Quando la moneta “muore” bisogna trovare l’assassino

Risposta all’articolo di Andrea Cecchi

(Andrea Cavalleri)

L’articolo  pubblicato sul sito di Blondet, ispirato da un libro di Adam Fergusson, ripercorre gli eventi che contraddistinsero la celebre iperinflazione tedesca posteriore alla grande guerra.

L’excursus storico si dipana con dovizia di particolari e sottolineature emotive, che non hanno bisogno di commento, ma per quanto riguarda l’analisi delle cause il testo risulta estremamente scarno e, a mio parere, deficitario.

Lo studio definitivo, considerato la pietra miliare per la spiegazione del celebre fenomeno inflattivo, è il Bresciani-Turroni degli anni ‘20, ripreso e confermato un decennio fa da Ray Dalio, fondatore e gestore di Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo.

In questo libro si dimostra, che, contrariamente a quello che oggi si racconta:

  1. l’iperinflazione non fu causata dal governo che spendeva e spandeva in stile sudamericano, stampando moneta per finanziare il proprio deficit: la creazione di moneta fu una reazione di adattamento della Banca Centrale al crollo del marco tedesco sui mercati valutari;
  2. le banche tedesche e inspiegabilmente la stessa ReichsBank prestavano marchi a chi voleva speculare contro il marco e fu la speculazione al ribasso che lo distrusse;
  3. ovviamente c’era una ragione per attaccare il marco, la Germania aveva un debito di guerra del 300% del PIL a cui gli alleati avevano aggiunto un altro 600% del PIL di riparazioni di guerra ed era un debito che la Germania non poteva pagare in oro;
  4. il crollo continuo del marco sui mercati valutari, spinto da una valanga di prestiti in marchi delle banche tedesche a chi voleva speculare al ribasso, costringeva la ReichsBank a stampare per tenere dietro alla svalutazione del cambio.

Quindi l’iperinflazione di Weimar fu causata solo dal peso eccessivo del debito estero che era stato posto sulla Germania, un debito inizialmente prezzato in marchi-oro, (che era come avere un debito in Euro oggi per l’Italia), cioè in una moneta che lo stato non controllava essendoci il Gold Standard, nei marchi-oro.

Dall’analisi di Bresciani-Turroni emerge dunque un primo assassino della moneta: la speculazione.

La descrizione grottesca e ingiustificata che Fergusson fa di Hjalmar Schacht, ritraendolo come un nullafacente che stava chiuso in uno sgabuzzino a fumare oppure appeso al telefono a parlare di non-si-sa-ché, è troppo assurda per pensare che sia stata scritta in buona fede.

Sembra molto di più l’invettiva del rappresentante dell’alta finanza della City londinese (cioè la quintessenza della speculazione), rivolta contro colui che seppe batterla infliggendole una sonora lezione.

Infatti il primo provvedimento che Schacht adottò quale governatore della banca centrale fu di vietare la vendita allo scoperto di marchi, e funzionò.

Ma un secondo indiziato di assassinio fa capolino da queste analisi: l’oro.

Infatti in epoca di gold-standard esisteva un vero e proprio cambio tra la cartamoneta e l’oro.

Con la differenza che mentre la carta si poteva stampare a piacere, l’oro si poteva solo trovare o, al più, acquistare.

Di fronte ad accresciute esigenze monetarie, non è detto che la massa aurea crescesse, e l’unico mezzo per evitare la paralisi dell’insolvenza restava la creazione di moneta cartacea che, aumentando in maniera sproporzionata rispetto all’oro, si deprezzava di conseguenza.

Lo scrive anche Fergusson: più banconote venivano stampate, più il valore diminuiva, questo significa, per una banale legge aritmetica, che il controvalore di queste banconote era fisso (la massa aurea).

