Geoffrey Ingham e la natura della moneta – di Luigi Copertino

Geoffrey Ingham e la natura della moneta

Contributo per un confronto costruttivo tra la teoria monetaria auritiana e le altre teorie eterodosse

 

Nel 2016, per i tipi della Fazi Editore, è stato pubblicato anche in Italia un importante saggio in tema di moneta, scritto nel 2004 da un sociologo di Cambridge, Geoffrey Ingham, La natura della moneta.

Ingham approccia il tema circa la natura della moneta partendo dal momento nel quale si è affermata la separazione tra scienze morali, scienze sociali e scienze economiche. Separazione che ha reso incomprensibile la natura della moneta proprio a coloro che, come gli economisti, prescindendo dal problema, poi pretendono di costruisce una scienza economica.

Il momento della frattura dell’approccio interdisciplinare è individuato da Ingham nell’ultimo ventennio del XIX secolo quando si impose la discussione sul metodo o Methodenstreit.

Il “Methodenstreit” fu una disputa che impegnò la Scuola austriaca e la Scuola storica tedesca a proposito del ruolo, nelle scienze sociali ed economiche, per spiegare le dinamiche e le motivazioni dell’azione umana, della teoria generale, con il suo astrattismo, e di quello della storia. Tale disputa vide contrapposti Carl Menger, esponente dell’approccio teorico della Scuola neoclassica austriaca, e Gustav Schmoller, esponente della Scuola Storica tedesca. Tra i rappresentanti della “scuola storica” devono essere annoverati anche Max Weber e Werner Sombart. Mentre i rappresentanti dell’indirizzo cosiddetto “ordoliberale”, ad iniziare da Walter Eucken, abbandonando l’originario “empirismo storicista”, traghettarono dall’iniziale adesione alla Scuola storica verso l’accettazione dell’approccio meramente astratto e teoretico della Scuola austriaca, con il risultato di ibridizzare ed annacquare l’organicismo sociologico in un “liberalismo delle regole” che pur presupponendo un momento istituzionale, e dunque vagamente “organicista”, lo risolve in uno strumento del mercato, in una secondaria, sussidiaria, “cornice istituzionale” a tutela della concorrenza.

La controversia ha portato alla divisione tra scienza economica e sociologia, con effetti rovinosi, tuttora persistenti, per la conoscenza degli aspetti socio-economici della convivenza umana. A partire da quella rottura gli economisti si disinteressarono delle altre scienze storiche e sociali e gli storici ed i sociologici rifuggirono dai problemi economici non considerati di loro competenza.

Tra le problematiche che questa scissione ha coinvolto negativamente vi è senza dubbio quello della natura della moneta, nonostante che, come è stato giustamente osservato, «poche istituzioni sono importanti per il benessere umano come l’istituzione della moneta, ancora tanto grossolanamente fraintesa» (Pavlina Tcherneva, Bard College di New York).

Geoffrey Ingham, dal canto suo, tenta una ricucitura della spaccatura e si inoltra in una interessante ricostruzione ad un tempo storica, sociologica, antropologica, ed economica della natura della moneta. Allo scopo egli pone a confronto le due teorie monetarie fondamentali in materia monetaria, la metallista, che considera la moneta una merce, e la nominalista, che invece considera  la moneta un titolo di credito.

E’ evidente che Ingham non conosce la “teoria giuridica” della moneta formulata da Giacinto Auriti, la quale considera la moneta una incorporazione simbolica del potere d’acquisto o “valore indotto”, creato dall’accettazione fiduciaria, inteso come un “bene immateriale”. Una teoria, quest’ultima, che se da un lato supera l’arcaica concezione della moneta merce, dall’altro evita anche l’equivoco della moneta-credito al quale sembrano ancora soggette le teorie eterodosse illustrate dal sociologo inglese. Qui, pertanto, ci occuperemo degli studi di Ingham, per via del loro contributo alla demolizione della teoria metallista della moneta-merce, non senza metterle a confronto con la teoria auritiana. Al fine di evidenziare, che deficit concettuali a parte, esse comunque convergono verso un unico obiettivo che è quello di restituire la sovranità monetaria allo Stato popolare strappandola ai poteri della finanzia e dell’usura globalizzata.

Secondo Ingham, che si richiama alle posizioni neo-cartaliste, la moneta ha una duplice natura. La prima è definita dalle funzioni che essa esercita, ossia quelle di mezzo di scambio, unità di conto, mezzo di pagamento e riserva di valore. La seconda è espressa dal “potere dispotico” che essa manifesta, in seno alla comunità, nel momento stesso nella quale viene prodotta.

