RIUNIFICARE CAPITALE E LAVORO – l’alternativa tradizionale al capitalismo tra sinistra nazionale e cattolicesimo sociale – di Luigi Copertino

RIUNIFICARE CAPITALE E LAVORO

L’alternativa tradizionale al capitalismo tra sinistra nazionale e cattolicesimo sociale

Durante il ventesimo secolo c’è stata una ansiosa ricerca di alternative “organiciste” al capitalismo, sia a destra che a sinistra. Nessuna di esse è riuscita a concretizzare strade definitivamente praticabili ed anche gli esperimenti messi in atto, pur avendo dato buoni risultati, o non sono stati perseguiti fino in fondo o sono stati abbandonati per le resistenze congiunte padronali e sindacali. Questo ha convinto molti, dopo il default del comunismo, che al capitalismo non ci sarebbe alternativa. In realtà l’alternativa è stata cercata dove era impossibile trovarla ossia fuori del cuore dell’uomo mentre essa era, ed è, innanzitutto “in interiore homine”.

Sotto un profilo, diciamo così, tecnico, invece il problema del superamento del capitalismo si pone come problema della riunificazione del capitale e del lavoro. Infatti, il capitalismo, come sistema di organizzazione della produzione, nasce quando, nell’ultima fase del medioevo, in contemporanea con gli inizi del tramonto della Cristianità e dell’ordinamento corporativo delle Arti e Mestieri, i mercanti-banchieri sono riusciti gradualmente, attraverso il potere finanziario del credito, a ridurre gli artigiani corporati alle loro dipendenze trasformandoli prima  in cottimisti, legati esclusivamente alle commesse monopolistiche dei loro finanziatori, e poi, al momento del decollo tecnologico settecentesco della Rivoluzione Industriale, in operai salariati. Questo processo storico ha condotto alla separazione tra i capitalisti possessori dei capitali finanziari e dei mezzi di produzione, da un lato, e i lavoratori, salariati, dall’altro, dando origine all’antagonismo moderno di classe in luogo del conflitto antico tra ceti e caste. Va poi notato che anche nell’ambito capitalista, mano a mano che l’originaria figura unitaria del mercante-banchiere subiva una scissione funzionale, si è gradualmente prodotta una differenziazione tra banchieri finanziatori, che vivono del reddito dei prestiti concessi alla produzione, ed imprenditori, che invece vivono del lavoro di organizzatori della produzione assumendosene il rischio.

In questa sintetica nota vogliamo esaminare alcune strade tentate o ipotizzate per superare il capitalismo, proposte nel secolo scorso e dalle quali si deve, comunque, ripartire laddove si intendesse  riprendere il cammino senza arrendersi allo status quo. Si tratta, però anche di vagliare gli aspetti spirituali equivoci e problematici di questi percorsi, soprattutto da un punto di vista cattolico che è quello che facciamo nostro.

La “corporazione proprietaria” – dall’assoluta politicizzazione al rovesciamento impolitico

Iniziamo dalla proposta avanzata da Ugo Spirito nel Convegno di Ferrara del 1932, in un periodo nel quale andava riprendendo forza l’anima sociale e socialista del fascismo poi travolta con esso dalla guerra. Il problema della “corporazione proprietaria” – questa la denominazione tecnica della proposta spiritiana – stava nel fatto, all’epoca non ancora chiaro a tutti, che ogni statizzazione dei mezzi di produzione, come successivamente si è constatato dagli esiti del comunismo, diventa capitalismo di Stato. Quella proposta da Spirito era, in altri termini, una statizzazione dei mezzi di produzione attuata mediante le corporazioni che lo Stato fascista aveva istituito quali organi statali corrispondenti ai settori produttivi nazionali e nei quali erano inseriti, come enti pubblici riconosciuti, i sindacati padronali e dei lavoratori di ciascun ramo produttivo. Anche se, per la verità, la proposta di Spirito contemplava la possibilità di un vasto azionariato esteso a tutti i membri della singola corporazione, quindi non una statizzazione in senso proprio, restava il fatto che un azionariato di tali estensioni, da ricomprendere non una azienda ma l’intero complesso di tutte le aziende di un ramo produttivo considerate come fossero una unica unità produttiva, rasentava da vicino l’utopia comunista, senza poi contare che sarebbero stati necessari organi centrali di amministrazione che sarebbero diventati i veri gestori della proprietà diffusa attraverso le azioni popolari.

La radice filosofica di questa proposta, come del resto quella dello stesso corporativismo fascista del quale essa rappresentava uno degli esiti di sinistra più radicali, era idealista, hegeliana, ossia immanentista. Ugo Spirito era allievo di Giovanni Gentile, apparteneva alla cosiddetta sinistra gentiliana. Il corporativismo fascista, tanto nella sua versione nazionalista, quindi di destra, quanto nelle sue versioni di sinistra, quindi socialiste, aveva fondamenti spirituali e filosofici fondamentalmente divergenti da quello cattolico, elaborato, quest’ultimo, lungo l’esperienza del cattolicesimo sociale ottocentesco ed in particolare dalla Scuola sociologica di Giuseppe Toniolo. Il corporativismo cattolico, a differenza di quello fascista, riconosce la libertà di associazione sindacale e l’autonomia pluralistica dei sindacati, intesi come corpi intermedi, e quindi come gruppi associativi privati, tra il singolo e lo Stato. Ciononostante anche nel corporativismo cattolico i sindacati sono concepiti quali corpi intermedi inseriti nelle strutture decisionali dello Stato, per essere coordinati dall’Autorità politica in vista del bene comune, e quindi strumenti democratici di partecipazione dal basso nel quadro di una democrazia ad un tempo autorevole e sociale. Una democrazia che, naturalmente, per la scuola cattolico-sociale non poteva che essere essenzialmente cristiana.

Mentre, pertanto, la concezione cattolica del corporativismo salva la distinzione tra il Politico e la società civile, tra l’Autorità politica ed i corpi intermedi, tra lo Stato ed i gruppi sociali, pur in un quadro di coordinamento direzionale da parte del Potere pubblico, al contrario il corporativismo di matrice hegeliana prelude, sia pure in modo inizialmente inavvertito dai suoi stessi fautori, alla finale dissoluzione dello Stato nella società, quindi del Politico nell’economia non senza implicazioni di tipo tecnocratico. Il totalitarismo, rivendicato dalla concezione hegeliana del corporativismo, corrisponde alla fase “mistica” e “sacrale” della scristianizzazione, propria delle religioni politiche, tra esse anche il fascismo, cui inevitabilmente segue la fase “profana”, la fase del disincanto e della depoliticizzazione, quale esito terminale del processo di secolarizzazione cui soggiacciono anche le teologie civili. La dissoluzione post-politica del corporativismo hegeliano, se il regime fascista non fosse caduto, si sarebbe concretizzata non appena alla fase “mistico-sacrale” sarebbe subentrata – per l’ineluttabile dinamica interna della scristianizzazione, della quale le religioni politiche sono state una componente in via di transizione verso esiti ulteriori di tipo nichilista – la fase “profana” ossia ciò che oggi chiamiamo “società liquida” o “società aperta”. Un esito, questo, nichilista che, dopo la fine del fascismo, è sopraggiunto egualmente, raffreddando anche gli entusiasmi antifascisti, democratici, comunisti o liberali che fossero, perché, come detto, era già insito nella direzione filosofica verso cui tende sin dalle origini l’itinerario storico della scristianizzazione e che pertanto è, in sé, inerente al processo trans-politico della storia contemporanea il cui approdo terminale, come è ormai evidente nei nostri anni, è stata la liquefazione di qualsiasi teologia civile ossia di qualsiasi ideologia – la fascista come la comunista, la democratica come la stessa ideologia liberale – lasciando spazio soltanto all’egemonia globale della finanza apolide, dell’“imperialismo internazionale del denaro”.

