QUEL GIANO BIFRONTE DI MARIO DRAGHI – di Luigi Copertino

QUEL GIANO BIFRONTE DI MARIO DRAGHI

Dunque è arrivato il “messia”, il “salvatore della patria”, non dal Cielo ma direttamente da Bruxelles/Francoforte e giù tutti ad applaudire. Sia la Lega sia i 5Stelle, ossia le due componenti del primo governo Conte – quello che doveva recuperare la dignità nazionale calpestata del potere finanziario globale, di cui l’eurocrazia central-bancaria guidata da Mario Draghi era l’emblema da abbattere – si sono calate i calzoni ed hanno dichiarato la resa.

Si è detto che il Draghi di oggi non è quello del 1992 né quello del 2011, che è tornato alle origini del suo discepolato alla scuola keynesiana di Federico Caffè, che il suo intervento sul Financial Times della scorsa primavera ha segnato il punto di svolta nell’abbandono della linea austeritocratica. Qualcuno – persino tra i sovranisti come Paolo Becchi e tra economisti seri come Alberto Bagnai e Claudio Borghi – dice che il suo programma, in pectore, di spesa pubblica produttiva porrà fine alle sofferenze nazionali ed avvierà la ripresa.

Il nostro Direttore, Maurizio Blondet, ha osservato, a ragione, che è stata l’incompetenza della politica, l’insignificanza culturale di tanti peones che affollano i banchi parlamentari e governativi, ad aver aperto la strada a Draghi che certamente è uomo di notevole competenza. Quindi dobbiamo ora sperare che voglia davvero attuare i suoi dichiarati intenti “keynesiani”, perché l’Italia non ha altre carte da giocare.

Sì, Blondet ha ragione. La disfatta totale della Politica ha creato il vuoto che i tecnocrati di provenienza bancaria e finanziaria hanno riempito. Il punto è che questo non è accaduto solo ora, con Draghi, ma è una storia che risale indietro nel tempo, perché all’arrivo dei banchieri per mettere in riga i politici incompetenti, o farabutti, abbiamo assistito già ai tempi dei governi Dini e Ciampi. Ed allora c’era la lira, non l’euro.

Sì, ha ragione Blondet. E’ stato il fallimento della politica a portare Draghi al governo. Ma il fallimento della politica va spiegato innanzitutto come un fallimento educativo. Sul Corsera, Ernesto Galli Della Loggia, in questi giorni, ha messo in evidenza che la classe politica della prima Repubblica si era formata in un sistema scolastico improntato alla cultura umanistica che forniva ai politici un quadro di riferimento valoriale tale da consentire loro, nonostante ogni machiavellismo che la politica comunque comporta, di orientarsi e di comprendere il mondo. Questo quadro manca del tutto ai Salvini, ai Di Maio, ai Zingaretti, alle Boldrini, e via dicendo. Galli Della Loggia, tuttavia, ha dimenticato di dire che la decadenza era già iniziata durante la prima Repubblica. In proposito basta pensare ad un Clemente Mastella. D’altro canto una cosa sono stati i De Gasperi, gli Andreotti, i Craxi, i Berlinguer, gli Almirante, i Rauti, che avevano tutti, bene o male, uno spessore culturale improntato, se non alla trascendenza religiosa, quantomeno al senso, a suo modo civilmente religioso, del bene comune, del bene patrio – che poi la scuola gentiliana esaltava –  ed altra cosa sono stati, soprattutto dopo gli anni sessanta, i faccendieri della partitocrazia, sovente rivoluzionari che gettata alle ortiche l’utopia volevano afferrare i privilegi del potere senza contropartite. La partitocrazia fu poi travolta da “mani pulite” che però, a sua volta, aprì la strada ai pirati globalisti del Britannia ed al potere indebitamente politico dei settori deviati della magistratura. Altrettanto corrotto come è emerso nella vicenda Palamara.

Ora, dunque, è arrivato il momento di Mario Draghi.  La sua vicenda biografica e la sua carriera portano inevitabilmente a considerarlo un vero e proprio Giano bifronte.

