PONTE DI GENOVA, NAVE DICIOTTI. CORRE LA STORIA…

                                                            di Roberto PECCHIOLI

Corre la storia. Esistono periodi in cui tutto sembra fermo, altri dove il movimento pare precedere il tempo e sfuggire alla comprensione. Le ultime settimane, in piene vacanze agostane, hanno prodotto un’accelerazione profonda, lasciato un solco significativo, segnato un prima e un dopo. Poco sarà come prima nel giudizio comune dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova e la vicenda della nave Diciotti della nostra Marina.  I fatti sono noti. Nel primo caso, un ponte costruito da soli 50 anni, unico mezzo di comunicazione tra le due parti della Liguria, proteso verso la Francia, si spezza e lascia sul terreno, dopo un volo spaventoso, oltre quaranta vittime, seicento sfollati, giacché quella struttura autostradale, gestita dal gruppo privato Benetton, posava direttamente sopra un quartiere popolare della città e minaccia di infliggere un colpo mortale all’economia di una regione che vive di turismo e di logistica dei trasporti.

Nel secondo, una nave italiana che incrociava nel Mediterraneo ha raccolto circa 180 eritrei i quali, all’arrivo a Catania, non sono stati sbarcati per ragioni di salute, sicurezza pubblica e per dare un ulteriore segnale di cambiamento nella politica nazionale dinanzi all’invasione di finti profughi provenienti dall’Africa con l’aiuto di imbarcazioni private ( le cosiddette Organizzazioni Non Governative) finanziate da chi organizza il traffico di esseri umani sotto la copertura di ragioni umanitarie. A seguito degli eventi catanesi, il ministro degli Interni in carica è indagato per sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale. Marcello Veneziani ha intitolato un suo magistrale intervento “difendere gli italiani è reato”.

Il maggiore partito di opposizione, il PD architrave del sistema da 25 anni sotto diversi nomi, ha mobilitato i propri dirigenti a Catania a favore degli stranieri, ma ha brillato per la sua assenza a Genova dinanzi alla tragedia di una grande città italiana che, per inciso, ha sgovernato per oltre 40 anni, come PCI prima, PDS, DS e PD poi. I pochi esponenti visti ai funerali sono stati accolti da salve di fischi impressionanti, che hanno lasciato sotto choc la povera (si fa per dire) deputata Pinotti, fascinosa signora del partito in città, ex ministro della Difesa, dunque responsabile diretta per anni dei movimenti della Marina Militare nelle acque del Mediterraneo meridionale.

Un osservatore del calibro del professor Meluzzi, ex uomo politico, ha tuonato contro l’alleanza di fatto tra il potere mediatico (tutto dalla parte del vecchio sistema), l’apparato tecnologico di dominazione (il mondo della rete, di Facebook, Google, Silicon Valley) e le oligarchie finanziarie. Ha dimenticato, per l’Italia, il grumo di potere giudiziario che da un quarto di secolo tiene in scacco la politica, cercando attivamente non solo di influire sulle scelte generali, ma addirittura di riscrivere la storia della nazione degli ultimi 75 anni.

In questa calda estate italiana, tuttavia, non solo i ponti crollano, ma si vanno sgretolando i muri di menzogne e falsificazioni innalzati dall’inizio degli anni 90, allorché, finito il comunismo, gli Usa abbandonarono al loro destino il sistema potere basato sulla DC, il PSI, le partecipazioni statali, alcune grandi industrie e alcune banche d’affari (Mediobanca). L’esito è stato la svendita di gran parte della ricchezza nazionale attraverso privatizzazioni pilotate da un gruppo di potere interno legato a centrali estere anglo americane e francesi. I gioielli dell’economia, dell’industria, della ricerca, della finanza sono stati svenduti e solo oggi, dopo 25 anni si squarcia il velo, dopo la caduta di un ponte pagato con il denaro di tutti e affidato in concessione a un privato, Autostrade della famiglia Benetton, che ha guadagnato miliardi e reinvestito spiccioli nella manutenzione, senza alcun interesse per un piano infrastrutturale.

Le condizioni della concessione stanno emergendo come scandalosamente contrarie all’interesse erariale e nazionale, una specie di patto leonino alla rovescia, in cui tutti gli oneri stanno dalla parte pubblica (la proprietaria!), tutti i vantaggi da quella privata. Sta venendo a galla un groviglio di interessi e di meccanismi, a partire del finanziamento dell’operazione, che sanno di tradimento del popolo italiano. Il governo ha finalmente battuto un colpo, impegnandosi a sottrarre la concessione al gruppo Autostrade. Lo stuolo di legali di alto livello messo in campo da lorsignori è capitanato da personaggi della politica e delle istituzioni di lunghissimo corso come Paola Severino e Giovanni Maria Flick. Ex ministri, ex membri della Corte Costituzionale giunti al rango di presidente, ex dirigenti di tutto. Personalità di altissima professionalità, ovviamente, ma, guarda caso, membri di quei centri di potere riuniti attorno a Romano Prodi, protagonisti delle privatizzazioni, delle modalità di adesione all’unione europea e di tutti gli eventi che hanno segnato la storia recente.

