La fabbrica della candidata sintetica. Spiegata bene.

Piace a Soros. E con quel sentore di Cia in famiglia, non può essere che la candidata vincente

Assistevo ammutolito alla madornale ascesa e al “successo” di Elly Schlein, così adulata dai media, palesemente imposta “dall’alto” e così Deep State – e nello stesso tempo osì banale e prevedibile e- e che potesse essere votata da qualcuno, anche dal più ingenuo piddino. Sono così manipolabili?

Scopro che Giuseppe Russo ne aveva già magistralmente ricostruito le ascendenze dal 2002. Leggere con attenzione fa capire gli scopi per cui il Deep State ha scelto lei per il PD.

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Il Clima, ecco le llotte della sinistra

Elly Schlein: la nuova eroina della postpolitica

15 Novembre 2022 – Giuseppe Russo

Avanti.it

L’album di aspiranti leader del PD si aggiorna con una nuova figurina, quella di Elena Ethel Schlein detta “Elly”. Della sua partecipazione alla kermesse piddina che culminerà con l’elezione del successore di Enrico Letta si parla da mesi, ma è solo con un videomanifesto lanciato attraverso il suo profilo Instagram pochi giorni fa che Elly ha deciso di aderire al “percorso costituente” attraverso il quale il partito dovrebbe aprirsi a “quello che c’è fuori, nei movimenti che abbiamo visto animare le piazze in questi anni”. Schlein, infatti, pur essendo stata eletta deputata alle ultime elezioni nella lista Partito Democratico – Italia Democratica e Progressista, sarebbe una “indipendente” che ha vissuto la sua traiettoria politica un po’ dentro e un po’ fuori il perimetro del partitone. Già questo fatto dovrebbe far storcere il naso ai piddini residui: come si può diventare segretari senza neppure far parte del partito? Eppure, si faranno piacere anche questa. Importanti pezzi della nomenklatura del PD puntano su di lei come candidata da contrapporre a Bonaccini in quello che si prefigura come un “derby” nella corsa alla segreteria, essendo stata la Schlein, fino all’elezione alla Camera, vicepresidente della giunta emiliano-romagnola con deleghe al “contrasto alle diseguaglianze e alla transizione ecologica”. La sua biografia, più volte da lei stessa cesellata sul suo sito ufficiale, recita che è nata in Svizzera da padre ebreo ashkenazita e madre italiana, si è laureata in giurisprudenza a Bologna, ha partecipato da volontaria alle campagne elettorali di Obama nel 2008 e nel 2012, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2014 dopo essere stata in prima fila nel movimento “Occupy PD”, ha abbandonato la casa madre per seguire il mentore Pippo Civati nel suo effimero progetto denominato “Possibile”, è diventata consigliera regionale in Emilia-Romagna con il record di preferenze nel 2020 e, dopo essere stata invitata da Enrico Letta alle “agorà democratiche” dell’estate scorsa, si è ritrovata a capeggiare le liste per la Camera in un partito che non è il suo. Elly Schlein ha la tripla cittadinanza italiana, svizzera e statunitense, è bisessuale e “fieramente antifascista”. Tre i fari del suo impegno politico: l’integrazione europea, i diritti dei migranti e quelli delle persone LGBTQ+. Considerata la risposta “femminista” a Giorgia Meloni, le viene attribuito un grande carisma.