Chi ora guarda al Draghi neo-keynesiano, dovrebbe rammentare gli esordi di Super-Mario. Esordi che, sul web, racconta Nino Galloni, anche lui economista della cerchia di Federico Caffè e compagno di discepolanza di Draghi. Galloni narra la grande delusione dell’insigne economista pescarese quando seppe che il suo allievo preferito lo aveva abbandonato per la scuola delle “aspettative razionali”, ossia per il monetarismo di Milton Friedman che in quegli anni stava preparando la strada per il ritorno, in forma aggiornata, del vecchio liberismo della scuola neoclassica e viennese. Caffè aveva seguito strettamente, da vicino, come una linea di ricerca di suo diretto interesse professorale – siamo nel 1970, quando si iniziava a parlare di moneta unica – la tesi di laurea del suo giovane pupillo, Mario Draghi, intesa a dimostrare i rischi politici, sociali ed economici della cessione della sovranità monetaria.

Qualcosa ci fa sospettare che l’allontanamento di Draghi dal suo maestro non fu determinato soltanto da un cambio di idee e di paradigmi scientifici. Mario Draghi comprese che rimanendo keynesiano, mentre – a causa della crisi inflattiva di quegli anni che aveva messo in discussione i fondamenti della “curva di Phillips” sulla quale si basavano le politiche keynesiane di spesa pubblica – andava profilandosi l’affermazione di un neoliberismo rampante, ogni possibilità di carriera, che non fosse quella cattedratica di docente universitario, gli sarebbe stata preclusa. Insomma, senza l’abbandono del suo maestro, Draghi non sarebbe mai arrivato al Fondo Monetario, a Goldman Sachs, a Bankitalia ed alla Bce.

Questo “peccato originale” già consente di inquadrare la tipologia umana di Draghi. Sicché oggi che viene di nuovo accreditato come il geniale allievo di Federico Caffè, non possiamo dimenticare di averlo visto, nel giugno 1992, quale Direttore generale del Tesoro, all’opera, al largo di Civitavecchia, sul panfilo Britannia, di proprietà di Sua Maestà Elisabetta d’Inghilterra (una vicenda della quale, nel 1993, parlò per primo in Italia proprio Maurizio Blondet, in una inchiesta giornalistica che fruttò una serie di interrogazioni parlamentari), per incontrare, insieme agli esponenti del futuro governo Amato, i rappresentanti della Goldman Sachs, della Merril Linch e di altre banche d’affari angloamericane in vista della privatizzazione del patrimonio industriale pubblico nazionale. Una privatizzazione che in realtà si rivelò, in un momento nel quale la lira veniva svalutata e quindi il valore degli asset italiani deprezzato, una svendita della quale lucrarono il frutto proprio i pirati di quelle banche d’affari angloamericane.

La privatizzazione, nel clima euforico del liberismo trionfante mentre ancora fumavano le rovine del Muro di Berlino e nell’ansia escatologica da “fine della storia” della quale si era fatto banditore Francis Fukuiama, fu giustificata come la soluzione per ripianare il debito pubblico e per efficientare l’economia italiana troppo arretrata nel suo capitalismo familiare e provinciale, troppo “socialista” e troppo protetta, poco aperta alla globalizzazione in atto.