Per la prima volta il velo si sta squarciando e una parte maggioritaria degli italiani comincia ad aprire gli occhi. Doveva cadere un ponte, uccidere innocenti, ferire a morte una regione intera, affinché diventasse patrimonio di verità la parola inascoltata dei pochi che hanno gridato per anni, vox clamantis in deserto, voce di chi urla nel deserto, come Giovanni il Battista. Complottisti, mentitori, estremisti per un quarto di secolo, adesso risulta che avessero ragione. Un’inchiesta di questi giorni, a proposito della privatizzazione delle banche pubbliche che controllavano tra l’altro Bankitalia, ipotizza che siano state cedute a un decimo del valore reale. Dovremmo citare la Sme, la chimica, l’Enel, l’agroalimentare, l’abbandono folle della siderurgia (chi fornirà i materiali per il nuovo ponte in acciaio?), un elenco talmente lungo da occupare pagine intere.

A cose fatte, a Italia fatta a brandelli, venduta, regalata, offerta al minor offerente, veniamo a sapere che i protagonisti sono ancora in sella, alcuni ai vertici delle società private che hanno smantellato da boiardi pubblici e da politici infedeli. Eppure Mani Pulite venne fatta passare come una benefica operazione contro la corruzione, che c’era, eccome e chi la denunciava anche allora era sbeffeggiato, perseguitato, deriso. I corruttori- l’industria, l’economia, la finanza – vennero fatti passare per vittime, sia pure ben disposte ad aprire il portafogli. Il popolo applaudì, voltando le spalle al sistema che, pur tra mille difetti e gravissime ombre, aveva comunque accompagnato la ricostruzione dopo la tragedia del 1945. Ebbero un sacco di colpe, ma non smantellarono il buono costruito prima di loro (l’Iri e il sistema bancario) e, attraverso uomini come Enrico Mattei – ucciso nel 1962 – Adriano Olivetti e tanti altri, portarono l’Italia all’avanguardia.

Ciò che lascia la classe dirigente dell’ultimo quarto di secolo è un cumulo di macerie il cui simbolo è il ponte spezzato che scavalcava la valle del Polcevera, un’opera che in mezzo secolo è stata muta testimone della penosa deindustrializzazione di una delle città simbolo della storia nazionale. Non abbiamo idea se le cose cambieranno nella sostanza, il sistema è fortissimo e, come ci ha spiegato Alessandro Meluzzi, ha in mano l’apparato mediatico, quello tecnologico e controlla il denaro. Per la prima volta, però, è chiaro che non ha il favore della gente, la cui collera non è ancora esplosa, siamo piuttosto allo sconcerto e all’indignazione, ma adesso il bimbo della fiaba che rivela la nudità del re viene creduto.

Negli stessi giorni, è esploso fragorosamente il caso dei migranti eritrei portati in Sicilia non da una nave delle ONG, ma dalla nostra Marina. In un suo modo rozzo ma efficace, Matteo Salvini ha dimostrato nelle settimane scorse che l’invasione non è un dato di natura cui non ci si può opporre. Orrore e fastidio di chi comanda e dei fiancheggiatori prezzolati (stampa, TV, clero, membri della cupola culturale). Silenzio e orecchie da mercante da parte delle istituzioni europoidi, i cui gerarchi sono indifferenti a tutto fuorché agli interessi delle lobby che li hanno scelti e garantiscono loro privilegi e reddito da nababbi.

E’ chiaro anche ai ciechi che nessuno vuole gli africani ma tutti si vergognano a dirlo. Si rifugiano allora nelle frasi umanitarie, nell’indignazione a tariffa, nella retorica di maniera. L’Italia si arrangi, colpa sua se è uno stivale incastrato in mezzo al Mediterraneo. Maggiore comprensione merita la Spagna, che getta fuori con le spicce migliaia di persone, e ne ha pieno diritto, ma può farlo senza suscitare l’ira di Bruxelles perché i suoi governi da anni eseguono i compiti finanziari assegnati dall’oligarchia per salvare le banche esposte con la zoppicante economia iberica.

