Mattarella secundum Orwell

Forwarded from Samurai dell’Ovest

Mattarella oggi ha parlato di identità e orgoglio nazionale.
Non l’ha mai fatto in un discorso di fine anno, anzi, ha sempre detto che non bisogna essere identitari, perché equivale a chiudersi in sé stessi, che il futuro è la globalizzazione ecc ecc.
Oggi ha invertito la rotta, perché c’è un regime totalitario da difendere.
E il nazionalismo è sempre stato il pilastro di ogni regime totalitario.

George Orwell scriveva questo: “la peculiarità dello Stato totalitario è che controlla il pensiero senza però fissarlo. Stabilisce dogmi indiscutibili ma li cambia quotidianamente. I dogmi gli servono perché ha bisogno di un’obbedienza assoluta da parte dei sudditi, ma non può evitare i cambiamenti, che sono un requisito indispensabile nella politica del pugno di ferro”.

Ecco perché, fino a ieri, la narrazione dominante era quella degli italiani imbroglioni, mafiosi, evasori e irresponsabili.
Oggi invece, gli stessi politici, giornalisti e influencers che vi dicevano queste cose, vi dicono che siamo un grande popolo, un esempio per il mondo intero.

Ormai la popolazione si suddivide in due categorie: quelli che hanno capito che siamo in un regime totalitario e quelli che fingono di non capirlo.

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A proposito della gioventù italiana su cui Mattare si è chinato amorevole, e il governo Draghi ha fatto peggio che niente, nella Finanziaria “senza visione” – né nell’azione generale di governo. Un problema sociale immane, censurato dai media mainstream (che usano la “pandemia” come arma di distrazione di massa dai temi reali, miseria, disoccupazione di massa, precarietà sociale) lasciato marcire deliberatamente: ormai ci sono 35enni che “né studiano né lavorano”, un esercito di italioti senza competenze che non avrà altra risorsa che dipendere dal reddito universale di base progettato dal Fondo Monetario Internazionale. Non avrà l’autonomia e meno ancora la dignità personale per opporsi alla dittatura più feroce della storia.

GIOVANI CHE NON STUDIANO E NON LAVORANO

sulla condizione dei Neet in Italia (Neither in Employment nor in Education or Training, ovvero i giovani che non studiano e non lavorano, per scelta o impossibilità) ci arriva dal rapporto StartNet – Network transizione scuola-lavoro “I Neet in Italia. Dati, esperienze, indicazioni per efficaci politiche di attivazione”, curato dal professor Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano.

Per comprendere l’impatto della questione Neet si può partire da un dato: il costo sociale, stimato dall’Eurofound (2012), è pari all’1,2% del Pil europeo e raggiunge il 2% in Italia. Significa che lasciare milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni in un limbo senza formazione né occupazione costa denaro, risorse e competitività. Non a caso questo tasso, come riporta lo studio di StarNet, è “considerato la misura principale di quanto una comunità dilapida il potenziale delle nuove generazioni”.

In Italia i Neet sono oltre 2 milioni e i numeri, in confronto alla media Ue, sono preoccupanti: prima della crisi del 2008 nel nostro Paese rappresentavano il 18,8% del totale dei giovani contro il 13,2 dell’Unione, dati peggiorati fino al picco del 2014 quanto in Italia raggiunsero il 26,2% contro il 15,4 europeo, per poi arrivare a un comunque rilevante 23,4% nel 2018 (contro il 12,9 di media Ue). Tradotto: circa un giovane su quattro non lavora né studia.

E l’emergenza, come spiega il professor Rosina, è destinata ad ampliarsi dopo la crisi provocata dal coronavirus, i cui effetti per ovvi motivi non possono ancora essere rilevati a pieno. “L’Italia presenta oggi un record di Neet non solo tra i più giovani ma anche nella fascia dei 30-34enni. Questi trentenni, dopo aver subito le conseguenze della precedente recessione, si trovano ora a far fronte all’impatto della pandemia. Il rischio è quindi quello di pesanti ricadute non solo sui percorsi professionali ma anche sui progetti di vita in generale”.

Le prime ricerche sembrano dimostrarlo: “I dati di una indagine internazionale condotta dall’Istituto Toniolo proprio all’apice del lockdown (tra fine marzo e inizio aprile) mostrano che gli under 35 italiani sono i più preoccupati in Europa delle conseguenze della pandemia sul proprio lavoro e sul Paese in generale. In particolare, tra i Neet intervistati oltre il 40% ha affermato di aver posticipato a dopo il lockdown la ricerca di lavoro e circa un terzo di averla abbandonata”.

