A riveder le stelle.

 

di Roberto PECCHIOLI

Ascensore, interno giorno. Un uomo guarda se stesso nello specchio dell’ascensore di casa. Sta iniziando la giornata e non indossa ancora la mascherina d’ordinanza. Osserva il suo viso libero dall’effimero, sedicente “dispositivo di protezione individuale”, simbolo della schiavitù del Mondo Nuovo e si stupisce.

Stupore di trovarsi a tu per tu con se stessi, con il proprio volto e non riconoscersi. Piano terra, l’uomo inforca la mascherina e incede verso un’altra giornata in cui a sera –forse – potrà rallegrarsi di aver conservato la “nuda vita”. Misera vittoria di esistenze orizzontali, impaurite, deprivate di senso, estranee alla trascendenza: corpi fiacchi, occhi miopi con il paraocchi del cavallo a guardare verso il basso, avanti quel tanto per schivare l’ostacolo.

E’ per così poco, per un breve cammino in maschera che siamo venuti al mondo, si domanda l’uomo, una maschera in più nella strada distanziata, viaggiatore a corto raggio con il metro e il disinfettante? Basta, vuole rivedere le stelle.

Dante, sommo poeta e grande filosofo, concluse tutte e tre le cantiche della Commedia con la stessa parola: stelle.

Non è semplice simmetria, o espediente poetico, ma il motivo ideale che attraversa l’intera opera: innalzarsi verso la meta che è il cielo. L’ultimo verso dell’Inferno, il viaggio e l’attraversamento del buio, è “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Non siamo a questo punto, siamo ancora “dentro”, ma il desiderio avanza, brucia come una fiamma che sconvolge il petto.

No, non è l’ansia di gettare la maschera e tornare alle abitudini di prima: quella vita non era “normale”, benché migliore di quella che sopportiamo da oltre un anno. Ma le stelle sono assai lontane. Per rivederle, poi, occorre averle almeno scorte e riconosciute, nel tempo precedente. Sarà lunga la strada; dopo l’inferno, ci vorrà il purgatorio, al termine del quale l’animo sarà forse “puro e disposto a salire a le stelle”. Non osiamo sperare oltre: troppa luce più in alto, dove sta “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

L’uomo dell’ascensore somiglia all’ uomo senza qualità di Robert Musil, per il quale la giornata iniziava così: “sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere “. Mille algide parole scientificamente corrette per dire che era una bella mattina d’agosto. Zarathustra invitava a salire su un alto monte, dove l’aria è più pura e si scorgono le stelle. Ma era un profeta.

Un grande scrittore, Thomas Mann, ambientò nelle Alpi svizzere il grande affresco della società europea alla vigilia della prima guerra mondiale, La montagna incantata.

Vicino alle stelle, al riparo degli echi del mondo, nell’ovattato sanatorio (simbolo di una società infetta più che malata) il razionalista Settembrini e lo strano gesuita diventato hegeliano e marxista Naphta disputano tra loro con sempre maggiore veemenza. La Belle Epoque sta finendo, un mondo si chiude per sempre. In alto, più vicini alle stelle, si osserva più nitidamente il tramonto. Non troppo diverso è il presente, il trapasso dall’umanesimo al post e trans umanesimo, ossia la trasfigurazione della creatura uomo, insoddisfatta di sé e dell’imperfetta creazione. Alla fine, nella Montagna Incantata uno dei personaggi, il giovane Castorp, scende dal monte e si arruola: in qualche modo, vuole cambiare le cose.

Troppo per l’uomo dell’ascensore. Tuttavia si ricorda di un poeta pazzo, che visse per anni lontano da tutti, Friedrich Hoelderlin, Poeticamente abita l’uomo sulla terra, cantò il grande visionario. Sapeva di vivere “nella mezzanotte del mondo”, tenebre senza stelle. Aggiunse però uno straordinario grido di speranza: dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva.