La proposta della corporazione proprietaria, del resto, non nascondeva affatto la prospettiva di un esito tecnocratico cui essa avrebbe potuto condurre. Ugo Spirito, nel suo problematicismo filosofico, estrema versione dell’attualismo gentiliano, riconosceva alla scienza ed alla tecnica un primato sulla politica. La prospettiva finale era la stessa  propugnata dal marxismo ossia la società autogestita e senza trascendenza, né quella dello Stato né quella di Dio. La polemica di Carlo Costamagna, giurista di estrazione nazionalista, dalle pagine della rivisita “Lo Stato”, verso il “corporativismo integrale” – non solo quello spiritiano ma anche quello di Bottai e dei sindacalisti più radicali come Sergio Panunzio – coglieva in anticipo i  possibili esiti impolitici della proposta, nascosti dietro l’apparente totalitarismo, individuandoli proprio nel pericolo della dissoluzione dello Stato, forma moderna del Politico, nella società civile attraverso la delegificazione di tutte le funzioni pubbliche, affidate secondo tale prospettiva ai corpi intermedi sindacali che si sarebbero fatti essi stessi Stato finendo per superarlo, disarticolarlo e sostituirlo con una rete federativa di associazioni orizzontali. Per Costamagna, al contrario, lo Stato doveva inglobare in sé, in un ordinamento totale e gerarchico, quindi porsi come coordinatore “ab intra”, i gruppi intermedi piuttosto che diventare loro ostaggio. Possiamo dire che, in fondo, la posizione di Costamagna – un idealista di destra che si contrapponeva ad un idealista di sinistra quale era Spirito – rivendicava al corporativismo fascista, esaltandone nella sua fase ancora “mistica” l’assoluta ed omnifagocitante politicità, una essenza totalizzante dialetticamente opposta, ma complementare, a quella tecnocratica  cui invece arrideva il rovesciamento impolitico al quale portava l’attualismo di sinistra. Non a caso nel dopoguerra tra Costamagna e Julius Evola – i cui inizi filosofici furono anch’essi idealisti sebbene declinati in una forma “magico-stirneriana” preludente al suo successivo esoterismo gnostico – si stabilirà una intesa culturale molto stretta nel novero della corrente di destra del neofascismo.

In altre parole il massimo della statizzazione, comunista o corporativista, coincide con il massimo della socializzazione del Politico e, quindi, con la sua dissoluzione tecnico-economica. Non è dunque questa la strada per un superamento effettivo del capitalismo. Esso non trova un efficace superamento attraverso la statizzazione dei mezzi di produzione ma soltanto tornando all’origine ovvero alla medesima situazione, perlomeno in senso giuridico, di quando capitale e lavoro erano nelle stesse mani, quelle degli artigiani corporati, ossia associati nella rispettiva Arte o corporazione, prima che, come detto, i mercanti-banchieri introducessero, mediante il monopolio privato del credito, la produzione a cottimo trasformando gradualmente gli artigiani in operai salariati.

In un contesto moderno la riunificazione di capitale e lavoro si può ottenere solo attraverso l’estensione della partecipazione agli utili fino ad arrivare alla comproprietà dei mezzi di produzione tra tutti coloro che lavorano nella stessa impresa. Non dunque statizzazione ma appunto socializzazione dell’economia come momento che prelude anche alla partecipazione politica in un quadro di democrazia sociale che, però, per non risolversi in una “democrazia totalitaria”, ossia dissolversi nell’immanenza tra Politico ed economia, con l’assorbimento del primo nella seconda, deve contemplare sì la partecipazione dal basso ma nella distinzione tra lo Stato-Autorità e la società civile. Ovvero, in altri termini, senza pelagiane illusioni autogestionarie, il cui esito è sempre il caos e la paralisi decisionale, ma anche senza l’illusione totalizzante di annientare i corpi intermedi nello Stato.

Se non viene riaffermata l’autorevolezza politica dello Stato, il quale, pur partecipato corporativisticamente dalle rappresentanze sociali, deve restare distinto ed in posizione superiore alla società civile ed ai suoi corpi cetuali o di categoria, non è possibile neanche realizzare una effettiva socializzazione della produzione superando il capitalismo . Anche perché, allo scopo, è necessario pubblicizzare il sistema creditizio e questo solo uno Stato autorevole può farlo. Soltanto in uno scenario di primato non totalizzante del Politico il credito può essere costretto a svolgere l’unica sua funzione legittima, perché non speculativa, che è quella del sostegno finanziario alle imprese socializzate ed alla nascita di nuove imprese, fornendo a costi contenuti i capitali necessari.

Lo stesso Ugo Spirito finì per comprendere la necessità dello Stato, distinto dalla società, per un ordinamento organicista della nazione. Accadde nel dopoguerra quando, dopo la sua fase filosofica “problematicista” – esito ultimo dell’attualismo gentiliano professato in precedenza – che lo aveva condotto al comunismo, riprese contatti con la sinistra missina. Attraverso questi contatti, Spirito ripensò la “corporazione proprietaria” in favore dell’“azienda comproprietaria”. La sinistra missina era erede del magistero di Ernesto Massi e della rivista “Nazione Sociale”. Politicamente sconfitta nel 1956, per soli sette voti, nel congresso del Msi che, in quell’anno, sotto la segreteria Michelini, sancì lo spostamento del partito neofascista verso destra per un connubio con monarchici e liberali, la sinistra missina si era riorganizzata, negli anni settanta, intorno all’Istituto di Studi Corporativi ed all’omonima rivista. Nella prospettiva postfascista, sposata da questa corrente di sinistra interna al Msi, il sindacalismo non veniva escluso né eliminato ma trasformato in uno strumento di partecipazione nell’impresa e nello Stato, per una chiara scelta a favore di una democrazia sociale organica. Erano, in altri termini, lontani i giorni nei quali Ugo Spirito, nella sua relazione al convegno ferrarese del 1932, affermando che la corporazione avrebbe fagocitato il sindacato, polemizzava con i sindacalisti della sinistra fascista quali Sergio Panunzio, Giuseppe Bottai, all’epoca ministro delle corporazioni, e Tullio Cianetti autore, quest’ultimo, di una proposta sulla partecipazione operaia agli utili ed al capitale d’impresa che, pur non immediatamente approvata dal regime, sarebbe stata a suo tempo la base per l’elaborazione del programma di socializzazione previsto dal Manifesto di Verona del fascismo repubblicano nel 1943-45.