E’ un errore, tuttavia, sostiene Ingham, proprio tanto delle teorie economiche ortodosse che di quelle eterodosse, cercare il “quid” della natura della moneta sulla base delle funzioni che essa svolge. Egli cita, a pagina 23, Schumpeter per il quale «soltanto due teorie della moneta degne di questo nome […] la teoria della moneta-merce e quella basata sui diritti di credito. Per la loro stessa natura esse sono incompatibili». Il problema della natura della moneta esiste sin dall’antica Grecia, quando essa appare, nella sua funzione anche economica, con le prime coniazioni. A pagina 161, Ingham scrive: «Per due millenni  dopo il VII secolo a.C., la “moneta” è stata identificata con la moneta metallica, ed è cominciata la confusione intellettuale sulla sua natura». In altri termini, Ingham ci dice che il feticcio luccicante dell’oro o dell’argento, ma anche del rame, ha abbagliato l’umanità per secoli, inducendola in un errore di prospettiva che è stato lungo e faticoso superare.

La moneta-merce

La teoria metallista è stata prevalente per secoli e su di essa ha fondato le sue analisi la Scuola classica di Economia, ossia la scuola liberale. Per Ricardo, ad esempio, «non ci può essere unità di misura infallibile di lunghezza, peso, tempo, o valore a meno che non ci sia un oggetto in natura a cui lo standard stesso possa riferirsi».

Ingham mette in evidenza che la teoria della moneta-merce opera all’interno di un modello basato essenzialmente sul baratto, nel quale la moneta è soltanto un velo nei rapporti di scambio tra beni sottostanti. La moneta, dicono i metallisti, è un “velo neutro” steso sopra i meccanismi dello scambio reale tra beni. Essa, pertanto, non può rappresentare un agente economico a sé stante. Anzi, qualora le autorità monetarie agiscano in modo inappropriato – leggasi coniano o, in epoca di moneta cartacea, stampino troppa moneta – producendo inflazione, la moneta può influenzare negativamente il livello dei prezzi e così ostruire il normale e spontaneo funzionamento del mercato. Al di là di questo pericolo, che deve essere esorcizzato con opportune politiche di contrazione della sua quantità, la moneta non influenza in alcun modo le altre variabili economiche sicché può essere omessa dai modelli economici, perché in fondo le compravendite di merci possono essere efficacemente espresse in termini di tasso di scambio reale, ossia in termini di baratto, mentre l’unità di conto è usata solo per mera facilitazione contabile.

Nell’analisi ortodossa della moneta, che erroneamente Ingham fa risalire ad Aristotele  (1), il valore della moneta è identificato con il valore del metallo prezioso, oro o argento, con il quale è coniata o che è sottostante al simbolo cartaceo. Il valore metallico a sua volta è determinato «temporaneamente dall’offerta e dalla domanda, in modo permanente e in media dai costi di produzione», così Ingham che riporta una citazione filo-metallista di Stuart Mill.

Sulla base di questi presupposti – la moneta-merce e la sua presunta neutralità – la teoria classica afferma la successione della moneta alla comparizione del mercato. Essa sarebbe un prodotto della razionalità economica e della massimizzazione dell’utilità individuale. Nella prospettiva liberale la moneta si afferma storicamente solo perché si è dimostrata un mezzo utile per rendere più efficienti gli scambi, eliminando i costi e gli inconvenienti del baratto. Ma, nell’essenza, non lo sostituisce.

Su queste basi la Scuola classica sposa la “teoria quantitativa della moneta”. Per detta teoria il livello dei prezzi è una funzione matematica del rapporto tra la quantità di moneta circolante e la quantità di merci prodotte e scambiate. Da qui l’ossessione per il controllo anti-inflattivo della quantità di moneta legale. Nello schema quantitativista le passività bancarie, ossia i prestiti, sono moneta esclusivamente se convertibili in oro o in altri metalli preziosi, mentre le altre forme di credito, sul tipo delle cambiali, non sono considerate “moneta” o “quasi-moneta” e non sono pertanto considerate in termini di calcolo economico. L’analisi ortodossa nega la natura di moneta alle forme di credito bancario e deve necessariamente postulare l’anacronistica distinzione tra valuta legale, che sarebbe la moneta “propriamente detta”, ed il credito.