In realtà, il “prodotto” Elly Schlein viene da lontano, e la sua ascesa ai vertici della politica nazionale appare pianificata nei minimi dettagli, e non solo da lei stessa, che pure non difetta di arrivismo. Giunta a Bologna nel 2004, dopo un’infanzia trascorsa prevalentemente nella Svizzera italiana, Elly Schlein scopre la sua vocazione dopo aver traccheggiato un paio d’anni al DAMS ed aver vagheggiato una carriera da documentarista o critica cinematografica: iscrittasi a giurisprudenza, si fa eleggere nel consiglio di facoltà in rappresentanza degli studenti, iniziando a farsi strada nel sottobosco piddino e parapiddino bolognese. La partecipazione alla campagna obamiana le conferisce poi ulteriore visibilità: è estremamente probabile, inoltre, che in quei frangenti abbia conosciuto le persone “giuste” alle quali affidarsi per scalare, obamianamente, la politica italiana, come si dirà in seguito. Nel 2013, finalmente, una prima ondata di notorietà: protagonista di “Occupy PD”, il movimento giovanile che si era mobilitato per protestare contro la mancata elezione di Prodi alla presidenza della repubblica e contro il governo delle larghe intese di Enrico Letta (che oggi è il principale sponsor della nostra eroina), Elly Schlein viene “pompata” dalle redazione bolognese de la Repubblica come “portavoce” dei giovani piddini indignati sotto le Due Torri. Negli articoli usciti in quella feconda primavera, il pensiero schleiniano sulla “crisi del PD” veniva riportato prima di quello dei dirigenti locali e nazionali. In quei giorni si parlava di possibile uscita dei “prodiani” dal PD, ed è proprio all’ombra dell’ex premier che matura la promozione mediatica di Elly Schlein: intorno all’incontro fra lei e “il Professore” viene costruita una storia di quelle che tanto piacciono ai lettori. Dapprima, Elly invita Prodi all’assemblea di #OccupyPd per consegnargli la maglietta con 102 firme di attivisti solidali (riferimento ai 101 “franchi tiratori” che affossarono la sua elezione a capo dello stato); poi, vista la proverbiale timidezza del Professore, si reca lei stessa a casa sua (assieme ai cronisti de la Repubblica) per omaggiarlo della t-shirt firmata ed invitarlo a rinnovare la tessera del partito; infine, nel mese di ottobre, Prodi si reca a votare alle primarie in segno di “disgelo” verso il suo quasi ex partito, e ad attenderlo nel seggio di via Orfeo trova ancora una volta Elly Schlein (e i cronisti de la Repubblica). Dopo quelle consultazioni, Schlein entrò nella direzione nazionale del PD: ufficialmente in quota Civati (che era giunto terzo dietro Renzi e Cuperlo) e ufficiosamente in quota Prodi.

Il legame fra Romano Prodi e ed Elly Schlein è rappresentato dalla sede bolognese della Johns Hopkins University. Tale ateneo americano, specializzato nello studio delle “relazioni internazionali” e nella preparazione di alti funzionari per banche, multinazionali, agenzie massmediatiche e centri di ricerca pubblici e privati, possiede nel capoluogo emiliano la sua unica sede europea. Fondata negli anni ’50 da un pugno di pionieri, quella che ufficialmente si chiama SAIS Europe (per esteso Paul H. Nitze School of Advanced Internacional Studies), si trasferì nel decennio successivo nell’edificio di nuova costruzione di via Belmeloro, a ridosso della zona universitaria e appena dentro il centro storico. La Johns Hopkins scelse di aprire il suo primo “occhio sul mondo” (la seconda succursale estera, in Cina, prenderà forma solo nel 1986) proprio a Bologna poiché considerata la “capitale” del comunismo italiano, la città in cui l’amministrazione dei sindaci comunisti “coesisteva” con la direzione capitalista e filoamericana della Repubblica Italiana. Non è infatti casuale che un saggio di Robert H. Evans, che fu direttore della SAIS Europe fino al 1972, si intitoli proprio Coexistence: communism and its practice in Bologna, 1945-1965.

Il papà Melvin

Gli americani, insomma, avevano aperto bottega in quel di Bologna per studiare da vicino i comunisti italiani nel quadro della Guerra Fredda: la Johns Hopkins di Washington fu uno dei laboratori nei quali si progettò la svolta antisovietica maturata negli anni ’40 e ’50, durante il mandato presidenziale di Harry Truman. Fra i suoi docenti, si annoverano pezzi da novanta della politica americana come Zbigniew Brzezinski e Paul Wolfowitz.

Oltre che da centro studi, è lecito supporre che la sede bolognese funzionasse anche come articolazione delle agenzie di intelligence, con il preciso fine di insinuarsi nel mondo accademico e di conquistare alla causa dell’anticomunismo qualche giovane ambizioso e promettente. In questo senso, prende forma nel corso degli anni una convergenza con il gruppo di intellettuali laici e cattolici raccolti intorno alla casa editrice Il Mulino, di cui Prodi sarà direttore dal 1974 al 1978. Diversi esponenti di quella che poi diventerà la “galassia prodiana” prendono a gravitare intorno alla Johns Hopkins, prestandovi servizio in qualità di docenti: fra questi, si ricordano il già vicedirettore dell’ateneo Stefano Zamagni ed il politologo ed ex senatore eletto da “indipendente” prima col PCI e poi col PDS Gianfranco Pasquino. Lo stesso Prodi, che ha a sua volta occasionalmente insegnato alla Johns Hopkins, figura ancora oggi nel SAIS Europe Advisory Council, il comitato direttivo, in qualità di “membro onorario”; per rendere l’idea, il Professore scelse proprio gli edifici di via Belmeloro per un confronto pubblico con Matteo Renzi, nel 2017.

