STORIA DI UN “DIVORZIO”, DELLE SUE CIRCOSTANZE E DELLE SUE CONSEGUENZE – di Luigi Copertino

STORIA DI UN “DIVORZIO”, DELLE SUE CIRCOSTANZE E DELLE SUE CONSEGUENZE

 

Nel luglio del 1981 il Ministero del Tesoro “divorziava” dalla Banca d’Italia. Tuttavia le conseguenze di tale evento non si resero immediatamente palesi né nell’immediato si registrò una traumatica rottura della precedente prassi di monetizzazione del fabbisogno statale da parte della Banca Centrale

Il cosiddetto “divorzio” va inquadrato nello scenario internazionale a cavallo tra il decennio ’70 ed il decennio ’80 del secolo scorso nel quale, ormai egemone il monetarismo, ovunque, anche sulla base di accordi e trattati appositamente stipulati, al precedente indirizzo keynesiano della politica economica andava subentrando un indirizzo neoliberista destinato a sconquassare lo Stato sociale ed ad aprire la via per il ritorno della deflazione che oggi sta devastando l’economia globale. Il percorso allora avviato sarebbe culminato in Europa con l’introduzione, nel 2002, della moneta unica, l’euro, la quale comportò l’abdicazione definitiva dell’autonomia nazionale di spesa degli Stati sovrani in favore di una eurocrazia bancocratica a dominio tedesco.

Prima del “divorzio” la Banca Italia era obbligata ad acquistare in asta primaria (cioè in prima emissione) tutti i titoli che il Tesoro non era riuscito a collocare sul mercato. In tal modo la Banca Centrale da un lato finanziava lo Stato, con nuova moneta emessa dal nulla, e dall’altro, con la sua partecipazione alle aste dei titoli, consentiva di mantenere bassi i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico.

Questo stretto rapporto tra lo Stato e la sua Banca Centrale era il risultato di un lungo percorso storico, contrassegnato anche dalla lezione di dolorose esperienze come quella della crisi del 1929, al termine del quale si era stabilito un ponderato equilibrio tra la prioritaria istanza statuale alla conservazione della propria sovranità monetaria e la necessità di contemperare detto potere sovrano con l’apporto di non evitabili competenze tecniche che solo i banchieri centrali assicuravano nella gestione dell’emissione monetaria. Infatti, in linea di principio, un governo sovrano non sarebbe affatto obbligato ad emettere titoli per finanziarsi, potendo emettere direttamente moneta di Stato, segni monetari cartacei di Stato. La prassi di vendere titoli alla propria Banca Centrale fu introdotta, almeno ufficialmente, per le appena dette ragioni di tecnicalità e professionalità.

Tuttavia nel corso degli anni ’70 il nuovo paradigma monetarista, riesumando la vecchia teoria quantitativa della moneta, riuscì ad imporsi perché dava una apparente spiegazione delle cause dell’alta inflazione di quel periodo (si trattava, in verità, di inflazione da costi e non da eccesso di moneta), erroneamente individuandole nelle politiche keynesiane di spesa pubblica facilitate dallo stretto controllo del Tesoro sulle operazioni della Banca Centrale. Da qui il “divorzio” del 1981 che, in Italia, imitava analoghe decisioni già prese negli Stati Uniti ed in altri Stati occidentali.

Nell’anno precedente, il 1980, il nuovo governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi, nella sua  “Relazione Annuale” aveva già suggerito come cura dell’inflazione l’applicazione di una politica monetaria restrittiva. Ciampi faceva leva sul fatto che, in previsione di una futura moneta unica, nel 1979 erano stati sottoscritti accordi di cambio semi-rigido tra le valute europee. Si trattava del cosiddetto Sistema Monetario Europeo (SME),  popolarmente conosciuto come “serpente monetario”. Il progetto di Ciampi, tenace assertore della concezione quantitativista, era quello per cui mediante la ferrea applicazione degli accordi dello Sme l’Italia avrebbe ridotto il gap inflazionistico con gli altri partner europei. In realtà l’inflazione era già in discesa sin dallo stesso 1979 per via dell’allentamento della stretta petrolifera, che era conseguita ai conflitti arabo-israeliani a partire da quello del 1967, la quale aveva innalzato i costi delle materie prime innescando l’alta inflazione registratasi nel decennio ’70. Quindi il cosiddetto “divorzio” tra Stato e Bankitalia non produsse alcun determinante effetto sul processo di disinflazione che era dovuto ad altre cause, trascurate dall’ortodossia quantitativistico-monetarista.