L’anacronismo di tale posizione è messo in evidenza dal fatto che nonostante la moneta-credito bancaria sia cresciuta in modo esponenziale, per le stesse endogene necessità di una economia moderna, gli economisti ortodossi, incapaci nel loro astrattismo teoretico di percepire anche storicamente i fenomeni, si sono aggrappati disperatamente alla distinzione tra moneta legale, presunta unica moneta, e moneta bancaria, rifiutata nella sua funzione monetaria pur ormai del tutto palese. Questa anacronistica anti-storicità spiega come si sia potuto imporre, approfittando delle difficoltà inflattive provocate dalla crisi petrolifera mondiale degli anni ’70 del XX secolo, il monetarismo con la sua pretesa, di matrice neoclassica, di controllare l’offerta di moneta da parte delle Banche Centrali. Pretesa smentita, nonostante il Nobel assegnato a Milton Friedman, dal fallimento di tutti i tentativi di “monetary targeting” effettuati dalla Federal Reserve e dalla Banca d’Inghilterra durante le amministrazioni conservatrici di Reagan e della Thatcher.

La prima critica che Ingham rivolge alla teoria monetaria ortodossa riguarda per l’appunto la presunta natura merceologica della moneta. L’identificazione della moneta con la merce con la quale è coniata, o che si presume sottostante, e l’enfasi sull’aspetto meramente funzionale di mezzo di scambio, impedisce alla teoria classica di comprendere la moneta come “unità di conto”, ossia di comprendere che essa è misura del valore dei beni. Qui Ingham, pur senza proporselo, sfiora il problema auritiano del “valore della misura” quale fondamento del valore monetario indotto.

Secondo l’interpretazione ortodossa, in particolare nel modello walrasiano, la particolarità della moneta quale unità di conto sarebbe una conseguenza del fatto che essa, merce scambiabile nel mercato con altre merci, è in grado di assegnare un valore alle merci nel momento dello scambio. L’esempio tipico è quello delle sigarette o del tabacco utilizzato come mezzo di scambio nelle carceri che quindi assurgerebbe a “moneta”. Stando all’analisi ortodossa è il valore di scambio di mercato delle sigarette o del tabacco, che nell’esempio fungono da moneta-merce, a produrre l’unità di conto.

Ingham contesta l’analisi perché osserva che il valore di scambio delle sigarette o del tabacco muta ad ogni transazione per le diverse merci, sicché 1 sigaretta è di volta in volta pari a 5 banane, oppure 3 mele, o ancora 2 camice. Quindi le sigarette, o il tabacco, non si comportano affatto come una  moneta, ossia come una unità di conto. A meno che il valore di scambio di una sigaretta non sia fissato in termini di un’altra merce-cardine. Ingham ricorda che il sistema aureo si reggeva sulla promessa di cambiare una banconota, denominata nell’unità di conto, con una quantità di metallo prezioso. La parità, tuttavia, era stabilita dall’Autorità politica – sia pure in sintonia con gli scopi speculativi dei banchieri, come accadde all’atto della nascita della Banca d’Inghilterra – ma non dal mercato. Questa evidenza storica dimostra che i  diversi rapporti di cambio non possono produrre un’unica unità di conto ma che essa è autoritariamente, ossia politicamente, stabilita.

Neanche l’ipotesi dello “standard”, avanzata dall’ortodossia, spiega tuttavia la moneta intesa come unità di conto. Secondo la scienza economica classica, lo scambio farebbe emergere spontaneamente uno “standard”, nell’esempio fatto lo “standard della sigaretta”. Sussiste, però, osserva Ingham un trascurato problema di circolarità concettuale. Un qualsiasi standard non potrà mai determinare il prezzo di equilibrio sul quale si incontrano domanda e offerta, nell’esempio, di sigarette. Senza la preventiva determinazione dell’unità di conto, le sigarette non potranno che inevitabilmente assumere valori multipli ad ogni scambio di merci. E’ dunque preventivamente necessaria una “moneta di conto”, ossia un’unità di misura stabile del valore. Sicché la moneta, quale unità di conto astratta del valore, non può che essere anteriore sul piano logico e precedente sul piano storico all’economia di scambio ossia al mercato.

Che la moneta non sia una merce neutrale generata dal mercato, è dimostrato, poi, secondo Ingham, anche dal fatto che la sua offerta è severamente controllata dalle istituzioni preposte alla emissione. Qui si svela la natura politica della moneta e come, se non ne viene riconosciuta tale politicità, essa possa diventare in realtà uno strumento per scelte di austerità a favore del capitale, dato che la presunta scarsità di moneta è sempre il frutto di assetti sociali e politici pensati in funzione conservatrice.

