I dubbi di un cristiano dinanzi all’ecologismo

 di Andrea Fiamma

 

Si può ammettere senza troppi patemi che la cura dell’ambiente e dell’ecosistema si sia affermata in questo decennio a cavallo tra i due secoli come una delle tematiche fondamentali della discussione filosofica, politica ed economica. La coscienza degli enormi rischi ambientali, a cui l’èra tecnologica ci ha sensibilizzato, ha portato a sviluppare sempre più una nuova concezione del rapporto dell’homo fabercon la “natura”; e questo stare-nella-natura, vogliamo sostenere, non si limita ad una strategia preventiva o ad una mera reazione di buon senso dinanzi alla follia devastatrice della bomba di Hiroshima, ma si presenta in questo inizio di secolo come una vera e propria visione del mondo complessa e organizzata. Tra il dopoguerra e gli anni sessanta, infatti, hanno iniziato a proliferare una serie di movimenti contro l’uso del nucleare, per la salvaguardia “dell’incontaminato”, per proteggere le specie animali in estinzione, per i delfini e per gli alberi della foresta; per i parchi e le spiagge. Essi si caratterizzano per la gran parte nell’organizzazione di azioni di protesta (i contro) e come opposizione alla politica definita “imperialista e aggressiva” del mondo occidentale; questo accade perché, secondo tale  visione del mondo, l’Occidente avrebbe abdicato al concetto di “buona vita” e di “bene comune” per vendersi alla ricerca del piacere sfrenato e del denaro. Tutta questa serie di istanze hanno poi vissuto  durante gli anni ottanta del secolo scorso un periodo di grande elaborazione concettuale, abbinata a vere e proprie vittorie politiche, culminate, forse, con il referendum abrogativo sul nucleare dell’87 – in realtà stravinto anche per concorrenza di fattori esterni come il disastro di Cernobyl.

 

Non possiamo però nasconderci la portata del messaggio di fondo, a prescindere dai numeri e dalla dimensione politica sempre relegata alla variabilità delle scelte: si tratta davvero di una nuova visione totalizzante del mondo. L’indubbio merito di questa corrente di pensiero è che, nel corso degli anni, ha fatto in modo di elaborare teorie e concetti, da un lato e, dall’altra parte, si è fatta valere nel mondo politico con azioni fortemente legate alle comunità locali; in altri termini l’ambientalismo è forte perché ha saputo coniugare l’incisività politica con l’espressione teorica. Le varie ragioni delle battaglie locali sono quindi riuscite a confluire entro l’alveo di un òikos teoretico comune, pur continuando a caratterizzarsi prevalentemente come indipendenti tra loro.

 

Dal punto di vista filosofico possiamo dunque trattare di questo òikos, benché – come precisato – l’ampiezza numerica di questi movimenti non si riduca alla condivisione filosofica di uno stile di vita e di una concezione del mondo ma affondi, al contrario, in una serie di iniziative concrete e “battaglie” per l’affermazione di convinzioni specifiche; eppure ciò che ci può interessare è proprio che essa si presenti, appunto, come una Weltanschauung con le caratteristiche tipiche di una ideologia del Nocevento: essa investe ogni aspetto della vita di chi vi aderisce, possiede un forte impatto socio-politico e fa emergere un cameratismo dai tratti religiosi. Inoltre al centro della dottrina ecologista vi è una concezione naturalistica del mondo che in qualche modo danza sul sottile confine che vi è tra l’ateismo e l’animismo e si combina a forme più o meno raffinate di panteismo pagano. E’ chiaro che nonostante un filosofo come Hans Jonas sia stato uno dei primi ad aver posto la questione-ambiente, nell’analisi di questi tratti radicali e pagani, siamo lontani da quel Prinzip Verantwortung che si muoveva sì entro un fondamentale ateismo nichilista, ma che non trasferiva all’ambiente alcuna carica religiosa. Al contrario, probabilmente proprio comprendere il fenomeno tramite la forte disposizione religiosa e l’enorme successo di alcune prospettive New age, che hanno cavalcato l’ambientalismo post-anni sessanta, può rivelarsi una chiave di lettura importante per leggere il successo del “religioso” in un tempo in cui le chiese sono vuote e la maggioranza dei cittadini occidentali ha smesso di definirsi cristiana. La sfida per un filosofo della religione è allora proprio comprendere l’impatto di queste teorie entro quel particolareligamen tra l’uomo e la natura, che pare essere proprio uno dei temi trainanti del successo ambientalista; d’altronde si è ampiamente osservato altrove come quell’ibrido di ateismo e naturalismo pagano appaia rispondere “adeguatamente” all’esigenza degli occidentali di pensarsi entro un orizzonte ulteriore al finito (per cui trascendente) che però sappia far i conti con il nichilismo delle due guerre e dopo Nietzsche; questo chiaramente significa l’impossibilità di pregare il Dio buono delle religioni monoteiste che dinanzi alla Shoa o ai drammi della trincea è rimasto inerme (o persino colpevolmente in silenzio).