Il “divorzio” tra Banca Italia e Ministero del Tesoro fu sancito senza alcuna delibera parlamentare ma con un semplice scambio di lettere, tra l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi. Da quel momento la nostra Banca Centrale non fu più costretta ad acquistare in asta primaria i titoli invenduti.

In realtà, però, la rottura non fu affatto immediata ma graduale. Nessuno, infatti, impediva alla Banca Italia di continuare ad intervenire nelle aste, come in effetti essa fece quando lo ritenne necessario per il raggiungimento degli obiettivi della sua autonoma politica monetaria o perché richiesta – leggasi “supplicata”, giusto per dare comunque il senso dell’intervenuto inversione nel rapporto di potere tra Stato e Banca Centrale – dal governo.

Fino al 1988 la Banca Italia continuò ad acquistare sul mercato primario tutti i titoli invenduti del Tesoro ma – e qui stava già una prima differenza – solo nella misura che essa voleva o reputava necessaria per mantenere il tasso di interesse entro i limiti previsti dagli accordi dello Sme.

Gli studi di statistica economica, del periodo, dimostrarono che gli acquisti di titoli di Stato sul mercato primario da parte della Banca d’Italia diminuirono rapidamente a partire dal “divorzio” pur tuttavia non scomparendo ed anzi rimanendo di una certa entità per l’intero decennio ‘80. Addirittura tra il 1981 ed il 1984 detti acquisti furono persino superiori a quelli registrati nel precedente periodo 1977-1980.

Lo Stato italiano, negli anni ’80, possedeva inoltre un Conto Corrente di Tesoreria sul quale poteva ottenere, sempre da Bankitalia, finanziamenti allo scoperto per un importo massimo del 14% delle previsioni di spesa pubblica. Dopo il cosiddetto “divorzio” tale limite fu addirittura aumentato. Insomma, nonostante il “divorzio” non si era ancora entrati completamente nella spirale dell’indebitamento sui mercati finanziari e lo Stato possedeva ancora qualche residuo potere sovrano, benché la strada della sua sottomissione ai mercati fosse ormai segnata.

Fino al 1981 la Banca d’Italia partecipava all’asta dei BOT con una richiesta pari all’intero ammontare della tranche emessa. Con il “divorzio” il Tesoro si trovò immediatamente in difficoltà nel collocare sul mercato finanziario, ad un nomale tasso sostenibile, la quantità di titoli di Stato necessari a coprire il fabbisogno del bilancio pubblico. Diventò subito chiaro che il “divorzio” stava producendo un grave squilibrio delle operazioni della tesoreria statale.

Nel 1982 la situazione si aggravò dal momento che per il Tesoro si dimostrò impossibile  collocare tutti i titoli di Stato senza sottostare alla richiesta, quale corrispettivo, di un tasso di interesse reale. A settembre di quell’anno la situazione si fece drammatica con la conseguenza che la Banca Centrale dovette attivare, sul conto corrente di tesoreria, finanziamenti allo scoperto i cui  rientri avvennero, poi, con estrema difficoltà, mediante l’incasso degli aumentati introiti fiscali. Il fisco da prelievo per sopperire ai costi dei servizi pubblici iniziava a diventare quel che è oggi ossia lo strumento per ripagare gli alti tassi di interesse praticati dai mercati finanziari o come si dice in gergo “servire il debito”, che in altri termini può tradursi come condanna del popolo italiano a lavorare per pagare gli usuraici interessi ai fondi di investimento (rectius, di speculazione). Nell’immediato, però il Tesoro non era in grado di far rientrare lo scoperto sul conto di tesoreria, sicché divenne con urgenza necessaria una anticipazione straordinaria da parte della Banca d’Italia, che il Parlamento votò per un importo di ottomila miliardi di lire per dodici mesi al tasso agevolato dell’un per cento. Negli anni successivi gli stanziamenti straordinari, resisi necessari a causa del “divorzio”, raggiunsero la cifra di oltre 70 mila miliardi di lire nel 1993, anno della abolizione anche della pratica delle anticipazioni straordinarie sul conto corrente di tesoreria. In quel momento il debito monetario del Tesoro verso la Banca d’Italia, accumulato come saldo passivo sul conto corrente di tesoreria, ammontava a 76.206 miliardi di lire. Esso fu trasformato in titoli di Stato assegnati all’Istituto di emissione, di durata variabile e cedole annuali (1).