Non basta però parlare genericamente di Neet. Dentro questa definizione, rientra infatti sia il neolaureato con alte potenzialità e motivazioni che passa del tempo a cercare un lavoro in linea con le proprie ambizioni e con il percorso di studi, sia il giovane uscito precocemente dagli studi e dunque con basso “capitale sociale”. Non solo: come rileva il report, “una componente rilevante dei Neet è rappresentata da madri non occupate”. Un problema non certo trascurabile in un Paese sempre più vecchio dove si fanno sempre meno figli. Se le madri sono costrette a rinunciare al lavoro per i figli è perché non hanno adeguata assistenza (asili nido, sussidi, eccetera) o non sono tutelate sul posto di lavoro (in pochi hanno il lusso di un contratto che preveda un periodo di maternità, per esempio).

“Su questo aspetto – spiega il professor Rosina – si uniscono le preoccupazioni per la sfavorevole condizione dei giovani, per la bassa valorizzazione del capitale umano femminile, per la persistente denatalità. Politiche attive del lavoro e misure di conciliazione tra lavoro e impegni familiari fanno parte di un welfare che va considerato investimento sociale per la capacità che ha di abilitare e promuovere le energie e le intelligenze di tutti, sanando al contempo squilibri generazionali, di genere e territoriali. Il Family act è un pacchetto integrato che va nella giusta direzione ed è quantomeno un segnale positivo che sia passato alla Camera con un consenso unanime”.

Per capire meglio la variegata categoria dei Neet, il report propone quattro distinzioni: 1) le persone in cerca di occupazione, che sono poco più del 40% dei Neet; 2) gli indisponibili alla vita attiva per motivi vari, che corrispondono al 20%; 3) persone non alla ricerca attiva di lavoro, ma in attesa di opportunità, ovvero persone che aspettano che si verifichino certe condizioni per poter iniziare un’attività, ed è circa un altro 20%; e infine gli scoraggiati, i disimpegnati, un 15% circa che non cerca lavoro e ha una visione pessimistica delle condizioni occupazionali.

Ma perché in Italia la situazione è peggiore rispetto alla media europea? Il report di StartNet offre plausibili spiegazioni. A partire dal fatto che “molti giovani si trovano, all’uscita dal sistema formativo, carenti di adeguate competenze e sprovvisti di esperienze richieste dalle aziende”.

Molti altri, “pur avendo elevata formazione e alte potenzialità, non trovano posizioni all’altezza delle loro capacità e aspettative”, dovendo quindi accettare col tempo adattamenti al ribasso per uscire dalla condizione di Neet. C’è poi un altro elemento: “l’inefficienza degli strumenti utili per orientare e supportare i giovani nella ricerca di lavoro, in particolare di matching tra domanda e offerta”. Di questo e delle misure adottate negli ultimi anni il report si occupa nello specifico. Prima però c’è un’altra considerazione utile ad inquadrare il fenomeno e fa riferimento a un “modello culturale” italiano “che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori”. In altre parole, si resta di più a casa con i genitori e si accetta qualche mese (o anno) in più senza lavoro né studio perché è più alta l’età media in cui si esce di casa rispetto a molti altri Paesi Ue.

Tutto questo provoca gravi conseguenze economiche e sociali, come spiega bene il report: “A livello collettivo, un’adeguata consistenza della popolazione giovane-adulta, consente a un Paese di crescere e di ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil, ma anche di mantenere la sostenibilità del sistema di welfare in una popolazione che invecchia. A livello individuale, una buona formazione e l’inserimento nei tempi e modi adeguati nel mondo del lavoro consentono un futuro previdenziale, di salute e benessere personale più solido”.

Il tentativo più importante per contrastare la crescita dei Neet è il Piano Garanzia Giovani. Il progetto prende spunto dalla Raccomandazione del Consiglio della UE n.120/01 (22 aprile 2013) e arriva in Italia nel 2014, quando prende avvio per un primo ciclo dalla durata di quattro anni contando su un investimento iniziale di 1,5 miliardi di euro.