Diversamente se il controvalore fosse stato direttamente quello della ricchezza reale, l’espansione monetaria avrebbe favorito la crescita economica, cosa che accadrà in modo spettacolare dopo il 1933, e il controvalore delle banconote, espresso in merci, sarebbe cresciuto di pari passo con la massa monetaria, cosa che appunto si verificò, inibendo l’inflazione.

La moneta aurea o basata sull’oro è una catena vincolante che priva le istituzioni della possibilità di attuare una politica monetaria (a meno di limare i sesterzi come fecero i Romani), mantiene le economie sotto una spada di Damocle deflattiva (perché sovente l’oro si rivela insufficiente per sostenere il fabbisogno di moneta generato dalla crescita economica e/o demografica) e infine è inutilmente dispendiosa in quanto il costo dell’oro è molto superiore a quello della carta o degli impulsi elettronici che svolgono -meglio- la stessa funzione monetaria.

Come la grande maggioranza dei dilettanti, Cecchi cade nella retorica del valore, che è il migliore approccio per non capir niente di moneta.

La moneta non deve valere, deve funzionare, dove per funzionare significa circolare sostenendo la divisione del lavoro.

Del resto lo stesso Cecchi mette in evidenza che: durante una fuga per la salvezza, un posto su una barca o un sedile su un camion possono essere la cosa più vitale al mondo, più desiderabile di milioni incalcolabili. Nell’iperinflazione, un chilo di patate valeva, per alcuni, più dell’argenteria di famiglia; una fetta di maiale più di un pianoforte a coda.

Dunque non si vede perché l’oro non sarebbe soggetto alla stessa identica dinamica, annullando istantaneamente la retorica della moneta aurea che “ha valore intrinseco”.

Ferguson e lo stesso Cecchi partono dal preconcetto che gli squilibri monetari dipendano esclusivamente dal lato della domanda (dal denaro), quando in realtà l’equilibrio e lo squilibrio dipendono dal rapporto tra la massa monetaria e la quantità di merci acquistabili.

E le merci acquistabili sono di tre categorie:

  1. pezzi unici per cui ogni centesimo di aumento della domanda si traduce in un centesimo di aumento di prezzo;
  2. merci di media disponibilità (come le case) per cui solo una parte dell’aumento della domanda si traduce in un aumento di prezzo, perché se ne possono costruire di nuove e perché di fronte a prezzi eccessivi il candidato acquirente può cambiare zona o tipologia d’acquisto o può rinunciare o procrastinare;
  3. merci di largo consumo, per cui l’aumento della domanda si traduce in un aumento della produzione e non di rado, per le leggi dell’economia di scala, in un calo dei prezzi.

Ora, dal punto di vista economico, il prezzo della Gioconda o della fontana di Trevi non interessano a nessuno, i prezzi delle case interessano abbastanza, ma quelli che sono fondamentali per la sussistenza sono i beni di consumo.

E da cosa dipende la disponibilità dei beni di consumo?

Da un apparato di produzione e distribuzione solido e affidabile, che è il vero oro dell’economia, non quel freddo metallo che è meglio usare per i lavori odontoiatrici.

Infine, se proprio vogliamo paventare le ragioni di un rischio di iperinflazione al giorno d’oggi, ne cito due: la prima è descritta nel mio articolo del 2020 pubblicato sullo stesso sito di Blondet

https://www.maurizioblondet.it/scenari-imminenti-liperinflazione-e-lesercito/ la seconda la troviamo nella road map del grande reset, trapelata grazie a un deputato canadese.

Infatti, dopo la guerra alla Russia e la pandemia si parlava di “interruzione programmata della catena di approvvigionamento”, ovvero di uno shock sul lato dell’offerta di fronte a cui non esiste rimedio finanziario.

Queste follie non nascono da problemi tecnici finanziari o economici, nascono da una pessima visione del mondo.

Per sviluppare il benessere, ciò di cui abbiamo bisogno non è la reintroduzione della moneta aurea, ma la reintroduzione nel pensiero politico economico dei concetti di bene comune, etica del lavoro e comunità di de