Dunque la spesa a deficit, da parte del governo, non si ridusse affatto dopo il luglio del 1981. Fino al 1984 la vendita di titoli di Stato alla Banca Italia aumentò e il successivo abbandono di questa pratica trovò momentanea compensazione nell’aumento del limite di deficit consentito sul Conto Corrente di Tesoreria. La spesa a deficit sul PIL nel corso degli anni ’80 fu molto elevata fino a raddoppiare nel decennio successivo. Basta fare un confronto tra il 1980 ed il 1993, secondo i dati Ameco e del Fmi. In termini percentuali, nel 1980 gli indici della nostra economia nazionale erano i seguenti: rapporto debito/pil al 56,86, rapporto deficit/pil al 6,97, inflazione al 21,80, pil reale a 3,43 e la disoccupazione al 7,1. Nel 1993 gli indici erano questi: rapporto debito/pil al 115,66, rapporto deficit/pil al 10,03, inflazione al 4,50 ma con un crollo del pil reale a -0,89 ed un aumento della disoccupazione al 9,8.

Da questi dati viene evidenziato che a dispetto degli obiettivi che Ciampi sperava di conseguire, sulla base della sua visione neoclassica, la spesa in deficit dello Stato, ossia, visto dall’altro lato, l’attivo del settore privato, aumentò dopo il divorzio. Ma soprattutto è evidenziato che l’inflazione scese in misura notevole nonostante la massiccia iniezione di liquidità registratasi con le anticipazioni straordinarie della Banca d’Italia negli anni ’80. Secondo la teoria neoclassica e quella monetarista, questa massiccia iniezione di liquidità avrebbe dovuto far schizzare alle stelle l’inflazione. Accadde, invece, il contrario. Questo dimostra che le cause dell’inflazione, non solo in quelle circostanze storiche ma anche più in generale, non risiedono nella quantità di moneta e titoli similari in circolazione ma in altri fattori. L’inflazione può essere di volta in volta causata da domanda superiore all’offerta o da alti da costi di produzione o da pesi fiscali in eccesso. Tuttavia i dati sopra riportati evidenziano anche un’altra cosa ossia che il contenimento dell’inflazione, dovuto non alla politica monetaria restrittiva ma al superamento della crisi petrolifera degli anni ’70, non comportò affatto un miglioramento dell’economia nazionale, la quale anzi, guardata sotto il profilo dell’aumento della disoccupazione, peggiorò progressivamente.

Ma c’è anche un’altra questione: nonostante che l’acquisto di titoli di Stato da parte della Banca Centrale italiana continuasse per tutto il decennio ottanta, fino ad aumentare, i tassi di interesse, anziché diminuire o mantenersi costanti, ebbero un forte impennata verso l’alto. Subito dopo il “divorzio” lo Stato iniziò a pagare alti tassi di interesse. Sicuramente perché i mercati li pretendevano ma molto più certamente a causa della liberalizzazione finanziaria all’epoca in atto.