Comprese il messaggio un filosofo dalla voce arcana e potente, Martin Heidegger, che alla poesia dedicò parte della sua riflessione. “Noi abitiamo poeticamente? Probabilmente noi abitiamo in un modo completamente impoetico. Il fatto che abitiamo in modo impoetico, e fino a che punto, lo possiamo esperire in ogni caso solo se sappiamo il poetico. Un rovesciamento di questo abitare impoetico, se e quando accadrà, possiamo sperarlo solo se manteniamo l’attenzione rivolta al poetico.”

Rivedremo le stelle se ne conserveremo la memoria e se le sapremo riconoscere. La contemporaneità nasconde: la bellezza, la trascendenza, la poesia, le stelle. Per questo il principe Myshkyn, “l’idiota“ di Dostoevskij, esclamò che solo la bellezza avrebbe salvato il mondo. Certo non lo salverà la tecnica e tanto meno il Dio vaccino. 

L’uomo dell’ascensore ha i capelli bianchi, ha vissuto abbastanza per vedere troppo e per soffrire. Rifletteva sulle parole di Michel Houellebecq – scrittore francese inviso alla cultura dominante- sull’ eutanasia, che il parlamento della nazione dei Lumi sta iniziando a discutere. Per Houellebecq una civilizzazione che legalizza l’eutanasia perde ogni diritto al rispetto poiché è protagonista di una rottura antropologica senza precedenti. Pertanto, diventa “non soltanto legittimo, ma auspicabile distruggere una società del genere “. Lo scrittore, nel sulfureo romanzo Sottomissione, aveva già chiarito molte cose in un brevissimo brano. “La totalità degli animali e la schiacciante maggioranza degli uomini vivono senza mai provare il minimo bisogno di giustificazione. Vivono perché vivono, tutto qua, è così che ragionano; poi immagino che muoiano perché muoiono, e che questo, ai loro occhi, concluda l’analisi”.

Nuda vita, prolungare l’esistenza biologica come obiettivo massimo da un lato; dall’altro, l’eliminazione di se stessi in quanto malati o sofferenti. Una civilizzazione non può sopravvivere a contraddizioni tanto assolute. L’uomo non è più antiquato, ma inutile: un essere che – ci ordinano – deve essere superato, ibridato e intanto riconfigurato come animale d’allevamento. Zootecnia: tecnica della vita-zòe. Una punturina per nascere (la procreazione assistita), una per campare (i vaccini e gli impianti biometrici sottocutanei, i chip) e, come no, una per morire in ambiente sanificato, igienico e sterile. Sterile come la nostra società-obitorio. Tutto qui la vita, tutto qui l’uomo, l’animale intelligente, tutta qui la scintilla divina?

C’è voluto un anziano filosofo non credente, ma spiritualmente ben vivo come Giorgio Agamben per denunciare il vuoto terminale di una civiltà in cui conta la sola sopravvivenza. Serve un pensiero radicale, l’unico che possa spezzare l’ordine esistente e trasvalutare una seconda volta tutti i (post)valori, scatenare nuove tempeste. Ci vogliono i poeti, gli unici che guardano in alto senza accecarsi e sanno rivedere le stelle, chiedendosi perché esistono e per quale motivo l’uomo prima o poi guarda in alto e si pone la domanda che unisce il filosofo al pastore errante dell’Asia. “E quando miro in cielo arder le stelle, dico fra me pensando: a che tante facelle? Che fa l’aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?”