L’identificazione della moneta con la merce mediante la quale è coniata, o è ad essa sottesa, è stata storicamente smentita dal processo di de-materializzazione della moneta imposto dallo sviluppo capitalistico a partire dal XVIII secolo fino alla seconda metà del XX secolo. Nel 1971, infatti, con la fine degli Accordi di Bretton Woods, la moneta è stata definitivamente sganciata dall’oro portando a compimento una tendenza ormai secolare ed instaurando un sistema monetario puramente creditizio. Nel corso dei secoli, la moneta ha cambiato forma diverse volte passando dai metalli preziosi ai metalli comuni, dalle banconote ai bit elettronici. Alla luce di questo processo di de-materializzazione, in atto, coloro che si attardano su posizioni di tipo “metallista” e continuano a considerare la moneta una merce, finiscono per giungere ad errate convinzioni come quella sulla presunta “fine della moneta”.

Il misconoscimento, per difetto di approccio storico, della esistenza della “moneta-credito capitalista creata dalle banche”, formatasi nell’ambito degli sviluppi della prassi bancaria lungo i secoli, mette in difficoltà la teoria ortodossa classica, la quale finisce per considerare il sistema bancario soltanto come una camera di registrazione dei pagamenti interni mediante un sistema di giroconti e trasferimenti contabili, negando ad esso ogni capacità di creazione ex nihilo di moneta. Non ci si avvede, in altri termini, che il sistema bancario è diventato un’entità autonoma e determinante del ciclo economico, tale da poter padroneggiare la sorte dei popoli se non si provvede alle opportune regolamentazioni, che sono atti politici, affinché esso sia di utilità sociale, funzioni come un “social credit”, e non diventi uno strumento speculativo.

La teoria classica è attardata nella arcaica convinzione che siano “i depositi a creare i prestiti” e che siano i risparmi a indurre gli investimenti. Questa convinzione si basa sull’idea della scarsità delle risorse monetarie. La concezione cosiddetta “esogena” della moneta, testé richiamata, per la quale si realizzano prima i depositi e poi i prestiti e si formano prima i risparmi e poi gli investimenti, era già stata criticata da Schumpeter e da Keynes, i quali posero le basi della “teoria della moneta endogena”, oggi riconosciuta fondata persino nei papier della Banca d’Inghilterra. Randall Wray, economista americano dell’University of Missouri-Kansas City, che Ingham cita, la riassume in tali termini: «… i prestiti creano depositi, … i depositi creano riserve, e … la domanda di moneta induce l’offerta di moneta».

Secondo Ingham la comprensione adeguata della natura endogena della moneta consente di ricostruire criticamente la storia delle politiche disinflazionistiche adottate dai governi liberisti per superare la crisi degli anni settanta del XX secolo e di comprendere l’emergere globale del capitalismo finanziario con le trasformazioni sociali, sfavorevoli al ceto medio ed alla working class, verificatesi dagli anni Ottanta. Infatti il sociologo inglese ci rammenta che «quando le autorità tentano di regolare e controllare una qualsiasi forma di strumento di credito o di “quasi moneta”, il sistema finanziario capitalista privato ne crea di nuovi che non sono ancora regolamentati».

Ed è esattamente questo che è accaduto con il tentativo monetarista, fine anni settanta, di controllare l’inflazione – che era causata in verità dalla scarsità del greggio e quindi dall’aumento del prezzo del petrolio che si ripercuoteva sui costi di produzione industriale ed alla fine sui prezzi di mercato die beni prodotti –  mediante la restrizione della base monetaria legale emessa dalle Banche Centrali. La risposta alla contrazione della quantità di moneta legale fu un aumento della creazione di moneta bancaria, ossia di concessione di prestiti in funzione monetaria, che avviò il processo di finanziarizzazione senza regole dell’economia aprendo la strada all’egemonia della finanzia apolide sull’economia reale. L’economista americano Hyman Minsky fu trai primi a notare quanto stava accadendo. Egli sosteneva che la moderna cartolarizzazione è stata la risposta alla politica iniziata dal governatore Volker nel 1979, che portò i tassi di rifinanziamento della FED sopra il 20% al fine di contrarre l’emissione di moneta legale.

Se, dunque, la teoria ortodossa della moneta-merce non è in grado di dare risposte circa la natura della moneta, la sua produzione e la sua circolazione, quale è la risposta che danno le teorie monetarie eterodosse secondo la ricostruzione di Ingham?

La moneta-credito. Il  credito e lo Stato

Abbiamo già avvertito che, in questo contributo, tratteremo anche delle osservazioni critiche possono essere mosse alla Teoria della moneta-credito. Queste sono le critiche elaborate da Giacinto Auriti, al quale va annoverato il merito di aver svelato l’essenza anch’essa in fondo mistificatoria della cosiddetta moneta-credito ossia della moneta ritenuta alla stregua di una forma di passività bancaria o di promessa di pagamento o debito inesigibile. Ingham, evidentemente, non conosce la teoria auritiana e punto tutto sulla cosiddetta teoria nominalista.