Durante gli anni ’80, infatti, da un lato ebbe iniziò la progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale e dall’altro, con l’introduzione del Sistema Monetario Europeo (SME), si imposero vincoli esteri legati al cambio semifisso con le altre valute europee. A questo devono aggiungersi altri elementi che caratterizzarono il contesto internazionale nel quale maturò il “divorzio”. A partire dal 1979, con Reagan al potere e Volcker alla Fed, la politica monetaria statunitense, nell’intenzione vana di contenere con tali mezzi l’inflazione, diventò restrittiva. Si pose sotto stretto controllo la base monetaria legale causando, però, l’innalzamento immediato dei tassi di Interesse, tanto a breve quanto a lungo termine (2).

Nel 1989, poi, intervenne un altro evento determinante: la riunificazione tedesca a seguito dell’abbattimento del muro di Berlino e la fine del sistema sovietico nei Paesi dell’est europeo. La riunificazione comportò un massiccio aumento dei trasferimenti e degli investimenti dall’Ovest verso l’ex Germania dell’Est. Questa operazione politica andò ad impattare con la cultura ordoliberista dominante, nel mondo industriale e finanziario, oltre-reno. L’ordoliberismo tedesco, infatti, per strabiche ragioni storiche, che guardano soltanto all’alta inflazione degli anni ‘20 e non anche alla gravissima deflazione degli anni ‘30 che consentì l’ascesa del nazismo (mentre nel decennio precedente, caratterizzato dall’alta inflazione, il tentativo di putsch organizzato nel 1923 da Hitler e von Ludendorff fallì miseramente), individua nell’inflazione il pericolo assoluto da evitare ad ogni costo, ritenendone, oltretutto, l’eccesso di circolante quale causa principale se non esclusiva. Su questa base culturale, la Bundsbank, intimorita dal massiccio profluvio di liquidità innescato dalla riunificazione, indurì ancor di più la sua tradizionale politica monetaria restrittiva, aumentando il tasso di sconto ossia il costo del denaro. Tutta questa serie di concomitanti fattori internazionali spinse il livello dei tassi di interesse verso quello del Paese leader, ossia gli Stati Uniti fino al 1990 e poi, mano a mano che progrediva il progetto monetario eurocratico, la Germania nell’eurozona. L’Italia, a causa dell’obbligo incautamente assunto di mantenere il vincolo esterno del cambio semi-flessibile, senza compensazioni tra bilance dei pagamenti e bilance commerciali, restò schiacciata prima dagli alti tassi di sconto americani e poi da quelli, altrettanto alti, della Germania.

Il “divorzio”, nello scenario post-keynesiano inaugurato da Reagan e dalla Thatcher, ha certamente dato un forte contributo al processo di reimpostazione neoliberista dell’economia italiana ma, d’altro canto, anche laddove non ci fosse stato alcun “divorzio”, la politica monetaria restrittiva praticata nel decennio ‘80 da Bankitalia avrebbe comunque trovato la sua necessità nel contesto internazionale generale improntato a politiche di austerità conseguenti ad accordi tendenti a stabilire vincoli esterni attraverso l’imposizione di cambi monetari semi-rigidi.

Con riferimento ad una unità di conto, chiamata Ecu, determinata dal valore medio dei cambi del paniere delle monete aderenti, il Sistema Monetario Europeo stabiliva il mantenimento della parità di cambio all’interno di una fascia di oscillazione fissata in generale tra il ±2,25% con le sole eccezioni di Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo per i quali l’oscillazione fu fissata tra il ±6%, in considerazione delle diverse condizioni di questi Paesi rispetto a quelli nord-europei. Gli Accordi dello Sme prevedevano che in caso di rivalutazione o svalutazione eccessiva di una moneta rispetto alle altre, le autorità monetarie nazionali dovevano intervenire mediante politiche monetarie atte a ristabilire l’equilibrio di cambio entro la fascia di oscillazione stabilita.