In realtà quello scempio pose fine al modello italiano di sviluppo, quella terza via che aveva fatto, nel secondo dopoguerra, dell’Italia una tra le maggiori potenze industriali. Era il modello dello Stato imprenditore che mediante le sue holding pubbliche, dall’Iri all’Agip (dalla quale si sviluppò l’Eni), operava, in settori strategici o abbandonati dall’imprenditoria privata, accanto ai privati in un sistema di mercato. Quindi un modello assolutamente diverso da quello della pianificazione comunista. Un modello che, a differenza di quello sovietico, funzionò e diede ottimi risultati. Allo stesso modello va ascritta la Legge bancaria del 1936 che nazionalizzò Bankitalia, nata privata. Le basi strutturali di quella terza via erano state impiantate prima della guerra, negli anni ’30, ad opera di quel valoroso tecnico “patriota” ed “afascista” che fu Alberto Beneduce con l’appoggio pieno ed incondizionato di Mussolini. Nel dopoguerra cattolici e comunisti le basi dello Stato imprenditore e sociale semplicemente se le trovarono lì già pronte ed implementate e si limitarono, peraltro intelligentemente, a svilupparle anziché smantellarle come avrebbero voluto gli americani. Si veda, per capire la partita giocata all’indomani della fine della guerra, la storia di Enrico Mattei partigiano bianco e del suo fidato ingegnere capo dell’Agip di dichiarata fede fascista che unirono forze e competenze per impedire il prevalere degli interessi privati ed esteri delle multinazionali americane a danno dell’interesse nazionale. Draghi, invece, nel 1992 collaborò alla rivincita di quelle multinazionali e questo dimostra la differenze culturale tra la classe politica e tecnica dell’immediato dopoguerra, tra l’altro cresciuta negli ideali patriottici che il regime fascista inculcava agli italiani, e la classe politica e tecnica di fine secolo conquistata alle idee globaliste.

Sarà stato pure un caso, però dopo quella vicenda Draghi fu chiamato in Goldman Sachs e quindi, dopo un passaggio in Bankitalia, alla Bce. Certo per le sue altissime ed indiscutibili competenze finanziarie, ma le circostanze in cui quelle nomine maturarono lasciano spazio per supporre che le sole competenze non sono state l’unico criterio di valutazione da parte di chi lo ha chiamato a quegli alti incarichi.

Il suo maestro Federico Caffè, pur consulente per Bankitalia, in una stagione nella quale la politica non era ancora ancella dell’economia, non ha mai ricevuto incarichi di governo dell’Istituto di emissione. E si capisce il perché. Caffè, che si riteneva “consigliere del cittadino e non del Principe” era uno strano economista. Un economista – qualcuno ha parlato del suo “cristianesimo laico” – che scriveva cose inaudite e non gradite al Gotha finanziario, come questa: «Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili». Caffè aveva, oltre che scienza e competenza, una visione etica dell’economia. Era questo approccio etico che egli cercava di trasmettere, insieme alle necessarie cognizioni scientifiche, ai suoi allievi, come racconta il film, a lui dedicato, “L’ultima lezione” (1991).

A giudicare dai fatti, purtroppo Caffè mentre è riuscito a infondere in Draghi la scienza non altrettanto pare sia riuscito riguardo alla visione etica dell’economia, nonostante che persino il buon e, in questo, ingenuo Benedetto XVI si sia fidato di lui per una revisione della “Caritas in Veritate” – con tanto di articolo a sua firma su l’Osservatore Romano – e nonostante che Papa Bergoglio lo abbia nominato membro della Pontificia Accademia di Scienze Sociali.

Riguardo all’etica, non è possibile, infatti, trascurare il comportamento tenuto da Draghi quale governatore della Bce. E’ vero che a Francoforte, imponendosi sul rigorismo teutonico del suo collega Jens Weidmann, della Bundesbank, Mario Draghi ha salvato l’euro, aggirando il trattato di Maastricht con il quantitative easing. E’ riuscito a farlo, mettendo la sordina ai falchi come il già citato Weidmann e lo spietato Wolfgang Schäuble, contando sull’appoggio politico di Angela Merkel, terrorizzata dalle conseguenze (l’attacco speculativo al debito pubblico dell’Europa meridionale che stava frantumando la moneta unica) provocate dalla dichiarazione sua e di Sarkozy, nel 2010, sulla fallibilità degli Stati nella zona euro. Ma è altrettanto vero, tuttavia, che, quale governatore della Bce, Draghi ha fatto parte della Troika ed ha, quindi, preso parte al massacro sociale ed economico della Grecia, per salvare le banche tedesche e francesi. Addossando, oltretutto, mediante il Mes, le loro esposizioni private verso Atene sui bilanci pubblici degli Stati europei.