La Sinistra nazionale

Sotto il profilo storico, va sottolineato che tutto il fermento di aspirazioni, di idealità, di studi, di realizzazioni, più o meno coerenti, che accese negli anni ’30, non solo in Italia ma nell’intera Europa, il dibattito in ordine al corporativismo, fu in qualche modo l’esito ultimo della critica anticapitalista post-rivoluzionaria che, tra XVIII e XIX secolo, era stata elaborata prima dalla destra tradizionalista, poi dal movimento sociale cattolico (conseguente all’intransigentismo ma ben presto resosi da esso autonomo), ed infine da quella che possiamo chiamare “sinistra nazionale ” di epoca risorgimentale. Quest’ultima – che è stata la matrice, in ordine di successione temporale, del sindacalismo rivoluzionario, della sinistra fascista e della sinistra neofascista – era portatrice di tematiche anticapitaliste in apparenza simili a quelle dell’anticapitalismo tradizionalista cattolico ma, in realtà, inquadrate in una cornice teologica e filosofica di tipo immanentista che risaliva a Buonarroti, Mazzini, Pisacane ed ai precedenti francesi di Rousseau e Babeuf fino al socialismo non marxista di Proudhon, Sorel, Comte, Blanqui e del tedesco Lassalle.

Questa sinistra nazionale era fortemente critica degli esiti “incompiuti” del processo risorgimentale come realizzato, ovvero a suo dire “manipolato”, in senso borghese e liberale dalla direzione sabaudo-cavouriana per via della svolta moderata ad esso impressa, dopo che nel 1848 la prospettiva democratico-rivoluzionaria aveva perso la sua spinta propulsiva. Il Risorgimento sabaudo aveva portato ad una unificazione nazionale con l’estromissione delle classi popolari dal processo unitario. Ne era nato uno Stato borghese, su una piattaforma individualista e capitalista, dal quale le masse erano aliene. L’aspirazione della sinistra nazionale era quella di portare a termine il processo risorgimentale, rimasto incompleto, inserendo le masse nello Stato unitario. Queste, però, non erano da essa pensate in termini collettivistici, ossia come somma sinallagmatica di individui(secondo l’approccio marxista), ma nei termini di un complesso sociale di gruppi organici professionali e quindi non atomisticamente indifferenziate. Questa concezione era in superficie la stessa del cattolicesimo sociale, che a fine ottocento trovò in Giuseppe Toniolo il massimo esponente. Solo in superficie, tuttavia, perché le radici filosofiche e teologiche erano diametralmente opposte.

Infatti mentre per il cattolicesimo sociale si trattava di restituire una forma coerente con la modernità industrializzata all’antico assetto sociale organico della Cristianità ma, perlomeno in Toniolo e nei suoi allievi, più moderni rispetto ai nostalgici sic et simpliciter dell’Ancien Règime, senza nostalgie neo-medioevali – da qui l’ampio dibattito di fine ottocento tra i cattolici tradizionalisti fautori della  “corporazione mista”, di padroni ed operai, di tipo medioevale  ed i cattolici sociali, che ebbero poi il diretto riconoscimento di Leone XIII nella “Rerum Novarum”, fautori dei sindacati “anche di soli operai” (1) –, per la sinistra nazionale democratica si trattava di inverare, secondo i principi post-cristiani affermati dalla Rivoluzione Francese, una nuova società  certamente laica e tuttavia al tempo stesso fortemente “religiosa” ossia fondata su una qualche teologia civile, che nel fascismo sarebbe stata la “Religione della Patria” ossia il “Culto del Littorio”. L’intera filosofia politica moderna, della quale la sinistra nazionale era uno dei frutti, è stata nient’altro che la ricerca “neopagana” di un culto alternativo al Cristianesimo. Una ricerca che affonda le sue radici, se si vuole, addirittura in certi precedenti pre-rinascimentali.

La sinistra nazionale fu la radice di sinistra – quella di destra essendo il nazionalismo – della ribellione antiparlamentaristica degli inizi del XX secolo, il cui esito sarebbe stato il fascismo, contro la decadenza del mondo borghese. Un mondo che di lì a poco sarebbe stato travolto, insieme alle utopie internazionaliste del socialismo marxista, dalla tragedia della Grande Guerra del 1914-18. La concezione sociale, di derivazione mazziniana, portò questa sinistra nazionale ad aderire al nascente fascismo nel quale rappresentò quell’ala di sinistra che guardava alla “Patria del Popolo” – di tutto il popolo, “Lavoratori di tutte le classi unitevi!” era uno dei suoi slogan – come ad un processo rivoluzionario di socializzazione. Pertanto, per quanto avesse con la concezione nazionalista in comune una visione organicista, dei rapporti sociali, la sinistra fascista se ne distaccava essendo propensa ad una democrazia sociale laddove l’approccio nazionalista – Alfredo Rocco fu l’estensore del testo definitivo della “Carta del Lavoro” del 1927, contro una versione più di sinistra per la quale propendeva Giuseppe Bottai – mirava ad una costruzione certo moderna, e non aliena da una qualche “socialità” però statualista, ma più autoritaria e gerarchica del rapporto capitale-lavoro (2).

Il nazionalismo, sebbene, come testé detto, sia in Alfredo Rocco sia in Enrico Corradini non fosse privo di aperture al socialismo ed al sindacalismo, sotto il profilo delle scelte economiche era ancora fortemente legato, sulla scia della scuola di Vilfredo Pareto e di Maffeo Pantaleoni, alle concezioni “neoclassiche”, ovvero liberiste, che poi condizionarono la prima fase del fascismo al potere negli anni ’20, quando l’ostinazione di Benito Mussolini per  il raggiungimento di un cambio monetario tendenzialmente paritario tra lira e sterlina, la famosa “quota 90”, lasciò ampio spazio per le politiche deflazioniste, disastrose per i lavoratori e criticate anche dalla Confindustria, del suo ministro delle finanze, Alberto De Stefani, basate sull’austerità, sui tagli alla spesa pubblica, sulle privatizzazioni industriali (3).