Tuttavia, al di là del margine di flessibilità del meccanismo, l’Italia, aderendo allo Sme, assunse l’onere di mantenere il tasso di cambio nominale entro i parametri di oscillazione, stabiliti dagli accordi, mentre il tasso di cambio reale, quello di mercato e quindi sensibile all’inflazione, rimaneva libero producendo inevitabilmente forti squilibri. Questo accadde perché, in un sistema a cambi fissi senza meccanismi di compensazione delle bilance commerciali e dei pagamenti, come era lo Sme, i Paesi con più alta inflazione finiscono prima o poi per subire un aumento del tasso di cambio reale (che è il rapporto tra il tasso di cambio nominale e l’inflazione) con conseguente perdita di competitività dei propri beni dato che se, sul mercato monetario, il valore della moneta è rigido, la più alta inflazione rende più alti i prezzi dei prodotti nazionali all’estero.

Accettando un tasso di cambio fisso, ed a maggior ragione una moneta unica, senza un meccanismo di compensazione tra deficit e surplus finanziari e commerciali, lo Stato si priva di un’arma efficacia per correggere gli squilibri commerciali. Il Paese che, vincolato da accordi sul cambio rigido, ha un consistente deficit estero, come avviene se il cambio non può svalutarsi incrementando di conseguenza le importazioni a svantaggio delle esportazioni, è costretto, contro sé stesso, a difendere ad ogni costo il cambio, onde impedire che una eccessiva offerta sui mercati esteri possa comportare la svalutazione della propria valuta a fronte di un’offerta superiore alla domanda. La difesa coatta del cambio può avvenire soli in due modi: o attraverso la vendita delle riserve di valuta estera, ossia acquistando sul mercato monetario mediante quella estera la propria moneta, per difenderne il valore (esattamente quel che provò, inutilmente, a fare Ciampi, fino ad esaurimento delle nostre riserve in marchi tedeschi, nel 1992 durante i mesi dell’attacco speculativo portato dal fondo di George Soros alla lira), o aumentando il tasso d’interesse perché un più alto tasso di interesse induce gli investitori esteri a domandare più moneta nazionale allo scopo di acquistare i bond di Stato che, a tassi più alti, sono più redditizi. Quindi è evidente che accettando un cambio monetario rigido, lo Stato rigetta anche la possibilità di controllare il tasso di interesse interno che così aumenta inesorabilmente, come è appunto accaduto all’Italia negli anni ’80.

Il Paese più debole in un sistema di cambi fissi è, inoltre, costretto ad inseguire l’andamento del tasso di interesse estero, che dipende dal valore della valuta estera alla quale si è ancorato, diventando uno Stato senza sovranità monetaria, uno Stato a moneta non sovrana perché in pratica usa una moneta estera.

In qualsiasi sistema di tassi di cambio fissi come era lo SME, nessuno dei Paesi aderenti può cambiare il suo tasso di interesse se anche gli altri Paesi non fanno lo stesso. Sicché qualsiasi accordo sul cambio monetario può contemplare soltanto due metodologie per governare i tassi di interesse. La prima consiste nella coordinazione delle variazioni dei tassi di interesse tra tutti i Paesi aderenti al cambio fisso. L’altra consiste nell’iniziativa unilaterale del Paese egemone e nell’obbligo degli altri a seguirlo sul livello di tasso da esso imposto. Nell’ambito prima dello Sme ed ora dell’Unione Monetaria Europea la forza della Germania e la debolezza politica degli altri Paesi, in particolare di quelli mediterranei che non sono stati capaci di trovare una alleanza tra essi in funzione di contenimento dello strapotere tedesco, si è catastroficamente attuata la seconda, deleteria, strategia.

Questa strategia, nel corso degli anni Ottanta, riuscì ad affermarsi perché le Banche Centrali europee condividevano con la Bundsbank una visione austera, derivante dalla cultura ordoliberista e da quella neoclassica e monetarista. In altri termini, le altre Banche Centrali, negli anni ’80, avevano gli stessi obiettivi di politica monetaria restrittiva della Bundesbank, sicché che fosse la Banca Centrale tedesca a prendere l’iniziativa riguardo il livello dei tassi di interesse non comportava resistenze da parte delle altre. Solo con l’unificazione della Germania, dopo il 1989, gli obiettivi della Bundesbank e quelli delle altre Banche Centrali dello Sme divaricarono a causa del forte giro di vite che la prima diede alla politica monetaria, aumentando oltre modo i tassi di interesse, al fine di contenere i presunti effetti inflazionistici che il massiccio investimento di risorse verso l’ex Germania dell’Est avrebbe dovuto comportare.

