Il Canto di Natale – nel trionfo di Scrooge

                                                     Di Roberto Pecchioli

Il Canto di Natale, indimenticabile racconto di Charles Dickens, è un classico della letteratura sempre verde, un’esortazione a cambiare modello di vita, una dura critica al capitalismo, un gioiello di scrittura e senso morale e tanto altro ancora. Temiamo purtroppo che sia ormai ridotto a una fiaba, una di quelle a cui i bambini ipertecnologici e perennemente connessi non credono più, di cui ridacchiare dandosi di gomito. Forse gli ultimi a crederci e a commuoversi sono i vecchi, nel ricordo di natali antichi, sepolti dalla polvere del tempo.  Il nostro è il tempo del trionfo di Scrooge, l’avaro affarista del racconto, e non vi è traccia di pentimento nel mondo del denaro, degli indici di borsa, tra algoritmi e sfruttamento. Eppure, in questi giorni convulsi in cui le strade piene di effimere luci sono percorse dall’ansia degli acquisti con in mano la carta di credito, è bello tornare a quel Canto di Natale. Charles Dickens, il grande romanziere inglese, lo pubblicò pochi giorni prima del Natale del 1843, una data non accidentale, come non fu casuale la scelta dei personaggi e la storia narrata.

Il protagonista è Ebenezer Scrooge, probabilmente il personaggio dickensiano più conosciuto, più di Oliver Twist e dello stesso David Copperfield. Un vecchio affarista taccagno, avido di denaro e arido di cuore, una maschera universale che ha perduto, nel secolo nostro, la connotazione negativa per diventare, paradossalmente, un idealtipo di successo. Il cervello dell’uomo occidentale, senza lo stimolo della ricchezza, si è bloccato, ostaggio di un Super Io paranoico, volto al denaro e al potere. Come per altri personaggi letterari del genere, Shylock, Arpagone, Euclione dell’Aulularia di Plauto, Zio Paperone (Uncle Scrooge nei paesi anglosassoni) e il signor Burns dei Simpson nei fumetti, il tempo di Scrooge è denaro. Del resto così prescriveva in tutta serietà un modello di virtù puritana e commerciale come Benjamin Franklin.

Per lui il Natale è un fastidioso intervallo nel quale non si lavora e non si può guadagnare, inoltre spetta la giornata libera ai dipendenti. Feste, regali e auguri non sono che sciocchezze, lo ripete al nipote mentre il suo scrivano, il povero Bob Cratchit, lavora al freddo per una paga miserrima.  Ma la vigilia di Natale accade qualcosa: Scrooge riceve la visita dello spirito del suo vecchio socio, Jacob Marley, morto quella stessa notte sette anni prima. Un altro avaraccio solitario, che gli si presenta trascinando una catena legata all’altezza della cintola, avvolta attorno al corpo, fatta di salvadanai, chiavi, lucchetti, libri mastri, atti notarili e pesanti portafogli d’acciaio. Marley, come i dannati di Dante, è condannato alla pena del contrappasso, deve vagare per l’eternità trascinando la catena. Tremante, Scrooge ne chiede il motivo. “Trascino la catena che ho forgiato quando ero in vita”, risponde il fantasma. “Io stesso l’ho costruita, anello dopo anello, pezzo dopo pezzo. Io stesso l’ho cinta di mia spontanea volontà e ora la indosso come frutto delle mie scelte.”

Non vuoi conoscere, prosegue, il peso e la lunghezza della catena che tu stesso ti porti appresso? “Era già lunga e pesante come questa la vigilia di Natale, sette anni fa. E’ una catena gravosissima.” Il suo gretto individualismo, l’uso del tempo esclusivamente per fare denaro porteranno Scrooge al medesimo inferno. Una incessante tortura del rimorso, la chiama Morley. “No rest, no peace. Incessant torture of remorse.” In inglese, la parola rimorso allude a una pena interiore, ma significa anche compassione, la capacità di sperimentare e capire la sofferenza altrui a partire dalla propria. Ed è questo l’autentico sottofondo del Canto di Natale: non la colpa, neppure il timore della morte, ma il duro itinerario verso la comprensione del dolore degli altri.

In questa chiave, ci pare di scorgerne l’irrilevanza, o almeno la lontananza, per il lettore odierno. La nostra è l’epoca della sconfitta della coscienza infelice, che non riesce ad attingere il giusto, il trascendente, l’immutabile. L’uomo di oggi è talmente chiuso in se stesso, teso al conseguimento di obiettivi materiali e prigioniero del desiderio di appagamento immediato che guarda ma non vede l’essenziale, tanto meno si protende verso l’Altro. Lontano da qualsiasi redenzione, lo Scrooge contemporaneo deriderebbe il fantasma del defunto socio e chiuderebbe la porta alla visita dei tre spiriti da lui annunciati, lo Spirito del Natale passato, del Natale presente e di quello futuro. In termini psicanalitici, il fantasma di Morley è il rimosso della personalità del vecchio usuraio, il meccanismo di difesa che lo ha reso ciò che è, un egoista, solitario, indifferente a tutto fuorché al guadagno.