Il percorso di Garanzia Giovani prevede l’iscrizione del giovane attraverso un portale online dedicato, prima della presa in carico delle Regioni e delle strutture per l’impiego. Qui avviene la profilazione di ciascun ragazzo con l’obiettivo di individuare il percorso più adatto alle caratteristiche formative e professionali. Dopodiché, viene concordato un “patto di servizio”, un piano per cercare di condurre il beneficiario fuori dalla condizione di Neet per esempio attraverso “il rafforzamento di competenze e conoscenze orientate all’inserimento lavorativo”, o la promozione di attività come il tirocinio o il servizio civile. Garanzia Giovani offre anche aiuti all’autoimpiego, sia con formazione e assistenza per lo sviluppo di progetti imprenditoriali sia con incentivi per la creazione di impresa. Per favorire l’ingresso dei giovani in azienda, invece, il programma prevede anche incentivi a chi offre contratti di almeno sei mesi ai Neet.

Si può dire che il Piano abbia funzionato? Secondo il report, i risultati sono in parte positivi ma non ancora sufficienti. Basta vedere i numeri: “Quando è stato attivato Garanzia Giovani, i Neet in Italia erano circa 2,4 milioni. A quattro anni di distanza, la durata della prima fase, risultavano essere ancora sopra i 2 milioni (il valore assoluto più alto in Europa). Va quindi riconosciuto che all’avvio del Piano ha corrisposto una interruzione della crescita del fenomeno e una sua riduzione. D’altro canto però tale riduzione è in buona parte dovuta anche all’uscita dalla fase più acuta della crisi economica e alla ripresa in generale dell’occupazione”.

Al 30 settembre 2018 (abbondantemente dopo i 4 anni dall’avvio) risultavano presi in carico oltre un milione di giovani (77,8% da parte dei Centri per l’Impiego e il 21,2% da parte delle Agenzie per il Lavoro): sono 288 mila coloro che si trovano in condizione di occupati. Si tratta di meno del 30% dei presi in carico. Il tasso di inserimento dei giovani presi in carico arriva al 52,5% alla distanza di sei mesi dalla conclusione dell’intervento.

Tra gli elementi che non hanno funzionato, StartNet individua tra l’altro la debolezza delle strutture per il lavoro: “Garanzia Giovani ha scontato la debolezza di partenza delle politiche attive cha a loro volta hanno come pilastro i centri per l’impiego, deboli in Italia e con forte eterogeneità regionale”.

Adesso il progetto si è allargato in una seconda fase che coprirà almeno il 2020 e che può contare su 1,2 miliardi di risorse aggiuntive. Non tutto è da buttare e quanto fatto, con le giuste accortezze, può essere un buon punto di partenza. Secondo StartNet, ci sono alcune raccomandazioni da tenere presenti. Innanzitutto, l’obiettivo della politica dovrebbe essere quello di prevenire il flusso dei giovani verso i Neet: “È importante la collaborazione tra scuole e centri per l’impiego, oltre che altre istituzioni che operano sul territorio”. Le attività proposte devono poi fare i conti con una realtà che spesso sfugge alle statistiche: “In alcune aree è fondamentale offrire una proposta di ingaggio che sia più appetibile rispetto al lavoro sommerso”. Importante sarebbe poi coinvolgere chi dalla condizione di Neet è uscito, la cui storia può essere d’esempio e di ispirazione, oltreché di feedback, per chi inizia un percorso simile. Senza dimenticare la necessità, oltreché di rafforzare i centri per l’impiego, anche di adattarli al meglio alle caratteristiche e esigenze non solo di ogni richiedente, ma pure della zona di residenza.

A proposito di questo, va citata un’altra misura centrale adottata dal governo per contrastare la disoccupazione anche tra i giovani e che fa perno proprio sui centri per l’impiego. Si tratta del reddito di cittadinanza, che il professore Rosina però promuove solo a metà nel suo impatto sui Neet: “Il Reddito di cittadinanza aiuta poco, può essere anzi controproducente, se inteso solo come misura passiva di assistenza a chi non ha un lavoro. Riduce la condizione di Neet solo se incentiva la possibilità dei giovani di diventare autonomi dalla famiglia di origine e li sostiene nella fase di ricerca del lavoro. Questa funzione, che combina sostegno al reddito e politiche attive, attualmente risulta ancora molta carente nel sistema italiano”.

https://www.morningfuture.com/it/article/2020/09/18/emergenza-neet-italia/1003/ dell’11