Accadde che, grazie alla forte spesa pubblica di investimento, la Germania conobbe una formidabile crescita ma contemporaneamente la Bundesbank, indipendente dal governo tedesco nelle sue decisioni di politica monetaria, impose un rapido aumento dei tassi di interesse che costrinse gli altri Paesi dello Sme ad adeguare i loro tassi di interesse a quelli tedeschi anche se non avevano registrato la stessa crescita economica. Se, dunque, per la Germania quel tipo di politica poteva funzionare, per gli altri si rivelò disastrosa. Ieri, nello Sme, come oggi, nella moneta unica, è ormai chiaro a tutti che è l’interesse nazionale tedesco quello che guida le scelte di politica monetaria e di politica economica. Le altre nazioni europee sono attualmente vassalle, colonie, della potenza tedesca. La Germania, negli ultimi cento anni, ha provato inutilmente e catastroficamente per ben due volte ad imporsi con le armi, senza riuscirvi. Mediante la moneta unica, che altro non è che il vecchio marco tedesco sotto falsa identità europea, essa ha ora imposto la propria egemonia, applicando la dottrina dell’“imperialismo economico” che, inascoltati, gli industriali tedeschi avevano suggerito, nel 1914, al Kaiser di perseguire al posto di quella bellica.

Per l’Italia l’adesione allo Sme, ed il conseguenziale aumento dei tassi d’interesse, produsse, come si è visto sopra, un maggior fabbisogno finanziario del Tesoro con escalation del debito pubblico. Gli alti tassi di interesse necessari a difendere il cambio nell’intenzione di favorire l’afflusso di capitali esteri, che però significa maggiore indebitamento verso l’estero, ha finito per comprimere la produttività nazionale mandando a rotoli l’economia italiana.

L’insostenibilità, sempre più evidente, del sistema di cambi semi-fissi dello Sme spaventò i mercati che temevano lo sfaldamento degli accordi di cambio in Europa e quindi le conseguenti svalutazioni monetarie. Fu così che nel 1992, i mercati finanziari iniziarono a pretendere tassi di interesse maggiori sia sul mercato monetario sia per l’acquisto dei titoli di Stato dei Paesi dove la svalutazione era considerata maggiormente probabile, ossia Italia ed Inghilterra. Le danze, con chiaro intento speculativo, furono aperte, come ricordato, da Georges Soros che aggredì speculativamente proprio lira e sterlina. Ciampi bruciò le riserve in marchi della Banca d’Italia in una inutile resistenza a Soros che vendeva massicciamente lire contro marchi per svalutare la nostra divisa con l’obbiettivo di lucrare sulla differenza di cambio. In mancanza di un coordinamento serio tra i Paesi dello Sme, tale da imporre un intervento tedesco per acquistare lire contro marchi (solo la Bundesbank avrebbe potuto stampare marchi nella quantità necessaria a fermare Soros ma non lo fece, né mai lo avrebbe fatto, dato che la sua dirigenza era, ed è, convinta che la liquidità produce inflazione), l’Italia nell’autunno del 1992 dovette uscire dallo SME, presto imitata dal Regno Unito.

Il nostro sganciamento dallo SME dimostrò quanto l’ortodossia economico-monetaria negava. Infatti l’abbandono del cambio semi-fisso finì per calmierare la dinamica espansiva dei tassi. Questi a partire dal 1992 cominciarono la loro discesa con grandi benefici per il nostro Paese. Infatti la minore spesa per interessi favorì il rientro del debito pubblico. Da 120 punti nel 1994 il nostro debito pubblico diminuì fino a 103 nel 2003 (3). La discesa del tasso di interesse evidenziò, pertanto, quale fosse in realtà la causa degli alti tassi di interesse registrati in Italia nel decennio ’80, inaugurato con il “divorzio”. Alla radice dell’esponenziale aumento degli interessi sul debito nazionale – che in sostanza si traduceva sic et simpliciter nell’aumento del debito pubblico – vi era il vincolo esterno conseguente alla rinuncia da parte dello Stato alla sovrana monetaria in assenza di un quadro normativo tale da contemplare tanto una stanza di compensazione tra deficit e surplus commerciali e finanziari quanto un efficace coordinamento tra autorità monetarie nazionali in funzione anti-speculativa.