Affiorano alla mente i grandi dipinti fiamminghi di usurai, banchieri e cambiavalute del sedicesimo secolo, la stagione in cui cominciò a emergere il ruolo sociale del mercante. In particolare, il potente Esattore di tasse con la moglie di Marinus van Reymerswaele, caratterizzato dallo sguardo avido della donna fissato verso le monete, e I raccoglitori di imposte di Quentin Metsys, avvolti nei turbanti, l’espressione carica di cupidigia. Nel quadro è chiaro che nuovo mondo è sorto, simboleggiato dalla forbice che sovrasta i due banchieri, una sorta di spada, di destino manifesto dei protagonisti.

Il destino di Scrooge dipende da come accoglierà la visita dei tre spiriti, che gli permetteranno di sperimentare sulla carne la necessità dell’amore, di cui è privo, la nostalgia per l’infanzia e i piccoli episodi di luce smarriti lungo il cammino, sino al pentimento finale. Il viaggio nel tempo del Canto di Natale è in realtà un percorso verso l’empatia, le cui tappe sono altrettante stazioni di un riscatto: rivedersi come un bimbo solitario estraneo alla vita familiare, ricordare l’abbandono della fidanzata lasciata per dedicarsi esclusivamente agli affari e a fare soldi, pentirsi della meschinità nei confronti della sorella, dello sfruttamento del disgraziato dipendente.

La ricerca del tempo perduto di Scrooge è la stessa di Dickens, che fu un bimbo precocemente sfruttato e visse con orrore la realtà sociale dell’Inghilterra della rivoluzione industriale, in cui la miseria spopolava le campagne dei terreni recintati dai feudatari, spingendo milioni di persone ad ammassarsi nelle nuove periferie in condizioni allucinanti, per lavorare nelle fabbriche sedici ore al giorno, donne e bambini compresi. Dickens vedeva con i suoi occhi la povertà materiale che diveniva degrado morale e spirituale, all’ombra delle ciminiere, i campanili del nuovo culto che il poeta e pittore inglese William Blake aveva definito gli oscuri mulini di Satana, (dark satanic mills) simbolo di una seconda età del ferro, il regno della quantità.

Lo Scrooge dickensiano, attraverso la semplice gioia del Natale, ritrova la capacità di avvertire la solitudine, l’amore, il rimpianto, riconoscere le offese all’umanità. Dickens aveva visitato le miniere di stagno della Cornovaglia, verificato le penose condizioni di lavoro degli adulti e dei bambini, conosciuto il carcere per debiti che colpiva intere famiglie. Intese, attraverso il Canto di Natale, lanciare un messaggio di concreta denuncia sociale attraverso un racconto gotico ma aperto alla speranza, una storia di spettri “buoni” in grado di trasformarsi in cantico comunitario. Scrooge era un personaggio archetipico, ben conosciuto dai lettori al suo tempo.

Non troppo diverso è il presente, il cui racconto potrebbe essere patrocinato da Lehman Brothers, carnefici e successivamente vittime dell’economia finanziaria fatta di impulsi e algoritmi, indifferenza per chi vive e veste panni. Le sofferenze sono uguali, Scrooge non è un’astrazione, ma un riflesso del tempo dentro di noi, i suoi spettri sono gli stessi accampati nell’isola in mezzo alla moltitudine che siamo diventati.

Diverso è l’esito. Quasi due secoli dopo il Canto, la redenzione pare una vaga illusione, la tensione morale si è dileguata, molti altri Ebenezer Scrooge hanno conquistato potere e preteso di assurgere a modelli. Oggi ci è difficile commuoverci dinanzi al vagare incessante degli Spiriti natalizi del Canto, o al destino di coloro che, perdute in vita le occasioni di gioia, subiscono la condanna dell’oblio. Nessuno si ricorderà di loro, nessuno piangerà la loro morte, fa dire Dickens ai suoi personaggi. La vita è un passaggio in cui le buone azioni fanno guadagnare l’eternità dell’anima, ma anche quella eternità minore fatta di ricordo e compianto. Evidente il paragone con Ugo Foscolo, ma lo scrittore inglese era comunque un credente. Costringe Scrooge a tirare le somme dei propri errori, il passato genera nostalgia per le occasioni perdute, il presente dimostra la sterilità di una vita senza il conforto dello spirito, il futuro prospetta una morte solitaria e la dannazione. Il Canto di Natale è, alla fine, un’opera cristiana.

Per questo, temiamo che non sia più in grado di scuotere gli animi, emozionare e cambiare la vita, al tempo di altri gelidi Scrooge, della partita doppia in formato digitale, di nuove e vecchie schiavitù. La catena di Jakob Morley imprigiona milioni di uomini e donne, irriconoscibili come gli avari nell’Inferno dantesco, resi tali dal carattere immondo del loro peccato. Ma il Male è stato abolito, anzi invertito, il peccato è una vecchia favola per impaurire i bambini, Ebenezer Scrooge è un eroe del nostro tempo. Il Canto di Natale è un ritornello su cui pagare i diritti d’autore e la catena dell’avidità è la corona più ambita.

ROBERTO PECCHIOLI