Questa sua debolezza per gli interessi delle banche la dimostrò anche quando era al Tesoro contrattando con i mercati finanziari, ossia le banche dedite alla speculazione, un cospicua mole di derivati che alla lunga finirono per accrescere il debito pubblico benché nell’immediato consentirono all’Italia la pronta, ma rischiosa, liquidità per presentarsi con i conti a posto quando si trattò di essere ammessi nell’euro. Insieme alla tassa per l’Europa, che impose il governo Prodi, fu quella liquidità a dare l’impressione della nostra solidità che serviva alla Confindustria tedesca per toglierci l’arma della flessibilità del cambio a tutto suo vantaggio, ed a svantaggio del nostro lavoro, ed alla nostra pessima classe politica per legarci, cedendo la sovranità monetaria, al vincolo esterno, con la recondita finalità di realizzare, senza eccessive proteste e con l’acquiescenza di una sinistra addomesticata al globalismo “arcobaleno e gaio” (nacque all’epoca il ritornello del “ce lo chiede l’Europa”), le riforme neoliberiste (i “compiti a casa”) altrimenti non accettate dal popolo italiano.

La domanda quindi è: ci si può fidare di un uomo così? Draghi intende davvero attuare quanto ha affermato, in tema di spesa pubblica produttiva, nel famoso intervento della primavera 2020 sul Financial Times o che altro invece intende fare?

Staremo a vedere. Ma niente cambiali in bianco per favore …!

Nonostante la nostra diffidenza, per non dare l’impressione che il nostro voglia essere un ragionamento pregiudiziale, passiamo ora ad esaminare alcuni aspetti delle recenti idee di Draghi, in materia di controllo statuale della creazione e circolazione della moneta, che ci sembrano invece interessanti.

Su “Libero” Giovanni Sallusti, nel tentativo di accreditare Draghi come l’uomo necessario in questo momento, ha messo in evidenza la demarcazione, a suo giudizio sussistente, tra il teutonico ed ordoliberista Mario Monti e l’atlantista, “americano”, Mario Draghi. Quest’ultimo, secondo Sallusti, seguirebbe il Milton Friedman dell’elicopter money. Si tratta, in realtà, della forzatura concettuale di un innamorato di un mito vetusto.

La teoria di Milton Friedman, messa alla prova dei fatti, fece fallimento agli inizi degli anni ’80, perché si basava sulla vecchia idea della moneta legale quale unica, o prevalente, forma di moneta. Per il professore consigliere di Reagan sarebbe bastato aumentare o diminuire la quantità di moneta legale in circolazione per governare l’economia. Non appena le banche centrali di tutto l’occidente iniziarono, in applicazione della ricetta monetarista, ad effettuare manovre restrittive i tassi di interesse bancari conobbero una esplosione mai vista con collaterale aumento delle esposizioni debitrici da parte di famiglie ed imprese, costrette, per la rarefazione della moneta legale, a ricorrere ai prestiti delle banche per finanziarsi.

L’inaspettato fenomeno fu spiegato, dati alla mano, da un altro economista, considerato per questo il “martello del monetarismo”, Nicholas Kaldor. Il quale intuì l’impossibilità di un efficace funzionamento per una teoria nata già antiquata in quanto non teneva in debita considerazione che in una moderna economia monetaria oltre alla moneta legale esiste anche la quasi-moneta di creazione bancaria – ogni apertura di credito bancario funziona come fosse moneta messa in circolazione – creata ex nihilo dalle banche. Quindi se lo Stato non controlla il sistema bancario, pubblico e privato, non potrà mai controllare il complesso della circolazione monetaria che è costituito per il 95% da quasi moneta bancaria.