Camminiamo senza speranza e a testa bassa in un labirinto, eppure cerchiamo quella che Heidegger chiamava “radura”, il luogo illuminato all’interno di un bosco, la dimensione in cui il pensiero e l’essere possono tornare a incontrarsi. Sembra che non sia più così, che l’uomo 2.0 (o Zero tout court) non senta più il bisogno di farsi domande e di osservare le stelle. Solo i poeti ci riescono ancora. Scriveva Khalil Gibran che troppi uomini non muoverebbero un dito per estinguere un mondo né per crearne un altro. Svaniranno come un sole consumato e non esisteranno più, sparendo dalla memoria del tempo nel vuoto dell’esistenza. Ci stanno sequestrando e uccidendo, ci stanno cambiando nel profondo – spirito e corpo – ma che cosa ne pensa l’orgoglioso popolo sovrano? Nulla, guarda la televisione, passivo, in attesa della prossima news.

Maksim Gorkij, poeta sovietico, scrisse: la vita non sarà né giusta né bella, finché i padroni saranno pervertiti dal loro potere e gli schiavi dalla loro servitù. Ma era anch’egli un poeta, il più inutile degli uomini al tempo in cui dominano i barbari. Solo i poeti, pare, si accorgono del loro arrivo. Lo sapeva Kostantinos Kavafis: “Oggi arrivano i barbari. Perché mai tanta inerzia del Senato? E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari. Che leggi devono fare i senatori? Quando verranno, le faranno i barbari.”

E’ esattamente ciò che sta accadendo: la transumana disumanità avanza con il nome accattivante di progresso, modernità, liberazione. I barbari sdegnano la retorica e le arringhe: semplicemente, agiscono. Come il diavolo di Baudelaire, la cui massima astuzia è farci credere nella sua inesistenza, anche i barbari vincono con l’inganno. Ci hanno fatto credere di non essere venuti, nel momento in cui hanno conquistato il trono e i palazzi. “S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente.” Era una soluzione, sì, perché i barbari ci permettono di identificarci: “loro” e “noi”. Non è più così, nessuno guarda più le stelle, se non con gli occhi dell’astrofisica. I marziani sono arrivati e nessuno ci fa più caso. Marziani siamo diventati noi.

Solo i poeti, ormai, riconoscono i segni e i simboli. Per tutti gli altri vale la divina indifferenza (E. Montale) o la spento incedere di Camillo Sbarbaro: “camminiamo io e te come sonnambuli. E gli alberi son alberi, le case sono case, le donne che passano son donne, e tutto è quello che è, soltanto quel che è. La vicenda di gioia e di dolore non ci tocca. Perduta ha la sua voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto. Nel deserto
io guardo con asciutti occhi me stesso. “

Me stesso. Io, l’unico che importi. Per cambiare il mondo bisogna guardarlo con lo stesso stupore con cui osserviamo le stelle: a questo servono i poeti. Lo intuì un politico che delle stelle parlò nel suo discorso più famoso e che sentiva nell’anima il respiro di Dio. Infatti lo fucilarono. Era Josè Antonio Primo de Rivera, per tutti Josè Antonio.

Nel 1929, nel mezzo di un lungo periodo di odio che porterà alla guerra civile spagnola, nel suo primo importante discorso pubblico, dichiarò la sua ammirazione e amore per i fratelli Machado, poeti andalusi. Manuel era nazionalista, Antonio repubblicano e comunista, ma entrambi sapevano guardare le stelle. Josè Antonio, nel celebre discorso al Teatro de la Comedia a Madrid nel 1933, dichiarò che la sua creatura politica, la Falange, era “un movimento poetico”.

A parte la fame, solo i poeti muovono i popoli, o almeno quelli che hanno saputo serbare il linguaggio antico e nobile in cui il Bene è Bellezza e la Bellezza è Bene, la voce comune che racconta l’origine della comunità umana e il suo destino sacro. La battaglia contro i poeti non è nuova: la nascita del razionalismo, in Grecia, fece sì che dallo Stato ideale platonico i poeti fossero espulsi: superstiziosi, mistici e ciarlatani. Eppure nell’uomo dormono forze superiori alla nuda ragione strumentale, l’amore come servizio e donazione, il senso di appartenenza, la capacità di gesti altruistici e persino l’eroismo. La nobiltà non è nuda vita: significa sacrificio, volontà di guardare in alto, oltre il tornaconto e la materia. Goethe ricordava che l’animo nobile aspira a un ordine e a una legge. Vivere a proprio gusto è da plebei.