Solo negli anni ’30, come contraccolpo della crisi del 1929, il fascismo iniziò a tornare verso le sue radici di sinistra attraverso la nuova politica dirigista – che trovò poi continuazione nell’Italia postfascista del dopoguerra – inaugurata in quel decennio mediante la Legge Bancaria del 1936, l’intervento statuale in economia contrassegnato dalla fondazione dell’Iri (benché avvenuta in parte al di fuori delle strutture corporative, cosa lamentata dai sindacati fascisti) ed il maggior impulso che fu dato al corporativismo sia come strumento della programmazione economica, osteggiata dagli industriali, sia per la più ampia  autonomia e l’aumentato attivismo dei sindacati all’interno delle strutture corporative di Stato, sia “sbloccando” anche la Confindustria dopo che, alla fine degli anni ’20, per motivi politici (il timore di Mussolini dell’eccessivo potere concentrato nelle mani del capo sindacale Edmondo Rossoni), soltanto la Confederazione Unica dei Sindacati Fascisti era stata suddivisa in sei diverse Confederazioni lasciando, però, inalterata la parte datoriale, ossia la Confindustria che rimase unitaria, e quindi favorendo i capitalisti rispetto ai lavoratori.

Negli anni ’30 iniziò ad emergere quello che Renzo De Felice ha chiamato un “nuovo fascismo”, concentrato nei Guf, nelle Università, nelle riviste di Bottai, nei Littoriali della cultura, nelle organizzazioni giovanili del regime e nei sindacati, che aveva legami profondi e mai interrotti con la sinistra democratica risorgimentale ed il sindacalismo rivoluzionario. Un fascismo di sinistra (4) che aspettava e lavorava per la seconda fase della rivoluzione la quale, esso sperava, avrebbe liberato il regime dai fiancheggiatori conservatori di destra, avviandolo verso il socialismo patriota. Una seconda fase rivoluzionaria che, salvo la tragica ed effimera parentesi della Rsi, non arrivò mai. Arrivarono invece la mortifera alleanza con il nazismo hitleriano, la guerra, il 25 luglio, il conflitto civile, il 25 aprile e la fine di ogni progettualità sociale fascista, che tuttavia lasciò – lo si vede persino in articoli fondamentali della Costituzione antifascista – una forte impronta nell’Italia del dopoguerra.

Si può, in un certo senso, affermare che se il nazionalismo aveva una visione autoritaria della nazione, la sinistra fascista, di eredità rousseauniana e mazziniana, ne aveva, invece, una democratica, partecipativa. Una democrazia, però, di tipo piuttosto totalitario che la avvicinava alla concezione hegeliana ed attualista dello Stato Etico, nonostante tutte le polemiche della sinistra fascista contro Giovanni Gentile accusato di essere un esponente del risorgimentalismo liberale e sabaudo. In effetti il filosofo attualista recitò, negli anni ’20, un copione liberal-conservatore, sulla scena di un fascismo di destra, ma successivamente, riprendendo le fila del suo giovanile discorso circa la filosofia di Marx, intesa come primato della prassi sull’essere, giunse ad una esegesi del corporativismo fascista come graduale avvicinamento ad un comunismo però “spirituale”, “volontaristico”, “idealistico”.

Il socialismo nazionale della sinistra fascista aveva forti connessioni con il produttivismo che era stato, a cavallo del XIX e del XX secolo, anche per eredità saintsimoniana, la piattaforma del sindacalismo rivoluzionario. La CGT francese ne aveva fatto la base della sua azione sindacale ed anche per questo la sinistra francese si sarebbe unita all’Union Sacrée nazionale al momento dello scoppio della prima guerra mondiale. Il produttivismo, grazie al contributo del sindacalista mazziniano Alceste De Ambris, permeò anche la dannunziana Carta del Carnaro, una costituzione che oggi gli storici giudicano socialmente avanzata nella scia di un socialismo democratico libertario, non marxista, profondamente connesso con l’eredità mazziniana, garibaldina e pisacaniana. Il Mussolini ancora socialista, ma già in rottura dal 1914 con il Psi ufficiale, avrebbe sottotitolato il suo “Popolo d’Italia” quale “quotidiano dei produttori” al posto dell’iniziale “quotidiano socialista”, affiancando a tale dicitura una citazione di Auguste Blanqui ed una di Napoleone Bonaparte. Il Palmiro Togliatti che, nel 1936, dalla rivista parigina “Lo Stato Operaio” lanciò il suo famoso appello ai fascisti di sinistra, “fratelli in camicia nera”, avrebbe ripreso, benché in una chiave tendenzialmente più classista, il produttivismo quando – nell’intento di aprire ai ceti medi, e non ripetere l’errore del partito socialista che nell’immediato primo dopoguerra non comprese, osteggiandolo, il disagio sociale della piccola borghesia, la quale poi fornì al nascente fascismo la sua base di massa – nel secondo dopoguerra tratteggiò i lineamenti della “via nazionale al socialismo”. Temi che, d’altro canto, si ritrovano anche nella riforma socialdemocratica del marxismo.

Il Cattolicesimo sociale

Come si è visto, il problema della democrazia sociale e sindacale, affrontato in una concezione   religiosamente spuria, piuttosto che “laica”, dagli Spirito, dai Panunzio, dai Bottai, dalla sinistra nazionale, era negli stessi anni materia di studio e discussione, ma in una prospettiva cristiana teologicamente inquadrata in una spiritualità tradizionale ed aperta alla Trascendenza, anche nel mondo culturale e politico del cattolicesimo sociale che affondava le sue radici nell’eredità dell’intransigentismo ottocentesco. Muovendo dall’esperienza di fine ottocento dell’Opera dei Congressi, presieduta dal tradizionalista Giovanni Battista Paganuzzi e con la partecipazione dei cattolico-sociali Stanislao Medolago Albani, Giovanni Grosoli e con quella dei sacerdoti fratelli Jacopo, Andrea e Gottardo Scotton nonché di vescovi come Giacomo Radini Tedeschi (5), il cattolicesimo sociale trovò un saldo terreno scientifico grazie all’opera storica del beato Giuseppe Toniolo, professore di storia economica nelle Università di Padova, Modena e Pisa e maestro di Werner Sombart, il sociologo organicista del “socialismo tedesco”. Toniolo, che diresse la sezione di “Economia Sociale” dell’Opera dei Congressi, l’unica significativamente preservata all’atto dello scioglimento dell’Associazione decretato da Papa san Pio X, fu il fondatore dell’Unione cattolica di Studi Sociali nonché ispiratore del progetto, più tardi dopo la sua morte realizzato da padre Agostino Gemelli, di una Università Cattolica del Sacro Cuore.