La Teoria della moneta-credito ha origine dagli studi degli economisti inglesi del XVII e XVIII secolo, dai contributi della Scuola Storica tedesca e dalla teoria statale della moneta del XIX secolo. Nel XX secolo altri contributi alla concezione eterodossa della moneta sono stati offerti dagli studiosi keynesiani, circuitisti e neocartalisti.

Ingham non manca di evidenziare che queste correnti di pensiero non hanno finora trovato una integrazione compiuta e che esse presentano anche ambiguità e contraddizioni. Tuttavia tutti questi indirizzi scientifici concordano in sostanza su quattro tesi fondamentali che ne costituiscono il comune denominatore.

La prima tesi della teoria nominalista della moneta è che essa è essenzialmente una “misura astratta del valore” nonché un “mezzo di immagazzinaggio e trasporto” di questo valore astratto. Non si giunge ad affermare, come nella teoria auritiana, che la moneta oltre ad essere “misura del valore” è anche, quale potere di acquisto indotto dalla legge e/o dalla tacita accettazione fiduciaria, “valore della misura”, ma siamo comunque vicini e se non esattamente sulla stessa linea quantomeno su una linea parallela e potenzialmente convergente.

Alla funzione di misurazione del valore, ossia di “unità di conto”, le teorie eterodosse riconducono tutte le altre funzioni della moneta, quali l’essere essa anche un mezzo di scambio, un mezzo di pagamento ed una riserva di valore. Ecco perché Ingham afferma che «la moneta di conto è logicamente anteriore a qualsiasi altra forma di moneta» e cita Keynes che nel 1930 scriveva che «nel senso pieno del termine (la moneta) può esistere soltanto in relazione alla moneta di conto». La moneta lungo i secoli ha assunto forme molteplici e non sempre in metallo pregiato dato che hanno costituito la base materiale della moneta persino le conchiglie o il pellame. Ma in ogni tempo e luogo «il carattere di moneta è assegnato dalla moneta di conto e non dalla forma di moneta», spiega Ingham alla luce delle teorie eterodosse. Il valore astratto si “materializza” nella moneta la quale agisce come mezzo di immagazzinaggio e trasporto. Qui Ingham, a sua insaputa, si avvicina al concetto auritiano di “valore indotto” ossia di valore immateriale “incorporato” nel simbolo monetario indipendentemente dalla natura del materiale usato per il simbolo, metallo o carta o impulso elettronico.

La seconda tesi della teoria nominalista della moneta è che essa consiste essenzialmente in un “titolo o credito”. Il suo valore non deriva dalla merce che la costituisce perché la moneta rappresenta “un potere d’acquisto astratto”, un titolo attraverso cui il portatore è in grado di estinguere qualsiasi contratto-debito e contratto-prezzo, perché, ricorda Ingham, come scrive Keynes: «i debiti e i prezzi devono prima esser stati espressi in termini (della moneta di conto)». Anche qui ci si avvicina alla teoria auritiana benché non venga superato, come ha fatto Auriti, l’equivoco fondamentale di considerare la moneta un titolo rappresentativo, una cambiale “pagabile a vista al portatore”, ossia una promessa di pagamento “inesigibile”. Questo modo di ragionare, intendere la moneta come titolo o credito, infatti, denota un debito concettuale proprio verso quella teoria della moneta merce che tuttavia si pretende di criticare. Perché se la moneta è un titolo rappresentativo, un titolo di credito, una promessa di pagamento, essa deve avere un sottostante, una merce sottostante, posto che non esiste, giuridicamente parlando, debito inesigibile. Ma, come sappiamo, la moneta, sin dai tempi del conio metallico ed a maggior ragione con l’avanzare del suo processo di dematerializzazione, non è mai stata una merce o un simbolo rappresentativo di una merce. Sicché non è possibile dire che la moneta rappresenta un “potere d’acquisto astratto” nei termini della fattispecie giuridica del credito. E’ possibile affermarlo solo, come ha fatto Giacinto Auriti, concependo quel “potere d’acquisto astratto” nei termini del “valore indotto” creato simultaneamente dall’accettazione fiduciaria, ossia dalla tacita convenzione sociale, e dal corso forzoso imposto dall’Autorità politica (anche se Auriti metteva, a nostro giudizio troppo, in primo piano il momento orizzontale convenzionale rispetto a quello verticale normativo).

