento Verticale non potrebbe essere. Pertanto se proprio si doveva innovare la formula forse più esatta sarebbe stata “Beati gli invitati alla cena del Sacrificio dell’Agnello” oppure semplicemente “Beati gli invitati al Sacrificio dell’Agnello”.

La formula innovativa scelta comporta invece il rischio – forse voluto – di una protestantizzazione della Messa ovvero di una sua “desacrificizzazione” o “desacralizzazione”. Fu sempre Lutero, a suo tempo, a negare il carattere sacrificale, quindi verticale, della Messa per ridurla ad un mero convivio in ricordo di un fatto avvenuto duemila (per lui millecinquecento) anni fa ma senza alcuna effettiva incidenza nel presente quotidiano, dato che, insieme al carattere sacrificale della Messa, Lutero negava anche la transustanziazione in favore dell’assurdo concetto di “consustanziazione”. Questo concetto, lungi da esprimere la trasformazione del Pane e del Vino nel Cuore e nel Sangue di Cristo, vuol significare la mera “giustapposizione” del Divino alla materia del pane e del vino senza alcuna reale trasformazione (si tratta di un’altra delle distruttive conseguenze della teologia di Lutero impregnata, per via, come detto, del riemergente neoplatonismo a-cristiano del XV secolo, di un radicale apofatismo che, non conoscendo anche la catafaticità, diventa causa della rottura luterana dell’“analogia entis” ovvero della contrapposizione ontologica tra Dio e creazione, al modo di due polarità “manichee” decadute da una unità indifferenziata).

La tragedia innescata da Lutero – tragedia perché il protestantesimo negando la transustanziazione ha chiuso il Canale di Comunicazione della Grazia, la Via mediante la quale Dio si dona all’uomo – trapela chiaramente anche dalla distorsione protestante del significato autentico dell’espressione “fate questo in memoria di me”. Lutero protestava contro quella che lui credeva fosse la “ripetizione” dell’Unico Sacrifico della Croce. In tal senso egli denunciava che il “memoriale” non poteva essere altro che il mero ricordo dell’evento del passato perché quell’evento è stato unico e non può ripetersi all’infinito. Uno strabismo che gli derivava, bisogna ammetterlo, da una certa decadenza tardo-medioevale della teologia dei suoi tempi. In realtà, come ha spiegato Israel Zolli – grande biblista ebreo, già studioso da ebreo della figura del “Nazareno” e poi convertitosi a Cristo di fronte alla grande carità mostrata da Pio XII verso i suoi correligionari romani al tempo della persecuzione nazista – l’ebraico che sta dietro la traduzione della parola “memoriale”, “fare memoria”, non significa soltanto “ricordo” ma “attualizzazione, qui ed ora, di ciò che è ricordato”. In altri termini, quando Nostro Signore Gesù Cristo ha detto “fate questo in memoria di Me” ha voluto dire “riattualizzate questo gesto ed Io mi renderò presente nel momento in cui lo farete”. Quindi, lungi dall’essere equivocamente “ripetizione”, l’Eucarestia è propriamente “Rinnovazione qui ed ora dell’Unico Sacrificio del Calvario”, ovvero attualizzazione nel presente di quel Sacrificio per il potere trans-temporale dell’Eterno di rendere palesi ed operativi in ogni tempo la sostanza e gli effetti salvifici della Croce (o vogliamo, per caso, mettere limiti temporali all’Eterno?!).

Rugiada dello Spirito Santo

Infine una ultima osservazione. Mentre gradita è di sicuro l’introduzione nell’invocazione a Cristo dell’originale greco “Kyrie eléison” in luogo del “Signore pietà”, risulta poco comprensibile l’uso nel Rito di Comunione dell’espressione “rugiada dello Spirito Santo” al posto di “effusione dello Spirito Santo”. Sia chiaro: la parola “rugiada”, in riferimento allo Spirito Santo, sembra avere un fondamento veterotestamentario, forse collegato anche con la “manna” (prefigurazione dell’Eucarestia) che nutriva gli ebrei nel deserto e che essi trovavano, come appunto accade della rugiada, all’alba. Del resto, l’acqua è tradizionalmente simbolo dello Spirito. Non a caso con “fiumi di Acqua Viva” si usa indicare biblicamente lo Spirito Santo.

Tuttavia, mentre la parola “rugiada” bisogna andare a cercarla in qualche passo secondario della Scrittura perché pur legittima è minoritaria, sicché non si capisce per quale motivo sia stata scelta, tradizionalmente l’immagine più diffusa dello Spirito Santo è quella del Fuoco. Da qui la precedente formula “effusione dello Spirito” che d’altronde è connessa con il Ruach, il Soffio creatore, del Genesi e con il Vento il cui fragore segnala l’irruzione di Dio a Pentecoste quando le lingue di fuoco dello Spirito infiammarono il cuore dei dodici e di Maria e si posero visibili sui loro capi.

Ma – attenzione!!! – quella del Fuoco non è solo una immagine o un simbolo perché a detta di tutti i mistici lo Spirito Santo si appalesa proprio come “Fuoco d’Amore” che arde potentemente nel cuore dell’uomo fino, in certi casi, a dare la sensazione che esso venga letteralmente “strappato” dal petto. E si tratta, ci dicono i mistici, di un Fuoco reale, non immaginario, che riscalda, letteralmente, ardendo senza tuttavia bruciare. Al modo nel quale ardeva senza bruciare il Roveto del Sinai (o, forse, dell’Har Karkom). Dunque non era meglio l’espressione “effusione dello Spirito”? E se proprio si voleva cambiare perché introdurre una immagine poco ricorrente come quella della “rugiada”, pur così delicata, e non invece quella, vera ed autentica a detta dei mistici, del “Fuoco d’Amore”?

A conclusione di queste riflessioni, l’impressione che rimane è quella di scelte delle quali è difficile capire la motivazione effettiva e di cui il popolo cristiano non sentiva certo una pressante necessità. Bisogna fare attenzione al rischio che il sale, come evangelicamente ammonito, perda il sapore per non servire più a niente.

Luigi Copertino

dalla pagina fb dell’autore