Studiando l’economia della Firenze medievale, Toniolo vi ritrovò il modello che, adattato ai tempi moderni, poteva ancora essere proposto per la soluzione giusta dei conflitti sociali attraverso la cooperazione tra quelle nuove “corporazioni di arti e mestieri” che erano i sindacati di classe, datoriali ed operai, nati dalla rivoluzione industriale. Proponendo la riattivazione della solidarietà cetuale della antica civitas cristiana, Toniolo mirava ad una forma di democrazia impregnata di spirito cristiano nella quale, con il riconoscimento giuridico dei sindacati e la loro partecipazione al Politico ma senza negare quest’ultimo, realizzare una migliore redistribuzione della ricchezza prodotta riavvicinando capitale e lavoro nella prospettiva finale di una loro possibile riunificazione corporativa. In questo quadro concettuale, che ammetteva la libertà di commercio, Toniolo si opponeva invece alla libera circolazione dei capitali perché era giustamente convinto che la finanza dovesse rimanere, sotto controllo pubblico, strettamente strumentale all’economia reale e non dovesse soggiacere alla sua innata e pericolosa tendenza autoreferenziale di diventare un mero mezzo speculativo di arricchimento, per fare denaro dal denaro senza lavorare, a tutto vantaggio, in altri termini, di pochi percettori della rendita da interesse monetario improduttivo.

Nel congresso milanese del 1894 dell’Unione cattolica di Studi sociali, egli promulgò il primo programma sociale cristiano, il cosiddetto “Programma di Milano”, chiamato anche “Programma dei cattolici di fronte al socialismo”. Questo programma giungeva ad appena tre anni dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII per riaffermarne esplicitamente i principii ed i contenuti: la necessità di occuparsi della classe operaia per farla uscire dalla condizione di subalternità che la opprimeva, la all’epoca coraggiosa proposta della ricostituzione degli enti morali ecclesiastici, incamerati dallo Stato unitario, che per secoli avevano svolto una funzione essenziale nell’alleviare la miseria delle persone svantaggiate (oggi parleremmo di “terzo settore”), la realizzazione di una riforma agraria per distribuire la terra ai contadini, la necessità della creazione di associazioni operaie cattoliche ossia di sindacati di soli lavoratori in luogo della nostalgie per la premoderna corporazione mista, l’introduzione nei rapporti industriali della cointeressenza ossia della partecipazione operaia ai profitti ed alla proprietà aziendale (proposta, questa, di cui si ricorderà successivamente Pio XI che nella “Quadragesimo Anno” sancirà essere moralmente giusto il “temperamento del contratto di lavoro subordinato con il contratto di società”). Provocatoriamente Toniolo riassunse il suo programma mediante lo slogan: «Proletari di tutto il mondo unitevi in Cristo sotto il vessillo della Chiesa!». Nonostante questo linguaggio in apparenza modernista, in realtà la sua azione sociale fu caratterizzata da una profonda sintonia con il magistero ecclesiale. La soluzione del conflitto sociale stava, per lui, nel ritorno alla giustizia e alla carità nelle relazioni tra le classi in obbedienza al magistero infallibile della Chiesa. Il suo “concetto cristiano di democrazia” non ebbe nulla a che fare con quello modernista di un Romolo Murri o di un Marc Sangnier perché piuttosto, come detto, si inseriva in una proposta di ricostruzione, adatta ai tempi dell’industrializzazione, quindi secondo uno spirito di autonomia e di libertà associativa sindacale, dell’organicismo sociale della Cristianità. Nell’ambito della scienza storico-sociale, il suo “Trattato di economica sociale” resta tutt’oggi un classico.

Come si diceva, dall’eredità tonioliana nacque, su sua ispirazione, l’Università Cattolica del Sacro Cuore che, durante gli anni del fascismo, rappresentò il contraltare religioso della laica Normale di Pisa diretta da Giovanni Gentile. Il magistero di Toniolo fu anche la matrice culturale dalla quale, grazie all’attività scientifica della Cattolica, mossero le loro prime attività i cattolici corporativisti degli anni ’30 come padre Agostino Gemelli, Amintore Fanfani e lo stesso, in quel momento non ancora liberale, Alcide De Gasperi. Questi cattolici corporativisti, forti anche dell’appoggio concesso dalla “Quadragesimo Anno” di Pio XI, che elogiava sebbene criticamente l’esperimento italiano, rappresentarono la punta più culturalmente avanzata del mondo cattolico speranzoso, in quegli anni, di una riforma in senso cristiano del corporativismo fascista, con più ampie autonomie sindacali. Nel dopoguerra, mentre nella elaboranda costituzione del 1946 venivano travasati i principi fondamentali di una concezione corporativista della comunità nazionale (i mai attuati articoli 36, primo comma, 39, 41, terzo comma, 46 e 99), si parlò persino di un possibile “corporativismo democratico”. A propugnare tale ipotesi non fu solo Giuseppe Bottai, convertito alla fede cattolica, dalle pagine della sua rivista ABC ma anche una ben precisa corrente della sinistra democristiana  ovvero – attenzione! – non quella pauperista, anti-produttivista e millenarista di Giuseppe Dossetti bensì quella del citato Fanfani e del tomista “neo-intransigente” Giorgio La Pira.

Memore della sua esperienza anteguerra, che lo vide quale giovane professore di storia economica anche membro di importanti commissioni per l’elaborazione di una storia sociale dell’Italia insieme ai più noti storici del tempo quasi tutti simpatizzanti con la sinistra fascista (6), Amintore Fanfani, non a caso, abbandonò ben presto le ubbie chiliastiche, ed acriticamente ed indistintamente “antifasciste”, dei dossettiani per riavvicinarsi al realismo degasperiano senza tuttavia gli abboccamenti einaudiani e liberali dello statista democristiano. Infatti, sia come primo ministro e sia come influente esponente della politica italiana fino agli anni ’80, Fanfani ha costantemente ispirato la sua azione politica ai principi corporativi sviluppati in una chiave socialmente avanzata ma anche saldamente ancorata all’etica cattolica, come dimostrò personalmente ai tempi dei referendum sul divorzio e sull’aborto quando si schierò apertamente a favore dell’abolizione  persino impegnandosi attivamente nella lotta referendaria. Anzi si può dire che la sua parabola discendente iniziò dopo le sconfitte referendarie che avevano messo in mostra quanto ormai l’Italia non fosse più cristiana e, quindi, neanche più difendibile dall’imminente aggressione neoliberista che, di lì a poco, sull’onda della rivoluzione conservatrice della Thatcher  e di Reagan, si manifestò, aprendo la strada al baratro ordoliberale ed eurocratico nel quale la nostra nazione ormai, salvo imprevisti, è inesorabilmente caduta.

Il primato cattolico nella distinzione tra organicismo e totalitarismo ed alla luce dello scontro (!)/incontro (?) tra due spiritualità

La ricostruzione dei percorsi storici ed ideali della sinistra nazionale e del cattolicesimo sociale potrebbe ingenerare stupore ed anche confusione. Tuttavia non deve destare nessuna meraviglia questa comunanza e convergenza di tematiche tra le due famiglie politiche a condizione, però, di non sottacere che i cattolici hanno, in qualche modo, una sorta di copyright in materia. L’organicismo, infatti, è da sempre la filosofia sociale cattolica per eccellenza. Dicendo da sempre intendiamo dire sin dagli albori della nascita della Chiesa apostolica. La riflessione cristiana, già ai tempi apostolici e poi in quelli della Patristica e della Scolastica, riprese, alla Luce della Rivelazione abramica, l’organicismo classico ellenistico-romano per rifondarlo su basi metafisiche più sicure che non quelle di un olismo tendenzialmente emanatista e panteista. Il “bene comune” è l’idea tradizionale, di derivazione platonico-aristotelico-tomista, che costituisce il perno ed il vertice della visione cattolica del Politico. Non si dà, tuttavia, alcun bene comune al di fuori di una concezione comunitaria della vita associata. Comunità, però, non è totalità ma organicità perché come il corpo si esplica in articolazioni distinte, sebbene unite da un medesimo principio originario, così le comunità particolari sono ricomprese, non dissolte!, nella Comunità Politica che ne è l’origine unitaria.