I plebei non levano lo sguardo verso le stelle, come lo sciocco non guarda la luna, ma il dito che la indica.  La nobiltà obbliga al coraggio, all’affermazione della verità, alla difesa dei deboli e alla magnanimità, virtù che accompagnarono la breve avventura terrena di José Antonio. Egli intuì che le trincee della politica moderna erano e sono linguistiche. Nelle distopie di Huxley e Orwell il dominio delle masse si realizza trasformando il linguaggio in strumento di persuasione tirannica, ipnosi di massa.

C’è qualcosa di più contemporaneo? Un bombardamento di informazioni futili, flash continui che disorientano e addormentano, un annientamento progressivo del pensiero critico che ci costringe ad essere meri recettori della propaganda del potere, una valanga orizzontale che nega ogni tradizione e proibisce di levare in alto il cuore e lo sguardo, rinchiudendo l’uomo massa in presente tumefatto e crepuscolare. La parola poesia viene dal greco “poiesis”, creazione. Il poeta è ferito dalla saetta di Zeus; è colui che è capace di “restare nudo davanti alle tempeste di Dio per offrire al popolo il lampo in forma di canto “, nei versi si Hoelderlin.

Il paradigma moderno, radicalmente materialista nelle declinazioni liberale e marxista, vuole ridurre il pensiero a calcolo razionale di profitti e perdite, disconnettendo il bene comune dal sentimento comunitario, sostituito dall’inesistente “mano invisibile “del mercato o dall’equivoca volontà generale di Rousseau, il vero fondatore della modernità. I poeti non hanno il diploma di ragioniere, gente che si considera concreta perché non guarda le stelle e spesso non vede oltre la punta delle scarpe. L’ essere umano è di più. E’ il depositario non del tempo orizzontale che chiamano progresso, ma del tempo verticale del poeta e dell’eroe, che sanno unire la terra al cielo.

Perciò, la rivoluzione (revolvere nel senso di ristabilire, ripristinare) non può essere solo politica o sociale, ma innanzitutto antropologica. Liberare il destino dell’essere umano (la persona!) la comunità e la storia dai falsi idoli di un tempo che avvelena tutto, per restituire all’uomo il suo vero posto nel mondo, fuori, sotto le stelle. Alle novità pensate per distruggere, vanno opposte verità antiche per ri-costruire.

Nel “discorso delle stelle” così parlò José Antonio: “Dobbiamo dare avvio alla costruzione di un ordine nuovo cominciando dall’uomo, dall’individuo. Dobbiamo cominciare dall’uomo e procedere mediante unità organiche. Saliremo così dall’uomo alla famiglia, dalle famiglie al municipio e quindi al sindacato, per culminare nello Stato che sarà l’armonia di tutto”.   Un ordine di idee che lo condusse a combattere una falsa democrazia, laboratorio di dissoluzione. “Il suffragio, questa forza dei pezzetti di carta introdotti in un’urna di vetro, ha la virtù di dirci in ogni momento se Dio esiste o non esiste, se la verità è la verità o non lo è, se la Patria debba esistere o se sia preferibile che in un dato momento si suicidi”.

Concluse così: “Noi non vogliamo disputare agli abitudinari i resti insipidi di un sudicio banchetto. Anche se talvolta transitiamo per quei luoghi, il nostro posto è fuori di là. Il nostro posto è all’aria aperta, sotto la notte limpida, arma al braccio e nel cielo le stelle. Che continuino gli altri nei loro festini. Noi, fuori, in vigilanza attenta, fervida e sicura, già presentiamo l’alba nell’allegria dei nostri cuori”. Usciamo a riveder le stelle.