Negli stessi anni in cui Prodi, dopo aver mosso i primi passi come assistente universitario a Bologna all’ombra di Beniamino Andreatta, vede la sua carriera accademica decollare, venendo anche invitato come visiting professor dal prestigioso ateneo americano di Harward, vicedirettore della School of Advanced International Studies, una “facoltà” della Johns Hopkins bolognese, è Melvin Schlein, il padre di Elly, che ricoprirà tale incarico dal 1969 al 1973. A rivendicarlo è proprio Elly Schlein, la quale ci informa anche che suo padre in precedenza aveva “continuato i suoi studi”, dopo essere nato e cresciuto negli USA, in Austria e in Germania prima di approdare in Italia, dove ad un “convegno sul federalismo” conobbe la sua futura sposa e madre della nostra eroina, la docente universitaria di diritto Maria Paola Viviani, a sua volta figlia dell’avvocato ed ex senatore socialista Agostino. Successivamente, “cogliendo un’opportunità di lavoro”, i due si trasferirono nella Svizzera italiana, dove Melvin Schlein prese ad insegnare in un altro ateneo privato americano, la Franklin University di Lugano. Romano Prodi e Melvin Schlein, fra l’altro, sono entrambi del ’39: negli anni cui l’appena trentenne politologo Schlein (dopo aver “continuato i suoi studi” in Austria e Germania) è vicedirettore alla School of Advanced International Studies di Bologna, Prodi si fa strada, oltre che nei dipartimenti universitari, anche all’interno de Il Mulino, come sopra riportato, di cui diventa direttore subito dopo il ritorno da Harward.

Alle europee del 2014, quelle del “boom” del PD di Renzi, Elly Schlein viene candidata nella circoscrizione dell’Italia nord-orientale, comprendente la “sua” Emilia-Romagna e le regioni del Triveneto. Sull’onda delle campagne social Slow Foot e #siscriveschlein, viene eletta all’Europarlamento con oltre 50000 preferenze, sesta nella lista del PD, beneficiando soprattutto del traino offerto dal candidato prodiano “doc” Paolo De Castro, che di voti personali ne prende oltre 80000, e sopravanzando, fra gli altri, l’europarlamentare uscente ed ex segretario dei DS bolognesi Salvatore Caronna. Qualche mese dopo la sua elezione, la Schleyn lascia il PD assieme a Pippo Civati per fondare “Possibile”, movimento così battezzato per fare il verso un po’ all’obamiano Yes, We can e un po’ allo spagnolo Podemos: sarà un fiasco totale che a Civati chiuderà la carriera, ma ad Elly no. Da europarlamentare, infatti, l’eroina elvetico-bolognese lavora sodo nelle commissioni in cui si trova ad operare, vincendo pure il premio “MEP Awards” nel 2017 in qualità di “Deputato dell’anno sui temi dello Sviluppo”, come lei stessa ha la premura di ricordarci attraverso la già menzionata biografia ufficiale. Con l’approssimarsi delle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo, tenutesi poi nel 2019, Elly Schlein, mollato al suo destino sfigato l’ex partner Pippo Civati, temporeggia: nel PD non può rientrare, nonostante gli inviti di Zingaretti (e inoltre corre il rischio di non essere eletta, visto che il partito va incontro ad un tracollo), le liste che vanno formandosi alla sua sinistra sono perdenti per definizione, alla fin fine il ruolo di parlamentare europea paga pochissimo in termini di visibilità. Così, la Schlein decide di stare ferma un giro e preparare il suo rientro nella politica nazionale, sfruttando allo scopo le elezioni regionali del 2020 in Emilia-Romagna, consultazioni che furono al centro della ribalta massmediatica a causa del “rischio” che avrebbe corso il presidente uscente Bonaccini di perdere il controllo della regione “rossa” per eccellenza a beneficio della leghista Lucia Borgonzoni. Per l’occasione, si fanno le cose in grande: per arrestare la corsa dei barbari di Salvini prende corpo l’operazione “sardine”, che scaturisce proprio da quella galassia “prodiana” in seno alla quale è venuta su Elly Schlein, la quale ha avuto modo di dichiarare al riguardo che “Le Sardine ci regalano un’altra meravigliosa piazza partecipatissima, trasversale, intergenerazionale,per farci sperare che l’Emilia-Romagna continui a fare della sua capacità di inclusione la sua forza.” Sulle copertine ci va Mattia Santori, ma nelle urne è Elly Schlein a beneficiare del “sardinismo”: la sua lista, “Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista e Progressista”, collocata “a sinistra del PD” ma non troppo, dà il suo contributo al successo di Bonaccini con circa 80000 voti, pari a poco meno del 4%, e lei entra in consiglio cumulando 22000 preferenze fra le circoscrizioni di Bologna, Reggio Emilia e Ferrara. A dare l’ultima spintarella, ad una settimana dal voto, era stato un video in cui Elly Schlein “inchiodava” Salvini alle sue responsabilità per non aver presenziato alle riunioni dell’Europarlamento sui “negoziati di Dublino” a proposito di immigrazione e diritto di asilo: fu il secondo colpaccio mediatico nella carriera schleineana dopo la foto della maglietta regalata a Prodi. A distanza di qualche settimana, dopo essere stata nominata vicepresidente della giunta Bonaccini, mentre andava spegnendosi l’eco sulle elezioni emiliano-romagnole, un altro colpaccio: partecipando alla trasmissione L’Assalto su La7, Elly fa outing davanti alla conduttrice Daria Bignardi, dichiarando “Ho amato molti uomini, ho amato molte donne, in questo momento sto con una ragazza e sono felice…finché mi sopporta”. Nella cornice del siparietto, la Bignardi avrebbe formulato “a tradimento” la domanda sullo status sentimentale di Elly Schlein, la quale si mostra in realtà tutt’altro che sorpresa o imbarazzata: stavano entrambe recitando (piuttosto male) le parti loro assegnate.