I corpi intermedi, nella concezione cattolica tradizionale, non devono essere fagocitati dallo Stato ma in esso ricompresi in libera autonomia, cooperazione e coordinazione. Ma questo è possibile solo se lo Stato resta distinto dai gruppi sociali ponendoli tutti sullo stesso piano ontologico e sociologico. Una totalità che assorbisse i gruppi per dissolverli nell’indistinzione non sarebbe organica ma piuttosto totalitaria e pertanto distruttiva. Il punto di discrimine tra il corporativismo fascista, di ascendenze idealiste  e socialiste nazionali, ed il corporativismo cattolico, che ha radici tradizionali e fondamenti trascendenti, sta proprio in questo: il primo tende a fagocitare i corpi intermedi, il secondo a ricomprenderli in sé, riconoscendo la loro autonomia, per ordinarli e coordinarli in vista del superiore Bene Comune. Quest’ultimo essendo “il bene dell’uomo in quanto uomo” è bene politico, non senza non essere anche spirituale, e coincide inevitabilmente con quello della Comunità o Unità Politica, ossia con la forma storicamente vigente della vita sociale dei singoli uomini intessuta dalle relazioni vitali che essi reciprocamente, per natura, non per contratto, stabiliscono tra loro. Nella modernità questa forma ha assunto quella della nazione organizzatasi intorno allo Stato nazionale, non alieno, salvo che nella concezione giacobina, da articolazioni locali. E’ importante distinguere tra organico e totalitario perché il pensiero liberale gioca proprio sull’equivoco terminologico per bollare l’organicismo come totalitarismo e così accreditare l’individualismo quale unica filosofia sociale possibile.

Questo punto di discrimine tra le due concezioni del corporativismo, la fascista e la cattolica, non è un mero, superabile, trascurabile, “dettaglio” perché in realtà in esso sta tutto il significato profondo dello scontro tra due spiritualità, quella chiusa nell’orizzonte mondano, immanentista, e quella aperta sui vasti ed infiniti spazi della Trascendenza. La prima, per infondere negli spiriti umani l’idea che l’uomo è auto-costruttore del suo destino finale, chiaramente “scimmiotta” la seconda utilizzandone financo il linguaggio, la simbologia e le forme liturgiche. Si pensi, ad esempio, al titolo di “arcangelo del sindacalismo” che fu attribuito ad una delle figure più belle del sindacalismo rivoluzionario ossia Filippo Corridoni, il quale concepiva la militanza sindacale non nei meri termini della rivendicazione salariale ma come “missione di civiltà” e “crociata ideale”. Corridoni era una sorta di “mistico del sindacalismo”. Emilio Gentile, uno dei più accreditati storici del fascismo, a proposito della politica di massa del regime di Mussolini, ha parlato di “Culto del Littorio” ricercandone le radici nell’ideologia mazziniana della “terza Roma”, che parte dal giacobinismo settecentesco per arrivare alla sinistra nazionale attraversando tutto il Risorgimento repubblicano e democratico (7).

Il fascismo era comunque una “religione politica” che contendeva al Cattolicesimo l’anima degli italiani, nonostante la Conciliazione e la speranza, che fu innanzitutto di Papa Pio XI, e di quasi tutta la Chiesa italiana, di “battezzare” il regime: «… con la Conciliazione – ha scritto Augusto Del Noce – il fascismo rompeva col risorgimentalismo laico senza d’altra parte potersi realmente collegare col cattolicesimo, in ragione del suo aspetto di religione secolare (…). Nel 1940 il fascismo si trovò davanti al problema della scelta del modo della sua morte. Poteva infatti subordinarsi alla politica di pace di Pio XII, facendo dell’Italia il perno della fascia dei Paesi neutrali; in questo caso doveva però consentire a dissolversi tacitamente in una forza di altra natura. Poteva invece accettare di diventare uno strumento del nazismo. Tutte le ragioni di ordine politico militavano per la prima soluzione. La tendenza eversiva di Mussolini lo portò a un’alleanza che non si poteva chiamar tale, data la posizione di totale soggezione in cui il fascismo dovette collocarsi nei riguardi del nazismo» (8). Si trattava, in sordina, del conflitto, inevitabile, tra due religioni, una umana e l’altra rivelata. Ciononostante – e questo è il segno che Dio sa operare nella storia attraverso eventi magari insignificanti per gli storici ed i cosiddetti “sapienti del mondo” ma importanti in chiave escatologica e teologica – i più aperti e “puri” tra i sindacalisti fascisti, provenienti dalla sinistra nazionale, come ad esempio Francesco Grossi (9), Riccardo Del Giudice e lo stesso Giuseppe Bottai, già massone, repubblicano, mazziniano, che fu ministro delle Corporazioni (10),o erano ab origine cattolici praticanti o si convertirono a Cristo diventando convintamente cattolici.

Mussolini da socialista comprese che la nazione unisce mentre la classe divide. Ma egli – anche qui va registrata una evidente convergenza, pur da distanze “filosofiche” assolutamente diverse, e non trascurabili in termini di effetti concreti, con la concezione di un Toniolo – non disconosceva affatto la classe intesa come ceto perché, se è vero che il fondamento del ceto è innanzitutto spirituale e vocazionale, è egualmente ed altrettanto vero che esso ha anche un aspetto economico il quale si manifesta appunto come classe. Si può negare l’esistenza dell’aspetto economico ma questo nella realtà storica persiste per il semplice fatto che l’uomo è ontologicamente ferito, dunque non perfetto sicché non perfette sono le sue realizzazioni comprese quelle politico-sociali, sempre esposte all’ingiustizia che è, in radice, mancanza di Caritas. Platone idealizzava le differenze vocazionali dei ceti della sua Repubblica utopica ma la concreta realtà storica del suo tempo testimonia una gerarchia castale fondata sull’egemonia aristocratico-terriera. Il figlio del contadino rimaneva tale anche se migliore del figlio di re Agamennone. Per questo, realisticamente, bisogna partire dal dato di fatto che le differenze di classe ci sono per poi superarle gradualmente attraverso la redistribuzione della ricchezza e la condivisione, non l’abolizione, delle proprietà. Comunione, dunque, non comunismo.