In un passaggio del suo discorso sul FT, Draghi sembra aver preso atto della dura lezione della realtà e della confutazione kaldoriana del monetarismo di Milton Friedman. Infatti egli ha messo in chiaro, da un lato, che bisogna smetterla di preoccuparsi del debito pubblico quando si tratta di spesa produttiva, ossia in conto capitale, ovvero di investimento, e non di spesa corrente – perché le evidenze scientifiche dimostrano che la spesa pubblica di investimento sostiene l’economia e non ha spinte inflattive incontrollabili (qui Draghi sembra far sue le tesi della MMT) – e, dall’altro lato, che lo Stato deve controllare le banche per costringerle a creare quasi-moneta per le imprese e le famiglie e non per finalità speculative. Draghi, contro il dettato di Maastricht, si è arrischiato ad affermare che, per recuperare la situazione provocata dalla pandemia, è necessario fare deficit pubblico almeno fino al 10%, quindi ben oltre il 3% stabilito a Masstricht.

«… l’unica strada efficace – queste le sue esatte parole – per raggiungere ogni piega dell’economia è quella di mobilitare in ogni modo l’intero sistema finanziario … immediatamente, evitando le lungaggini burocratiche. Le banche, in particolare, raggiungono ogni angolo del sistema economico e sono in grado di creare denaro all’istante, devono prestare rapidamente a costo zero alle aziende favorevoli a salvaguardare i posti di lavoro. E poiché in questo modo esse si trasformano in vettori degli interventi pubblici, il capitale necessario per portare a termine il loro compito sarà fornito dal governo, sotto forma di garanzie di Stato su prestiti e scoperti aggiuntivi».

In sostanza, stando all’ultimo Draghi, lo Stato deve immettere capitale nelle banche ma allo scopo di usarle come suoi strumenti di politica economica per la creazione ex nihilo di denaro, nella forma della quasi-moneta bancaria, e per metterlo a disposizione di imprese e famiglie. Questa idea di un sistema bancario creatore di moneta, per le imprese, ma sotto garanzia e controllo dello Stato, in modo da trasformare le banche in strumenti della politica economica statale, non è farina del sacco monetarista e liberista. E’ lontanissima dal puerile elicopter money di Milton Friedman.

La soluzione proposta è invece più vicina alle idee di Hajlmar Sachs, il banchiere centrale della Reichsbank che nel 1933 compì il miracolo della ripresa economica della Germania, devastata dalla deflazione conseguente alla grande crisi del 1929, mediante l’effetto Mefo, una sorta di cambiale spiccata sul capitale di una società metallurgica, creata allo scopo, e che era usata dagli industriali e dalle banche come moneta parallela sotto garanzia della stessa Reichsbank ossia, dato che all’epoca le banche centrali erano pubbliche, dello Stato. Chissà se Draghi, senza dirlo per l’ovvio motivo della dittatura del “politicamente corretto”, non abbia in effetti pensato a questo funzionale precedente.

Ciononostante – ribadiamo con forza – bisogna mantenere molta prudenza verso il personaggio per verificare nei fatti a cosa egli punta. Draghi resta pur sempre un uomo interno al Gotha globalista. Giulio Tremonti, ad esempio, lo ha accusato di essersi opposto, durante la crisi finanziaria del 2008-2015, all’idea di una regolamentazione, con finalità politica, dei mercati finanziari (ciò che Tremonti chiama il “global legal standard”) e di aver invece avvallato, proprio perché è esponente della finanza globalista, il financial stability board consistente in una regolamentazione di mera facciata all’ombra della quale la speculazione ha continuato imperterrita la sua attività criminale e criminogena.

Pur volendo ammettere, senza concedere prima di verificare i fatti, che Draghi voglia davvero perseguire una strada latu sensu “keynesiana”, va rilevata sin d’ora una forte perplessità. Se Draghi intende usare, per il suo piano keynesiano, le tanto decantate risorse del Recovery Fund, che il precedente governo piddino-pentastellato avrebbe ottenuto (invece semplicemente ci spettavano sulla base dei parametri disastrosi della nostra economia in lockdown prolungato), la sua strategia rischia di risolversi in un gran fallimento e le sue referenze, in vista del passaggio al Quirinale, di dissolversi.