A scrivere la sceneggiatura dell’outing schleiniano era stata, con ogni probabilità, l’agenzia di comunicazione politica Social Changes, per la quale lavorava all’epoca, in qualità di political expert, Ludovico Manzoni, poco più che ventenne figlio di Daria Bignardi e del suo primo marito, Nicola Manzoni. Il political expert, che oggi non figura più nell’organigramma di Social Changes, era allora pure consigliere piddino del Municipio 1 di Milano (il più “fighetto” del capoluogo meneghino), benedetto da Beppe Severgnini come “piccolo Demostene“. La notizia emerge a partire dall’ottobre del 2020, quando Il Foglio dà conto del coinvolgimento dell’agenzia nelle regionali toscane dello stesso anno. In quella circostanza, a beneficiare dell’appoggio di Social Changes erano state almeno tre candidate, Alessandra Nardini, Barbara Cagnacci e Federica Benifei, fra le quali solo la prima era stata eletta. Gli sforzi si erano però concentrati soprattutto sull’ultima che, essendo un’ostetrica e non una funzionaria di partito, rientrava nel profilo prediletto dagli americani, che sono esplicitamente alla ricerca di “candidati che assomiglino alla gente“. Piazzata ad occupare il primo posto nella lista piddina della circoscrizione di Livorno per “ordini nazionali” a danno dei ras locali Gianni Anselmi e Francesco Gazzetti, poi comunque eletti, Federica Benifei ebbe un “aiutino americano” rientrante, a suo dire, in un più ampio “progetto nazionale” attraverso il quale la Social Changes sta provando a condizionare, con il benestare dei vertici, le vicende del Partito Democratico. Ad oggi, è acclarato il coinvolgimento di Social Changes, oltre che nelle regionali toscane, nelle europee del 2019, quando la società promosse le sorti del poi eletto Brando Benifei e della non eletta Caterina Cerroni, divenuta in seguito segretaria dei Giovani Democratici, e nelle già citate regionali emiliano-romagnole del 2020, quando, oltre ad Elly Schlein, fu lo stesso Bonaccini a vedersi offrire “pro bono” i servigi dell’agenzia. Plausibile, a questo punto, ipotizzare che le campagne Slow Foot e #siscriveschlein, che condussero la nostra eroina all’Europarlamento nel 2014, fossero state concepite nello stesso laboratorio.

La Social Changes è guidata da Arun Chaudhary, noto per essere stato il filmmaker ufficiale della campagna elettorale di Obama nel 2008 e per avere in seguito offerto il suo supporto a Bernie Sanders. Per descriverne l’attività, è il caso di affidarsi alle loro stesse parole: “Social Changes, Inc. è una società che opera a livello internazionale per trasformare il modo in cui i progressisti affrontano le campagne elettorali”. Essa è formata da “attivisti internazionali (e internazionalisti) con esperienza nell’analisi dei dati ma anche nello storytelling, nel graphic design, nel giornalismo, nella produzione di contenuti multimediali . Senza dimenticare il crowdfunding, il copywriting, la formazione, i diritti umani, il targeting pubblicitario e la satira politica”. Sono alla ricerca di ” leader straordinari, che abbiano già dimostrato di sapersi impegnare per risolvere i problemi delle persone”, da scegliere preferibilmente fra “giovani, donne e attivisti della società civile la cui leadership, troppo spesso, non viene riconosciuta e supportata”. A loro piacciono “le sfide impossibili” e ci tengono a evidenziare che, qualora il giovane leader straordinario fosse proprio straordinario straordinario, non starebbero lì a perdersi per due spiccioli: “quando troviamo una persona o una causa per cui vale la pena combattere, la nostra prima domanda non riguarda i soldi a disposizione”.