Per riprendere da dove abbiamo iniziato, una saggia politica cristiana, sociale e nazionale deve tendere al riavvicinamento, fino dove possibile alla fusione, tra capitale e lavoro per ripristinare la medesima condizione giuridica ed economica dell’antico artigiano corporato. La statizzazione ha dimostrato di non funzionare. Lo Stato è sovrano sui corpi intermedi, non è il loro annientatore. Ma, appunto, sovrano ossia capace di imporsi all’eventuale riottosità, alla rissosità e al particolarismo di essi. Deve essere, se vero Stato, capace di imporsi sulle resistenze che tanto il capitale, più frequentemente, quanto il lavoro mostrano verso i tentativi di riavvicinarli organicamente, in vista della loro fusione futura. D’altro canto, laddove mai si giungesse alla fusione tra capitale e lavoro non è affatto detto che scomparirebbero i sindacati, intesi quali corpi intermedi, come pensava Ugo Spirito. Infatti, già ora, dove è applicata la co-determinazione o co-gestione, il ruolo dei sindacati resta fondamentale. Piuttosto, in uno scenario di fusione tra i fattori della produzione, il sindacato sarebbe tutt’al più trasformato in sindacato di categoria – dei dirigenti, dei quadri, degli impiegati, degli operai – all’interno delle aziende socializzate come anche all’interno delle strutture organiche e partecipative dello Stato.

Tuttavia – ed è questo il punto essenziale e fondamentale, al di là di ogni pur perfezionabile progettualità politica, tecnica, economica – senza l’apertura degli spiriti, dei cuori, e della cultura politica, alla Trascendenza resta difficile percorrere un cammino comunitario perché, purtroppo, opera nella storia la tendenza egoica, individualista, insita nella natura ferita dell’uomo. Se non ci fosse questa tendenza il comunismo come la stessa corporazione proprietaria di Ugo Spirito avrebbero funzionato. Ma quella tendenza egoista esiste e bisogna tenerne conto, perché non è eliminabile con le sole forze umane come credono i pelagiani. Tutti i socialisti, compresi quelli fascisti, sono in fondo dei pelagiani che credono al mito rousseauviano del bon sauvage. Si tratta di essere realisti senza cadere né in un eccesso di antropologia negativa, pessimista, né in un eccesso di antropologia ottimista, positiva. Lutero/Hobbes, da un lato, Pelagio/Rousseau, dall’altro, portano a conclusioni irrealistiche, perché l’uomo è sì peccatore ma anche redimibile laddove egli apre il cuore all’Amore Crocifisso accettando per sé, per la propria vita, per le proprie relazioni sociali, quella salvezza già concretizzatasi in potenza per tutti ma che, nella scelta del Creatore di rispettare la libertà della creatura, ciascuno deve poi attuare nei suoi giorni, nelle circostanze nelle quali è stato chiamato a vivere, in sé ed intorno a sé. Uno sforzo certo impossibile per le sole forze umane ma che diventa possibile per i meriti della Kenosi di Dio. A condizione, tuttavia, che almeno il primo passo lungo la “via stretta” sia fatto dall’uomo.

Luigi Copertino

 

NOTE

1. Anche il sistema corporativo medioevale conobbe le sue conflittualità sociali perché, pur essendo capitale e lavoro riuniti nelle stesse mani, i maestri artigiani dirigevano una bottega, l’embrione dell’azienda moderna, nella quale avevano alle loro dipendenze sia i figli che gli apprendisti ma anche i garzoni salariati. Sebbene il clima a conduzione familiare e “scolastico-iniziatico” non facesse emergere o stemperasse i possibili conflitti tra i dipendenti salariati ed i maestri artigiani – solo questi d’altro canto erano “corporati” ossia membri attivi, con pieni diritti, delle associazioni di Arte e Mestiere le quali stabilivano d’autorità, con lo scopo di evitare la concorrenza tra i propri associati, non solo i prezzi ma anche le tariffe salariali – una certa conflittualità era comunque latente. La “rivolta dei ciompi”, ossia degli operai salariati, tra il giugno e l’agosto del 1378 a Firenze, che portò alla costituzione di “corporazioni” di soli operai – antesignane in qualche modo dei “compagnonaggi” settecenteschi della prima rivoluzione industriale – e ad un riassetto più popolare del governo cittadino, fu, per quanto di breve durata, prima della repressione, un esempio di proto-sindacalismo in un’epoca ancora proto-capitalista che avrebbe potuto preludere persino ad un successivo sviluppo più sociale del percorso moderno verso l’economia di mercato. La rivolta si caratterizzò, in una età ancora profondamente cristiana, anche per una accesa religiosità tuttavia subito deviata verso derive ereticali, pauperiste e millenariste, alimentate in particolare dai gruppi del francescanesimo eterodosso, come i cosiddetti “fraticelli”, che mai vollero accettare ciò che al contrario, pur non auspicando per sé il ruolo di fondatore di un Ordine, che piuttosto gli fu imposto con l’obbligo di scrivere la regola, aveva accettato con sincerità lo stesso Francesco ossia la “santa obbedienza” alla Chiesa di Cristo.

2. Cfr. Giuseppe Parlato “La sinistra fascista – storia di un progetto mancato”, Il Mulino, Bologna, 2008.

3. Va tuttavia detto che, in questo “liberismo” del primo fascismo di governo ebbe il suo peso anche l’influsso di un certo anarcoliberismo “bakuniano” ed “autogestionale” che serpeggiava nello stesso sindacalismo rivoluzionario. Il quale, infatti, auspicava una società auto-organizzata sulla base di patti federativi ed orizzontali tra i corpi sociali e senza alcun coordinamento “autoritario” dello Stato.

4. Molti esponenti di questo nuovo fascismo di sinistra, senza alcun rinnegamento o pentimento per la precedente esperienza fascista ma al solo scopo di continuare la medesima lotta anticapitalista, intrapresa sotto Mussolini, finirono nel dopoguerra nelle fila del Pci, ben accolti da Togliatti il quale nel 1946 promulgò l’amnistia proprio per reclutare i giovani fascisti di cui ben conosceva le idealità socialiste.