Anche la funzione di “riserva di valore” svolta dalla moneta, che Ingham definisce alla stregua «di un movimento del valore astratto nel tempo reale», non può essere ben spiegata nei termini della moneta-credito ma solo in quelli del “valore indotto” auritiano “incorporato”, dunque “immagazzinato”, messo appunto a “riserva”, nel simbolo monetario, cartaceo o metallico che sia.

Keynes, citato da Ingham, spiega che «il desiderio di conservare la moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia verso i nostri calcoli e le convinzioni che riguardano il futuro (…). Il possesso materiale di moneta acquieta la nostra inquietudine». Ma questa funzione calmieratrice può darsi solo in due casi entrambi psicologicamente motivati. O nel caso in cui si ritiene che la moneta abbia valore per il metallo prezioso che la costituisce o che essa sottende se in forma cartacea – ed in tal caso si dovrebbe dar ragione alla teoria metallista – oppure nel caso in cui la “riserva di valore”, posto che non può essere metallica ma neanche creditizia in quanto non è possibile un credito/debito inesigibile, consista in un valore immateriale, creato dalla fiducia e garantito dallo Stato, incorporato simbolicamente in una fattispecie materiale. Ma in questo ultimo caso, allora, si dovrebbe parlare non di “moneta-credito” ma di “moneta-proprietà-di-popolo” dal momento che il suo valore immateriale non può che trovare, pena il crollo dell’intero sistema monetario ed economico, tutela da parte dell’ordinamento giuridico nei termini del diritto di proprietà sui beni immateriali.

La terza tesi che unisce le teorie eterodosse, secondo la ricostruzione di Ingham, concerne “la produzione della moneta” ed “il ruolo dello Stato” nei suoi riguardi. Come si è detto, per impossibilità logica ed incongruenza storica, la moneta non può essere considerata un prodotto della razionalità economica, del mercato, inteso a superare le inefficienze ed i costi del baratto. La moneta di conto è logicamente antecedente e storicamente precedente al mercato. Dunque da dove nasce e cosa determina il valore astratto della moneta di conto? Se non è lo scambio, come afferma la teoria metallista, chi stabilisce il valore della moneta? E’ evidente che ad attribuire valore alla moneta è l’Autorità politica, preposta alla sua creazione, ossia, nella modernità, lo Stato.

Lo Stato, o lungo i secoli altra Autorità politica, è la precondizione fondamentale per l’esistenza della moneta, perché solo esso ha il monopolio della forza legale, innanzitutto mediante il pagamento dei tributi, per sancire l’uso legalmente obbligato della moneta di conto astratta e per stabilire quale debba essere il simbolo autorizzato a rappresentarla. Soltanto l’Autorità politica consente il superamento dell’anarchia del baratto ed è in grado di  imporre la moneta di conto quale misura, uniforme e stabile, del valore e, quindi, aggiungiamo noi, in termini auritiani, quale “valore della misura”. Secondo Wray, il più noto esponente della teoria neocartalista della Modern Money Theory (MMT), «il potere chiave dello Stato è la sua capacità di imporre le tasse (…) e di nominare cosa sarà accettato per il (suo) pagamento». Lo Stato, esercita un potere coercitivo per la riscossione fiscale e punisce severamente l’evasione e la contraffazione monetaria.

Anche sotto questo profilo, tuttavia, un confronto con la tesi auritiana non guasta. Come abbiamo detto Auriti pone la fonte del “valore indotto ed incorporato nel simbolo monetario” nel consenso sociale, nell’accettazione fiduciaria del simbolo, sicché il momento creativo della moneta sembra essere soltanto quello convenzionale-consuetudinario. L’Auriti, infatti, tendeva a sottovalutare, pur senza negarlo, l’atto politico-statuale, espresso storicamente nel conio, che contribuisce a far nascere il “valore indotto”. Ma senza la garanzia sovrana, universalmente valida, dello Stato nessuno, a parte gli speculatori ed i giocatori d’azzardo, porrebbe troppa fiducia nel simbolo monetario, cartaceo o aureo o informatico che sia. Anche nel medioevo, nella fase iniziale del passaggio dal metallismo al cartalismo per mezzo della “lettera di cambio” inventata nella prassi bancaria del tempo, la fiducia nella nota del cambiavalute derivava, pur in assenza di una Autorità politica centralizzata ma tuttavia in presenza di molteplici Autorità politiche locali, dalla certezza della tutela che l’ordinamento giuridico dell’epoca, l’universale “ius commune” romano-cristiano, assicurava alle “promesse di pagamento” e quindi alla esigibilità in oro o monete metalliche della lettera di cambio “pagabile a vista al portatore”. Questo significa che per la creazione del valore monetario astratto, quale unità di conto e misura del valore indotto nel simbolo, ossia del potere d’acquisto sono contestualmente determinanti entrambi i fattori, l’accettazione fiduciaria popolare e l’imprimatur autoritativo-politico e che senza fiducia popolare la moneta sarebbe usata solo verticalmente per saldare i conti fiscali con lo Stato ma senza la “ratifica” statuale del consenso sociale non si avrebbe moneta in senso pieno ma solo orizzontalmente nei rapporti intersoggettivi privi, però di garanzia sovrana contro gli abusi e gli inganni e privi di tutela giudiziaria dei rapporti contrattuali e di debito-credito non valutati nella moneta legalmente imposta dallo Stato.