L’affaire Social Changes fu oggetto di un’interrogazione parlamentare di Giovanni Donzelli di Fratelli d’Italia, a pochi giorni dalle prime “rivelazioni” de Il Foglio, e nello stesso periodo si occuparono della vicenda anche il Fatto Quotidiano ed il Giornale, soffermandosi principalmente sull’opacità dell’operazione, visto che a tutt’oggi non è dato sapere chi finanzi l’agenzia, che viene solo descritta come “molto vicina ai democratici americani”. Pare tuttavia che sia di pubblico dominio il criterio in base al quale gli attivisti internazionalisti di Social Changes abbiano scelto i “leader straordinari”: a detta di Marco Furfaro, che si occupava della comunicazione piddina quando segretario era Zingaretti, “sceglievano loro i candidati più giovani e briosi”. Sempre secondo Furfaro, “le relazioni erano già avviate quando Zingaretti divenne segretario”, cioè nel marzo 2019.

La più straordinaria di tutti i leader è senz’altro Elly Schlein, altro che Barbara Cagnacci. Talmente straordinaria che Social Changes riservò solo a lei il suo supporto in Emilia-Romagna, trascurando gli altri candidati della lista “Coraggiosa Ecologista e Progressita”, come ha avuto modo di precisare Igor Taruffi, che della formazione è stato il secondo consigliere eletto. Pur avendo fatto qualche cazzata in gioventù (il DAMS, la cotta per Civati…), Elly è sempre stata dalla Parte Giusta della Storia. Il suo nome figura all’interno del celebre elenco di europarlamentari italiani considerati “idonei” e “affidabili” dalla Open Foundation di George Soros (sarebbe, in effetti, stato strano il contrario). È stata una paladina del covidismo, seppur non fra le più sguaiate: in un suo intervento pubblicato da La Stampa, altro giornale amico della causa schleiniana, (“Il dovere civile di vaccinarsi” l’eloquente titolo) ha avuto modo di schierarsi contro la “minoranza rumorosa no vax”. Prima e dopo le ultime elezioni politiche, si è finalmente accorta di lei pure la stampa “progressista” internazionale, con accorati panegirici vergati dalle migliori penne del Guardian e di El Pais. Elly Schlein ha sempre vinto: quando le sue possibilità di elezione erano ridotte, si è prudentemente ritirata dalla corsa, ben sapendo che il suo momento sarebbe venuto di lì a poco.

Elly Schlein è un fenomeno concepito e messo a punto in laboratorio, un ologramma con il nulla intorno, un “esperimento” alle spalle del popolo bue e cornuto, e tutte le sue “campagne” sono pura sceneggiatura, un’americanata postmoderna che può fare presa solo su un’opinione pubblica assuefatta alle fregnacce. Volendo esser maliziosi, e guardando alla sua ascendenza paterna, l’ascesa di questa eroina della postpolitica viene da ancor più lontano. La figlia di un americano che era venuto in Italia per “studiare” e tenere a bada i comunisti potrebbe diventare la segretaria del partito che di quei comunisti è, più a torto che a ragione, il successore. Sarebbe la degna conclusione della parabola della “sinistra” italiana degli ultimi trent’anni.

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Con la demolizione controllata di Aboubakar Soumahoro, il suo principale rivale mediatico più che politico, la strada di Elly pare spianata. Quando l’ex paladino degli ultimi si presentò alla Camera con gli stivali inzaccherati esibendosi in un teatrale pugno chiuso (sono quelle le cose che mandano in brodo di giuggiole il piddino medio), una preoccupatissima Elly Schlein ebbe modo di esclamare, come riportato da il Giornale, “Fra sei mesi ce lo ritroviamo segretario”. Il rischio è stato scongiurato, e nel frattempo la Schlein non ha sprecato un solo tweet per solidarizzare con l’uomo che aveva definito nel giugno 2019 “grande testa, grande cuore…una persona vera”.