Affinché una moneta sia sovrana, ossia appartenente ad uno Stato, devono sussistere le seguenti condizioni:

  • assenza di valore intrinseco quindi sua inconvertibilità in oro o altra materia sottostante, dato che il valore, ossia il potere d’acquisto, è incorporato nel simbolo monetario, metallico, cartaceo o di altra consistenza, esclusivamente dalla decisione dello Stato (corso legale) quale espressione normativa dell’accettazione popolare fiduciaria,
  • statualità ossia la moneta deve essere monopolio, diretto o indiretto mediante una Banca Centrale rigorosamente pubblica ovvero a capitale esclusivamente pubblico, dello Stato o comunque dell’Autorità politica, nelle sue varie forme storiche, che è la sola ad avere, per diritto naturale, il potere di emetterla legalmente,
  • esistenza di un tasso di cambio fluttuante, sicché la valuta viene scambiata con altre monete a un tasso stabilito dal mercato come incontro di domanda-offerta senza essere convertibile con altre in un rapporto fisso, oppure, in alternativa, esistenza di un rapporto semi-rigido di cambio all’interno, però, di un quadro giuridico di tipo confederale che contempli periodiche compensazioni tra i surplus ed i deficit commerciali-finanziari degli Stati confederati e, soprattutto, un efficace coordinamento anti-speculativo tale da imporre alle autorità monetarie nazionali di intervenire in soccorso di quella la cui divisa fosse sotto attacco speculativo allorché quest’ultima esaurisca le riserve valutarie nelle divise estere interne alla Confederazione.

Nel decennio ’80, non sussistevano le condizioni di cui ai punti 2) e 3). Sicché quando Bankitalia, nel tentativo di combattere l’attacco speculativo, esaurì le riserve in marchi non ci fu alcun intervento della Bundesbank, l’unica a poter emettere marchi per acquistare lire contro marchi in modo da sostenere il valore della nostra moneta creando, in quel momento, i presupposti affinché essa restasse nel sistema monetario europeo e si tagliassero, così, le unghia rapaci della speculazione.

Ma il dogma ordoliberista che presiedeva, e presiede, alla governance della Bundesbank – un dogma, come detto, formatosi nella convinzione che stampare moneta crea inflazione – ha impedito che lo Sme funzionasse come un serio e solidale accordo confederale mentre si andavano ponendo le basi della futura moneta europea unica concepita quale strumento di rigore ad ogni costo, fino alla deflazione, e come strumento di dominio per le esportazioni tedesche nel mercato europeo.

C’è però ancora di più da dire. Abbiamo visto che l’inflazione degli anni ’70 cominciò la sua discesa già prima del 1981 e quindi anche prima della progressiva abolizione della scala mobile, che intervenne a partire dal 1984. Se ad invertire il trend inflazionistico, come si è detto, non è stato il “divorzio” non fu neanche il contenimento salariale. L’alta inflazione del decennio ’70 aveva la sua causa nei due picchi di aumento del costo del greggio tra il 1974 ed il 1979, provocati dalle restrizioni nell’offerta da parte dei Paesi produttori dell’Opec a fronte di una domanda dei Paesi occidentali sempre più crescente. Non a caso, non appena la situazione sul mercato del greggio e delle materie prime iniziò a tornare a livelli normali, l’inflazione cominciò a scendere proprio a partire dal 1979-80.

