Addio a chi ci ha insegnato a vivere

di Roberto PECCHIOLI

La vicinanza del Natale dovrebbe stimolare la riflessione, indurre ai bilanci, fermare la corsa insensata del presente e soffermarsi, prendere fiato, guardare indietro per poi proseguire il cammino. Quest’anno più di quelli passati ci mette di fronte a noi stessi. E’ stato l’anno del virus, dei contagi, di un cambiamento repentino e straordinario nel modo di vivere, di essere. Se il mestiere di vivere si imparasse, il tempo del virus dovrebbe essere l’università. Non è così: più di sempre, guardiamo soltanto a noi stessi, alla nostra pellaccia, nel chiuso di casa, nascosti dalla mascherina, in attesa dell’ennesimo bollettino sanitario, verso sera.

E’ stato, ahimè, l’anno in cui ci ha lasciato una generazione intera, quella che ci ha insegnato a vivere.  La gran parte dei morti del maledetto coronavirus sono i nostri genitori e i nostri nonni. Almeno a Natale, almeno da parte di chi ha ancora un cuore e un’anima, vogliamo ricordarli, salutarli, dire loro grazie e chiedere scusa. Grazie per averci accompagnati, sostenuti, educati, grazie per esserci stati, grazie per averci insegnato dei principi e aver dato l’esempio, con semplicità. Idee senza parole, trasmesse quotidianamente, che in gran parte abbiamo disperso. Ecco il primo motivo per chiedere scusa: non siamo stati, non siamo e ancor meno saremo alla vostra altezza. Per di più, con tutta la nostra scienza, tutta la nostra retorica buonista, vi abbiamo lasciato morire soli. Negli ospizi che chiamiamo pudicamente RSA, residenze sanitarie assistite, negli ospedali, nelle case, troppi si sono spenti in solitudine, decine di migliaia di vite si sono chiuse senza il conforto di una mano amica, privati del volto di figli, coniugi, fratelli e nipoti.

Nessun “conforto religioso”, come recitano i necrologi sui muri delle città, spesso senza un funerale, per molti neppure una degna sepoltura. Fosse comuni e la sinistra sensazione, per chi mantiene il senso dell’umana civiltà, che sia stato raggiunto il punto di non ritorno.

Così scriveva G.B. Vico nella Scienza Nuova: “Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consacrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture. (…) Che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ‘l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. “

A chi ha occhi per vedere, il 2020, tempo del Covid 19, sembra l’inveramento del timore del grande napoletano. Il mondo “si infierisce e si rinselva”, ovvero regredisce rapidamente alla ferocia egoista dell’uomo homini lupus. La religione arretra, il rispetto per i morti finisce e il matrimonio è un contratto privato revocabile da cui è assente il progetto di alleanza tra sessi e generazioni, la riproduzione biologica e civile della società.

Se ne è andata soffrendo in solitudine l’ultima generazione che visse ricevendo una tradizione e trasmettendola ai figli. Scusa, scusa davvero, anonimo morto nel 2020, se non abbiamo avuto rispetto per te, se non ti abbiamo tenuto la mano, chiuso gli occhi, sepolto con il rispetto che meritavi. Abbiamo perfino lasciato che tanti, tantissimi, morissero convinti di essere abbandonati. Le ultime figure umane che hanno visto sono state le sagome simili a palombari di medici e infermieri intabarrati nei dispositivi di protezione.

A queste vittime chi scrive dedica un’omelia del suo vecchio parroco, tanti anni fa, in occasione della festa di Ognissanti, non ancora decaduta a Halloween.

Don Adolfo Bellani ricordò non gli eroi della Chiesa, i santi del calendario, Francesco, Chiara o Antonio, ma i suoi genitori. Gente di paese che aveva mandato avanti la famiglia, trasmesso il valore dell’onestà, del sacrificio, del lavoro.

Ci hanno insegnato il mestiere di vivere, ma noi abbiamo rifiutato l’eredità.

Questo è il triste significato delle morti solitarie e lontane mentre da ogni parte si leva il desiderio di dominare non solo la vita, ma anche la morte. Che cosa sono, se non volontà di onnipotenza, l’eutanasia e il suicidio assistito, che affermano di restituire dignità alla morte? E’ in corso – e il virus dovrebbe farcelo notare con forza speciale – una terribile rottura morale, anzi antropologica, esistenziale. Cambiano i fini dello Stato e della stessa comunità: da difendere la vita si passa a essere responsabili della morte inflitta.

Nell’anno che sta terminando è mancato un accompagnamento integrale- sanitario ma anche etico e spirituale- al dolore e alla fine. Segno di una involuzione profonda, che proprio gli anziani morti di Covid riconoscevano e dalla quale ci mettevano in guardia con il loro attaccamento ai valori in cui vissero tante generazioni. Siamo più soli, senza di loro. Perdiamo i punti di riferimento e diventiamo più poveri.  Nelle generazioni falciate dal virus non c’erano né veline né sardine, ma uomini e donne che hanno compiuto il loro dovere. Ricordiamo un insegnamento di un inverno lontano, in un mattino nevoso. Non volevamo andare a scuola, ma c’erano gli esempi silenziosi di papà, tornato dal lavoro notturno impegnato a spalare la neve e della mamma che lo aiutava.

La generazione di anziani falciata dal Covid è l’ultima di quelle che hanno fatto grande l’Italia e trasmesso un benessere che non fu mai povertà morale, generosamente offerto a noi che sprechiamo il lascito ogni giorno. Hanno piantato alberi per un’altra generazione, come chiedeva Cicerone, hanno lavorato e vissuto più per i figli che per se stessi. Noi, quegli alberi li stiamo strappando a uno ad uno con tutte le radici per sostituirli con surrogati artificiali, la corsa del piacere, della carriera, un ridicolo progresso in cui chiamiamo civiltà ogni distruzione dell’eredità ricevuta dal sangue del nostro sangue.

Avevano ancora il senso dell’onore, del decoro e della sobrietà, quei vecchi a cui non abbiamo neppure detto addio. Abbiamo spezzato il filo e non abbiamo nulla da trasmettere ai pochi figli nostri. Neppure il senso della vergogna, la colpa di averli abbandonati dopo averne disperso i principi. A noi capiterà lo stesso: è il giusto testamento della generazione dei colti, degli “esperti”, dei civilizzati, di quelli che si sono emancipati dall’ignoranza dei padri e liberati dalle loro idee e modi di vita. Noi toglieremo il disturbo disperatamente, con un’iniezione in ambiente sterilizzato, dopo aver pagato il ticket. Loro insegnavano il mestiere di vivere, noi quello di morire. Riposino in pace, i vecchi eliminati dal virus, per la gioia dell’INPS e delle spesa sanitaria.

La loro vita non fu una statistica, come è diventata la loro morte.  Ci sarà un vaccino contro l’indifferenza?