Alla luce della teoria auritiana, opportunamente interpretata ricomprendendovi alla pari anche la funzione dell’Autorità politica nel formarsi del “valore indotto”, l’affermazione di Ingham per la quale «la moneta è una relazione sociale di credito e debito denominato in moneta di conto» resta evidentemente ancora condizionata da una concezione creditizia della moneta che non giunge a concepirla come «proprietà popolare, di immateriale valore  indotto, garantita dallo Stato» benché, certamente, pur nell’equivoco della natura creditizia, già si allontana dalla concezione arcaica della moneta-merce.

Le teorie eterodosse, spiega Ingham, assumono che la moneta è credito per l’utilizzatore perché è un debito, una passività, per l’emittente sicché sarebbe «impossibile creare moneta senza creare simultaneamente debito». La validità della moneta sarebbe attribuita dalla promessa dell’emittente di accettarla indietro in pagamento del debito con lui contratto. In questo Ingham si ricollega a Knapp ed afferma che «dichiarando cosa accetterà per l’estinzione di un debito fiscale, misurato dall’unità di conto agli uffici della riscossione pubblica, lo Stato crea moneta».

In realtà, attualmente, la moneta non è emessa dallo Stato ma dalla Banca Centrale che la emette, appunto, come una passività ma senza contropartita, perché priva di copertura aurea. La dottrina mainstream tenta di spiegare l’arcano parlando, per la moneta central-bancaria, di “debito inesigibile”, concetto che giuridicamente è un non-senso, una mostruosità giuridica. Quindi cosa attualmente sarebbe realmente “promesso” all’utilizzatore, ossia al popolo, dalla Banca Centrale emittente, se non il nulla? Auriti spiega che la Banca Centrale, emittente indipendente dallo Stato, sotto la parvenza del “debito inesigibile” o della “apparente cambiale”, in realtà si appropria, emettendo la moneta falsamente in forma di credito, ossia di presunta passività, del “valore indotto” creato dalla cooperazione tra Autorità Politica e Popolo. Quindi, a meno di non ricadere nella dottrina classica del metallismo che vorrebbe il ritorno alla copertura aurea, è necessario piuttosto denunciare che attualmente non è, come dovrebbe essere, lo Stato a creare moneta ma la Banca Centrale, la quale non crea moneta “promettendo” qualcosa ma imponendo, pur sotto una formale veste legale, l’uso di un simbolo che però assume validità esclusivamente sulla base della contemporanea convergenza giuridico-genetica tra la sanzione normativa-fiscale statuale e l’accettazione fiduciaria popolare, defraudando, in tal modo, sia lo Stato sia il popolo non solo delle risorse in termini di “valore indotto”, così create a beneficio della Comunità politica, ma anche del controllo e del governo di tali risorse.

Un limite, invece, nella tesi di Auriti sta nel fatto che egli non prendeva in considerazione a sufficienza l’esistenza di altre forme di moneta, diversa da quella legale, ad iniziare dalla moneta bancaria, creata mediante l’apertura dei fidi. Auriti, infatti, su questo punto seguiva l’idea neoclassica per la quale, essendo i depositi a creare i prestiti, le banche non dovrebbero prestare più di quanto effettivamente possiedono, in cassa, in moneta legale. Anche se con riferimento alla Banca Centrale in ordine all’emissione della moneta legale, per Auriti resta intoccabile il principio per il quale chi emette moneta non può prestare. Ma questo principio, a parte il caso dell’Istituto di Emissione della moneta legale, ha radici nello schema neoclassico costituendo il presupposto teoretico per il quale i depositi precedono i prestiti. Maurice Allais, un “viennese” poco ortodosso, prescrive la stessa ricetta: i prestiti non devono essere quantitativamente superiori ai depositi.