 

Hans Jonas, non a caso allievo di Heidegger, studioso di gnosì e autore del saggio Der Gottesbegriff nach Auschwitz (Il concetto di Dio dopo Auschwitz), è stato uno dei primi interpreti di questa nuova tendenza globale; egli credeva che la questione ambientale fosse da porre in termini essenzialmenti etici e che, preso atto del carattere globale della religione dei moderni, si trattasse di porre nuovamente e in maniera slegata dal religioso il tema della responsabilità dell’uomo. Che si parta dall’imperativo kantiano o meno, si noti come ciò che esprime Jonas si inserisca appieno entro le coordinate filosofico-religiose dell’Occidente secolarizzato. Tra l’altro è stata possibile anche una lettura filo-ebraica: secondo la Bibbia, difatti, il mondo è stato “affidato” all’uomo (Genesi) e per questo egli ha il dovere-responsabilità di custodirlo e “assicurare la vita alle generazioni future”. Questo doppio livello delle argomentazioni – filosofico e religioso – ha fatto sì che la prospettiva iniziasse ad affascinare anche il mondo cattolico; ben presto, difatti, l’ambientalismo penetra anche in ambiente ecclesiastico (soprattutto quello lontano dalle gerarchie romane) al punto che ai tempi correnti non pare assurdo assistere a prese di posizione ecologiste all’interno della Chiesa. Il dubbio però che vorrei sollevare – e così vado ad illustrare le ragioni dell’uso del termine “assurdo” – è come coniugare il cristianesimo (in una delle sue molteplici forme) con la tensione religiosa verso la natura di cui si parlava poc’anzi. Ad esempio, un cristiano non può non fare i conti con la tematica fondamentale di questa nuova tendenza filosofica, ovvero il rapporto dell’uomo con il mondo e osservare così come essa viene declinata e se questa Weltanschauung possa rivelarsi affine ad una prospettiva cristiana (ripeto, in una delle sue molteplici forme).

 

Si era accennato come l’ecologismo, almeno nelle sue espressioni più radicali, giunga a concepire la mano umana come “estranea” a questo mondo (ecco i modelli gnostici di Jonas), al punto che “l’incontaminato” della natura sarebbe proprio il luogo in cui essa non ha subito “contaminazioni” da parte del virus umano. Sì, virus poiché secondo questa visione la mano umana sarebbe corrotta dalle pulsioni verso il denaro ed avrebbe così smesso di vivere in “armonia” con il creato (tema caldo anche per i cristiani) e preferirebbe distruggerlo per l’arricchimento individuale – obiettivo che non è considerato “male” in sè, ma che lo diventa nella misura in cui la ricchezza è privata e quindi non “collettiva” come lo sarebbe una ricchezza “naturale” (d’altronde Cristo si dona a tutti in “egual misura”); inutile qui sottolineare i tanti influssi occorsi da parte di un’altra importante gnosi dell’Ottocento: ilmarxismo. Da sempre i modelli pagani d’Occidente si sovrappongono tra loro, si confondono con dottrine gnostiche e cristiane e, nella prossimità con la religione cristiana, la affascinano e vi lasciano la loro impronta. L’influenza del marxismo sulla Chiesa non si riduce, difatti, alla teologia della liberazione, ma esso ha spesso agito nel profondo e non a caso si riverbera molte volte in movimenti cristiani che si ispirano ad una presunta idea di Chiesa primitiva (sul New Age e sulla presenza della gnosi entro un certo cristianesimo primitivo, rimando all’ottima analisi del card. Julien Ries reperibile sul sito esicasmo.it). Ecco che improvvisamente ci troviamo dinanzi ad una forma pagana di religio, questa “della natura”, che è chiaramente schiacciata sull‘universalismo – e, dal punto di vista politico, non a caso, sul collettivismo marxista; essa comprende il globale come il Bene e l’individualità come un qualcosa di astratto dalla natura, per cui alieno e differente: l’azione dell’uomo è un qualcosa di invasivo.