In conclusione, si può affermare che le cause del declino italiano risiedono, da un lato, nel principio d’indipendenza della Banca d’Italia dal Tesoro e, dall’altro, nell’incardinazione, senza compensazioni e coordinamenti obbligatori, della nostra valuta nel sistema di oscillazione del cambio all’interno di una banda prefissata come era quella dello SME prima e, a maggior ragione, della moneta unica ora. La moneta unica, infatti, ha rappresentato l’abolizione anche del margine di oscillazione in precedenza concesso dagli accordi relativi allo Sme ed ha trasformato il vecchio cambio semi-rigido in un cambio rigido. In queste condizioni, la politica monetaria di Bankitalia, costretta dal cambio semi-rigido e poi progressivamente priva anche di moneta nazionale, non ha potuto che essere restrittiva mentre i mercati, intanto globalizzatisi, pretendevano tassi di interesse sempre più alti per acquistare i nostri titoli di Stato facendo esplodere il debito pubblico.

L’inflazione iniziò progressivamente a scendere, per i diversi motivi sopra richiamati, fino a trasformarsi in deflazione, con il ghiacciamento dell’economia. Il debito estero accumulato dal Sud Europa, verso il Nord Europa e la Germania in particolare che da quindici anni pratica politiche salariali al ribasso, è la misura più evidente dell’esito disastroso di un percorso avviatosi agli inizi del decennio ’80 e analiticamente viziato dagli errori del monetarismo e della ritornante teoria quantitativa della moneta. Eppure già nel lontano 1957, all’atto della stipula dei Trattati di Roma, l’economista Meade ammoniva gli altri partener del progetto europeo che la flessibilità del cambio era l’unica difesa che l’Europa poteva adottare rispetto alle politiche deflazionistiche della Germania.

Mentre con le politiche neoliberiste della Thatcher e di Reagan si avviava la disastrosa deregulation dei mercati finanziari, rendendo la finanza apolide e transnazionale globalmente egemone, il “divorzio” prima e lo Sme poi sono state le “prove tecniche” per l’approdo all’euro quale strumento di dominio neocoloniale della Germania il cui surplus estero supera, oggi, i 300 miliardi di euro. A pagare questa egemonia tedesca sono in particolare i Paesi dell’Europa del Sud, più falcidiati degli altri dalla deflazione con conseguente crollo dei prezzi, fallimento delle aziende, crollo della produzione industriale, minor gettito fiscale, maggiore disoccupazione ed, infine, dulcis in fundo aumento del rapporto debito/Pil senza possibilità alcuna di diminuire efficacemente il debito pubblico.

Di questo passo diventerà inevitabile la disintegrazione dell’Eurozona che, lasciata alla presunta capacità auto-regolativa del mercato, non si è affatto rivelata, a smentita degli “euro-ottimisti”, un’Area Valutaria Ottimale.

Luigi Copertino

 

NOTE

  1. Cfr. Pasquale Ferro (a cura di) “Banca d’Italia e Tesoreria dello Stato: vicende storiche, riforme e prospettive”, pp. 77-81.
  2. L’esperimento monetarista, che mirava al “monetary targeting”, fallì miseramente dimostrando così più che fondata la cosiddetta “teoria endogena della moneta”. Infatti in presenza di una restrizione della base monetaria legale, imprese e famiglie accrebbero le loro richieste di credito, ossia di quasi-moneta bancaria, vanificando la convinzione dei dottrinari monetaristi secondo la quale le autorità monetarie avrebbero sempre e comunque capacità globale di controllo sulla quantità di moneta in circolazione. In realtà, mentre è possibile, non senza gravi conseguenze sociali, contrarre la base monetaria legale, non è affatto possibile alle autorità monetarie, se non in modo indiretto e relativo ovvero attraverso la manovra sul tasso di sconto, controllare l’emissione di moneta bancaria perché questa dipende dalla domanda di moneta, e non dunque dall’offerta central-bancaria di valuta legale. La domanda di moneta, pertanto, si rivela chiaramente endogena e non, come ritengono i monetaristi ed i neoclassici, esogena al mercato.
  3. http://www.blia.it/debitopubblico/index.php/