Ma la realtà del funzionamento del sistema bancario non è più quella immaginata da Auriti e Allais e che corrispondeva ad una epoca, quella della moneta di conio metallico, storicamente superata. Anzi, a ben vedere, anche in quell’epoca, le banche non hanno mai funzionato limitando la loro attività a quanto preventivamente raccolto in termini di depositi monetari, aurei o cartacei. E questo non per una truffa o un complotto, benché truffe e complotti ci siano stati (un solo esempio: lo scandalo, a fine ottocento, della Banca Romana), ma per la spinta endogena delle necessità dell’economia di mercato che ha bisogno, per funzionare nella sua forma capitalista ossia moderna, di maggiori quantità di liquidità e quindi di superare la deflazione naturale dell’oro o quella  monetarista della restrizione legale della base monetaria cartacea. Riconosciuta questa esigenza endogena dell’economia moderna, il punto politicamente cruciale sta piuttosto nel sorvegliare continuamente e provvedere costantemente a che la “creatio ex nihilo” di moneta bancaria non si risolvi in speculazione ma svolga una funzione di credito sociale. Questo è il compito più grande che attualmente si richiede allo Stato ma che esso, oggi, non sembra in grado di adempiere essendosi fatto imbragare ed imbrigliare dal potere finanziario apolide e globale.

Lo Stato non è, dunque, l’unico emittente di moneta perché, come detto, anche le banche creano moneta attraverso i prestiti. Tuttavia, secondo Ingham, anche in questo caso è «l’accettazione dello Stato che è decisiva». Ma non viene, poi, meglio spiegato come si fa oggi, posto il potere mondiale della finanza, a rendere effettiva anche nei confronti della creazione bancaria di moneta la sovranità dello Stato. Un punto questo che resta, dunque, aperto a maggiori approfondimenti purché non si cada nelle scempiaggini neo-metalliste, anche nella forma virtuale del bitcoin, o in quelle neoclassiche intese a vietare, invece che ad indirizzare politicamente ossia a scopi socialmente utili alla Comunità politica nazionale, la creazione bancaria di moneta.

Un ultimo aspetto della dottrina mainstream che, secondo la disamina di Ingham, le teorie eterodosse colpiscono duramente è il “principio di neutralità della moneta”. La moneta, infatti, lungi dal non influenzare gli altri parametri dell’economia, svolge un ruolo fondamentale nella determinazione del livello della produzione e del reddito. L’incertezza legata alle aspettative di reddito futuro, che domina nei mercati, accresce la keynesiana “preferenza di liquidità” ovvero la domanda di moneta liquida. L’incertezza sul futuro, soprattutto nei periodi di recessione, aumenta il desiderio di risparmio, contrae, con danno generale, la spesa complessiva nell’economia e quindi deprime la domanda aggregata, la produzione e il reddito. E’ quel che viene definito il “paradosso del risparmio” nel quale consiste la contraddizione tipica del capitalismo. Un paradosso che diventa evidente solo alla luce del riconoscimento del carattere monetario dell’economia capitalista e della creazione di moneta alternativa da parte delle banche.

In sintesi, dunque, la ricostruzione di Ingham porta a concludere che per le teorie eterodosse, che egli racchiude tutte nella definizione di “teoria nominalista”, la moneta è una relazione sociale di credito e debito denominata in moneta di conto ed è un titolo o un credito verso l’emittente: sovrano, sia esso lo Stato o la banca. Viene prodotta e messa in circolazione perché essa ha il potere legale di estinguere qualsiasi tipo di debito, ad iniziare dal debito fiscale ossia dalla tassazione. Lo Stato crea moneta attraverso la spesa pubblica e la distrugge attraverso le tasse. Esso non è, tuttavia, l’unico agente di emissione monetaria perché anche le banche creano moneta in forma creditizia. Ma è sempre la promessa dello Stato di accettarla come mezzo di pagamento per le tasse che attribuisce validità alla moneta creandone la domanda da parte del pubblico. Il valore della moneta non sta nel valore della merce con cui è coniata, metallo prezioso o carta o input informatico che sia.

Tuttavia, alla luce del paradigma auritiano, a dette teorie eterodosse manca ancora un fondamentale passo per giungere alla definitiva scoperta della vera natura della moneta, che se non è merceologica non è, però, neanche creditizia.

Luigi Copertino

 

NOTE

1) Qui dobbiamo infatti rilevare che Ingham sbaglia clamorosamente nell’attribuire ad Aristotele la concezione della moneta come merce, per la quale essa è concettualizzata come “cosa” che agisce quale mezzo di scambio, perché invece per lo Stagirita la moneta è “nomisma”, creazione del Nomos, della consuetudine o della legge. Non dunque merce o cosa.