5. L’Opera dei Congressi era nata per coordinare le attività sociali dei cattolici nell’Italia post-unitaria e per tutelare le ragioni della Santa Sede pur nel quadro dello Stato italiano riconosciuto e non più contestato, quindi con posizioni molto lontane da quelle legittimiste dei nostalgici delle monarchie pre-unitarie. Essa fu travolta da un lato dalla repressione governativa, attuata manu militari dal generale Bava Beccaris, a seguito dei moti popolari di Milano del 1898, ai quali i cattolici presero parte attiva congiuntamente ma separatamente dai socialisti, e dall’altro dalla crisi modernista che colpì la Chiesa e che, dopo i fatti di Milano, assunse in politica la forma del cristianesimo democratico di don Romolo Murri, il quale tendeva ad una visione lamennesiana e quindi immanentista del Cristianesimo, inteso soltanto alla stregua di una proposta di riforma sociale e senza alcuna base di Trascendenza, stemperando la fede in un generico democraticismo tendenzialmente socialista sul modello umanitario che sarà anche quello del Sillon di Marc Sangnier. Noto è il tentativo che Murri, fondatore nel frattempo di una Lega Democratica Nazionale, fece dalle pagine della sua rivista “Cultura sociale” per aprire un dialogo con il Partito Socialista prospettando una possibile collaborazione politica in difesa dei ceti popolari e più poveri. Gli rispose, con tono carducciano, dalle pagine della rivista socialista “Critica Sociale”, Filippo Turati ricordandogli che il socialismo era “figlio primogenito del diavolo” ossia del libero pensiero, con evidente accenno alle radici massoniche del socialismo stesso. Una risposta sincera, quella di Turati, che Murri sottovalutò, come è sempre accaduto a quei cattolici sensibili ai temi sociali ma poco teologicamente prudenti e che costituiscono l’immagine speculare di quegli altri cattolici sensibili alla purezza della fede ma troppo poco attenti alle conseguenze sociali della fede e che, minimizzandole, finiscono per collaborare con i conservatori, i liberisti, i fautori acritici del capitalismo di mercato. Forse non è stato affatto un caso se Romolo Murri, scomunicato e spretato, si sarebbe avvicinato, per l’amicizia con Dino Grandi, al fascismo sociale, sposandone in polemica con la politica ufficiale del regime e con il Concordato gli ideali democratici, prima di morire nel 1944 tuttavia riconciliato in extremis – Pio XII nel 1943 revocò la scomunica – con la Chiesa.

6. Il riferimento è all’iniziativa presa da Riccardo Del Giudice, uno dei più preparati esponenti sindacali fascisti, nonché docente di diritto corporativo all’Università di Roma e dal dicembre 1939 sottosegretario di Giuseppe Bottai al ministero dell’Educazione nazionale. Del Giudice ideò un progetto culturale inteso a delineare una “storia del lavoro in Italia”. L’opera collettanea ed in più volumi avrebbe dovuto rileggere la storia nazionale attraverso il lavoro inteso come momento unificante ed interpretativo della società e come elemento pedagogico-rivoluzionario. Allo scopo, nell’aprile 1939, in occasione del decennale della Confederazione Fascista dei Lavoratori del commercio, di cui era presidente, Del Giudice coinvolse nel suo progetto un notevole gruppo di storici. Alla prima riunione della commissione di studio, il 22 di quel mese, erano presenti, tra gli altri, Federico Chabod, Giuseppe Maranini, Ernesto Sestan ed, appunto, Amintore Fanfani. Il progetto fu interrotto dalla guerra. Nel 1943 furono pubblicati soltanto due dei volumi previsti, quello di Fanfani e quello di Luigi Del Pane, tra gli studiosi del gruppo più motivati. Fanfani cercò di riattivarlo nel dopoguerra di intesa con lo stesso Del Giudice e Gino Barbieri docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Questa vicinanza di un sindacalista fascista ai cattolici sociali della Cattolica non è stata casuale e, in una prospettiva escatologica, assume una valenza provvidenziale: «Dopo la guerra, – scrive Giuseppe Parlato – fu … l’ambiente dell’Università milanese del Sacro Cuore a volere recuperare il progetto (…) D’accordo con Fanfani, Barbieri incaricò per la parte relativa al ‘900, insieme con Riccardo Del Giudice, Mario Romani, anch’egli docente dell’Università Cattolica, ed esponente della storiografia cattolico-sociale. La presenza della componente cattolica fin dalla fase “fascista” del progetto aveva tuttavia un’altra motivazione, questa volta legata all’evoluzione del pensiero di Del Giudice, il quale, come Bottai – ma con altre suggestioni e attraverso altri canali – tra il 1940 e il 1941 si era avvicinato alla fede cattolica e, conseguentemente, ad una visione religiosa della vita e della politica. Questa evoluzione comportò un interesse nuovo di Del Giudice nei confronti del filone sociale cattolico, che si espresse in alcuni interventi giornalistici nei quali recuperare nell’ambito del corporativismo, la visione della dignità della persona»; cfr. G. Parlato “La sinistra fascista …” op. cit. p. 196.

7. Emilio Gentile “Il Culto del Littorio – la sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”, Laterza, Bari, 2009; cfr. anche Emilio Gentile “Contro Cesare – Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi”, Feltrinelli, Milano, 2010.

8. Augusto Del Noce “Il suicidio della rivoluzione”, Rusconi, Milano, 1978, pp. 354-356. Tuttavia, da diversi indizi, se non prove, sembra che Mussolini ebbe, in segreto, nell’intimo, lungo tutta la sua vita, un travagliato rapporto con la fede, cui fu educato da piccolo da sua madre, che sarebbe poi sfociato, negli ultimi anni della sua vita, mentre la sua parabola storica e personale volgeva nella tragedia verso la fine, in una estrema conversione a Cristo. Sull’argomento cfr. Ennio Innocenti “La conversione religiosa di Benito Mussolini”, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 2001. Un’opera questa che ha attratto l’attenzione di Renzo De Felice, pur rimasto scettico sull’ipotesi avanzata.

9. Francesco Grossi “Battaglie sindacali – Intervista sul Fascismo rivoluzione sociale incompiuta”, Istituto di Studi Corporativi, 1988.

10. Su Bottai cfr. Maria Grazia Bottai “Giuseppe Bottai, mio padre – una biografia privata e politica”, Mursia, 2015. In questa biografia la figlia ricostruisce molto bene le fasi del riaccostamento di Bottai alla fede cattolica – un riaccostamento interiormente forte, vissuto e sofferto ma limpido. Nel dopoguerra l’ex ministro fascista ebbe stretti rapporti con diversi esponenti del cattolicesimo politico intenti a porre le basi per una continuazione democratica della politica sociale corporativista dell’anteguerra. Lo stesso Fanfani, che all’epoca del varo del suo “Piano Casa” aveva già preso contatti con Francesco Grossi, il quale nella sua opera di sindacalista si era dedicato in particolare all’edilizia operaia e popolare, contattò Bottai per consulenze di politica sociale. Anche Aldo Moro, il cui padre era stato, come funzionario ministeriale, segretario di Bottai, approfondì, quale studioso oltre che quale statista, le linee ideali di fondo della politica sociale che il gerarca fascista tentò, spesso ostacolato, di realizzare senza tuttavia riuscirvi fino in fondo. Maria Grazia Bottai, nel libro citato, ricorda come il padre, per via della conversione, avesse stretto amicizia con molti esponenti della cultura cattolica, ad iniziare da don Giuseppe De Luca, grande intellettuale dell’epoca, con diversi religiosi di alta spiritualità ed anche con alcuni cardinali. Uno di questi, il cardinal Pizzardo, corse al capezzale di Bottai piangendone la morte come la perdita di un grande figlio della Chiesa.