 

Come distinguere allora uno stare-nel mondo e un rispetto dell’ambiente di matrice cristiana dall’adesione ad una dottrina dai tratti neopagani come l’ecologismo di questo secolo? Il De civitate Dei di Agostino potrebbe offrire una robusta chiave di lettura per capire se quel ramo progressista della Chiesa che pare aderire alle ragioni dell’ecologismo rischi o non si sia piuttosto già evoluto verso posizioni di indubbia compatibilità con le dottrine cristiane. Nel capitolo ventitréesimo del settimo libro del De civitate Dei, Agostino tratta dei culti pagani della terra e in particolar modo di quanto raccontava Varrone sul culto della dea Tellus. Questo passo può tornare utile per comprendere come un cristiano debba intendere il rapporto tra l’uomo e il creato; esordisce Agostino (tr. it. di L. Alici, Bompiani): “indubbiamente esiste un’unica terra, che vediamo ripiena dei suoi animali e che, nonostante la grandezza tra gli elementi, è la parte più bassa. Perché ritenerla una dea? Forse perché è feconda?”. La domanda non pare affatto retorica: nei capitoli precedenti Agostino aveva trattato i misteri eleusini e ilculto di Proserpina che avrebbe avuto il potere di rendere feconda la terra. La risposta alla domanda potrà meglio indirizzarci al nostro obiettivo: invece “a maggior ragione dovrebbero essere chiamati dèi gli uomini che la rendono più feconda coltivandola, cioé arandolanon adorandola” [corsivo nostro]. L’adorazione che una certa cultura ambientalista esprime nei confronti della natura è così per un cristiano, quantomeno, fuori luogo.

 

Agostino sembra indicarci che il passo del Genesi non vada interpretato nel senso pagano o panteista dell’adorazione per la terra, ma porti con sè la convinzione che la terra sia stata donata all’uomo proprio perché essa non sia più alta dell’uomo ma, come Egli scrive, “la più bassa”. A differenza dell’uomo, difatti, la terra non possiede in sé un’anima; essa, inoltre, non può salvarsi da sé poiché non è fatta ad immagine di Dio, e cioè non porta il sigillo della SS. Trinità, ma abbisogna della cura dell’uomo affinché possa germogliare e divenir feconda; abbisogna che l’uomo la lavori e la utilizzi per esprimere al meglio la propria intelligenza e creatività – espressione intellettuale che è davvero la parte più elevata dell’uomo e ciò che lo rende immagine di Dio. Non ha perciò senso quanto fanno i pagani: essi adorano un qualcosa che è a loro inferiore e hanno timore di arare la terra poiché questo porterebbe uno squilibro alla salubrità della natura.

 

Benedetto XVI nel messaggio per la celebrazione della XLII giornata mondiale della pace (2010) ci invita a riconoscere il problema ambientale senza tuttavia scivolare verso quelle concezioni pagane e gnostiche, per cui il creato debba essere adorato e secondo cui l’uomo non debba portarvi migliorìe o intervenire con la propria opera di modificazione. In realtà un cristiano dovrebbe riconoscere senza alcuna esitazione che la mano umana che interviene sul “suo” ambiente – “suo” poiché donatogli da Dio – non è malvagia, ma che essa sia lo strumento adeguato per esprime la propria essenza creatrice e divina e vivere così una vita piena nel mondoLa terra va arata, cioé si deve entrare in rapporto con essa anche a costo di rivolgerla e sconquassarla affinché questo permetta all’uomo di fecondarla e di goderne dei frutti. Un certo ecologismo novecentesco sviluppatosi in ambiente nichilista ha perso questa dimensione divina di contatto dell’uomo con Dio e si rivolge alla “divina” Terra Madre adorandola e opponendosi ostinatamente ad ogni intervento umano, considerato invece “invasivo” e “dissacrante”. D’altra parte, a parziale giustificazione di alcune posizioni della Chiesa filo-ecologiste, è altrettanto vero che il fine dell’intervento umano non può essere la distruzione totale del proprio ambiente, perché altrimenti non potrebbe essere fecondato: l’azione umana non può essere quindi a-narchica, ma per un cristiano essa deve sempre venire limitata dalla responsabilità dell’uomo dinanzi a Dio. Eppure quando la “responsabilità” cristiana viene portata avanti con l’intolleranza e l’estremismo di una “religione della terra”, allora che suoni il campanello d’allarme: si rischia facilmente, come ammonisce Benedetto XVI di scivolare verso concezioni di sacralità della terra che non hanno a che vedere con il cristianesimo, che alla cura dell’ambiente ha sempre anteposto la cura dell’anima umana e la sua salvezza.

 

Pubblicato il 9 luglio 2012,   su Die Bruecke