Le risorse europee, infatti, a parte il fatto che sono concesse sotto condizionalità dei soliti “compiti a casa”, non sono affatto gratis. Per una quota maggioritaria si tratta di prestiti, quindi di debito da ripagare all’eurocrazia con tanto di interessi. Peggio che mai se poi al Recovery Fund Draghi decidesse, con un atto di suicidio nazionale, di aggiungere il ricorso al Mes.

Cosa è e cosa implica il Recovery Fund lo ha ribadito, in questi giorni, molto chiaramente Christine Lagarde, che ha sostituto Draghi alla Bce. A fronte della richiesta alla Bce, sottoscritta da un centinaio di noti economisti, affinché essa cancelli il debito pubblico degli Stati europei, raccolto mediante il quantitative easing – cosa non solo eticamente evangelica (“rimetti a noi in nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”) ma anche tecnicamente del tutto possibile perché solo la Banca centrale come crea moneta legale dal nulla così può distruggerla senza alcuna conseguenza per i suoi bilanci – la risposta è stata ferrea: la richiesta non può essere accolta ai sensi del Trattato di Maastricht, perché una cancellazione del debito pubblico equivale ad una operazione di monetizzazione degli Stati. Operazione vietata dalle – assurde – regole europee. Le stesse che ci hanno incastrato e portato all’attuale disastro.

Il rifiuto della Lagarde, verso ogni ipotesi di cancellazione dei debito pubblico acquistato dalla Bce, suona anche come un avvertimento al prossimo governo Draghi. E non crediamo che basterà la personale influenza di Draghi, e la sua credibilità accumulata presso la stessa Bce, per costringere il Board dell’Istituto di emissione dell’euro a mantenere un trattamento di riguardo verso l’Italia, che agli occhi degli europei del nord è pur sempre uno dei Paesi Piigs.

Insomma i rigoristi franco-teutonici, i fan dell’austerità monetaria e della deflazione, sono tornati a controllare la Bce, ora che Draghi non la presiede più ed ora che, fallita la rivolta populista un po’ ovunque, dalla Grecia di Tsipras all’Italia gialloverde di Salvini e Di Maio, dalla Francia dei Gilet Jaunes agli Stati Uniti di Trump, l’élite globalista e finanziaria si sente di nuovo in sella.

Questo significa che, quando terminerà il quantative easing della Bce e la monetizzazione del nostro bilancio statale tornerà a dipendere esclusivamente dai mercati finanziari al prezzo da loro imposto, il nostro governo, presieduto o meno da Draghi, si troverà senza alcun controllo sulla politica monetaria e quindi sulla propria politica fiscale. Con in aggiunta il carico dell’ulteriore indebitamento derivante dal Recovery Fund e, probabilmente, dal Mes.

Infatti, come certamente Draghi ben sa, per permettersi una politica di espansione del debito pubblico sono necessarie per qualunque Stato due indispensabili condizioni, delle quali, nell’attuale situazione di cessione della nostra sovranità monetaria e di accettazione del vincolo estero, l’Italia non gode. Ossia la garanzia, ai mercati, dell’illimitata monetizzazione da parte della Banca centrale del fabbisogno statale e, in secondo luogo, una moneta sovrana che consenta al governo di controllare il tasso di cambio allorché l’aumento della spesa pubblica produca squilibri nella bilancia dei pagamenti.

Semmai uno scenario, conseguente alla cessazione del quantitative easing nel bel mezzo di una politica di espansione del debito pubblico, come quello appena delineato dovesse concretizzarsi, per davvero, non ci resterebbe che rivolgere le nostre preghiere a Dio.

In quanto cristiano sono sicuro che questa si rivelerebbe la soluzione migliore. Ma intanto, nell’appena iniziato “anno dantesco”, sembrano risuonare con inquietante attualità i versi di Dante «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie ma bordello!» (Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI, vv 76-78).

Luigi Copertino