Può chiudere la frontiera Emmanuel Macron, il socio di minoranza della Germania & Francia spa, caro a Jacques Attali, ai Rothschild e al mondo bancario. Può anche sforare il comico parametro del 3 per cento perché la Francia non va, fare un piano per mandare a casa 50 mila statali e continuare a spendere il 54 per cento del PIL nel settore pubblico.  Una Francia che sarebbe letteralmente in braghe di tela, nonostante gli acquisti in Italia a prezzo di saldo, se non contasse con la rendita da signoraggio dell’emissione e del controllo del Franco dell’Africa Centrale, valuta di ben 14 stati, saldamente nelle mani di Parigi.

Noi no, non possiamo fare nulla, e se tentiamo di difendere i confini, a mali estremi, estremi rimedi. Entra in scena un altro pezzo dell’Italia di potere, l’inquirente che indaga Salvini, probabilmente nella speranza di far saltare il patto di governo giallo blu tanto inviso ai “superiori”. Comunque vada l’iniziativa giudiziaria, è un enorme sasso in piccionaia. Un politico esperto, Gianni Alemanno, reagisce denunciando la procura agrigentina per attentato alle libertà politiche. Anche in questo caso, almeno si è fatta chiarezza. Gli schieramenti sono più netti, nessun vacanziero può dire di non aver visto e di non aver capito.

Falliscono uno dopo l’altro i vertici europei sull’immigrazione per varie ragioni. Due ci sembrano decisive: l’oligarchia non può ammettere apertamente di essere dalla parte dell’invasione per timore di reazioni popolari; i governi non vogliono accogliere altri immigrati per l’ottimo motivo che non possono. Mancano le risorse, è sfumato il consenso sociale, lo dimostra la Germania e la stessa Svezia che sta per attribuire un grande successo elettorale ai partiti anti immigrazione ed euroscettici, la Francia in cui Macron è in difficoltà serie dove ogni giorno avvengono mille aggressioni, per lo più da parte di immigrati o di “nuovi francesi”.

L’Italia diventa così, per motivi geografici e per antica subalternità, il parafulmine di tutto. Il capo del governo ha fatto balenare l’ipotesi di non votare il bilancio dell’Unione e si sono aperte nuove cateratte. La voce dell’Italia interessa solo quando è accompagnata da assegni di decine di miliardi, quelli che conferiamo al bilancio comunitario e gli altri che regaliamo al Meccanismo Europeo di Solidarietà. Se poi il ministro Di Maio ipotizza di bloccare i pagamenti, apriti cielo. Un commissario europoide, un signore non eletto da alcuno, ma catapultato ai vertici per la sua appartenenza a certi ambienti, Guenther Oettinger, tedesco non per caso, ci rammenta che pagare è obbligatorio e tacere assai apprezzato. Contesta anche le cifre, non sarebbero 20 i miliardi (nostri) in ballo, ma 16 o 17. Chissà se ha messo nel conto quanto versiamo quasi quotidianamente per dazi all’importazione, che si chiamano “risorse proprie dell’Unione”, di cui possiamo trattenere solo il 20 per cento come aggio per le spese di riscossione e mantenimento della struttura tributaria, nonché la parte di IVA – che pure è un’imposta nazionale – che versiamo ai signori di Bruxelles.

La storia corre, però, nulla è immodificabile, neppure l’Unione Europea, neanche i suoi trattati fatti apposta per sottrarre sovranità a popoli e Stati e impedire azioni di revoca. Corre anche nell’ambito dell’immigrazione, che è percepita come invasione e non è più un tabù. Marcia veloce anche nell’economia, ove la parola nazionalizzazione non è più vietata dai sacri testi liberisti e diventa un’opzione da discutere in libertà. Un piccolissimo esempio riguarda il ponte Morandi: per il concessionario privato la manutenzione è un costo, per lo Stato proprietario dell’infrastruttura sarebbe un investimento.

Con il ponte stanno cadendo molti calcinacci. Il muro del mercato è il più resistente. L’impegno del governo dovrà essere quello di mostrare volontà di sviluppo, equilibrio e capacità di controllo del paese, decisione nella discussione del bilancio UE. Se ci riuscirà, gli “spiriti animali” si acquieteranno, anzi si schiereranno dalla parte di chi, in un modo o nell’altro, può farli guadagnare. Spezzare i monopoli privati potrebbe essere operazione gradita a settori ampi del mondo affaristico. Non sono pochi i soggetti tagliati fuori dal monopolismo dominante dagli anni 90 che potrebbero essere indotti a investire in Italia; esiste già il piano di Paolo Savona sugli attivi di bilancio al netto degli interessi sul debito.

Quanto all’immigrazione, la voce assordante che sale da gran parte dell’opinione pubblica chiede che sia regolata, ricondotta alle necessità reali, ove esistano, venga ripristinata la legalità nei buchi neri in cui troppi ospiti sgraditi e non richiesti la fanno da padroni. Se esiste un clima sfavorevole agli stranieri, la migliore soluzione è ripulire l’immigrazione da due piaghe, la clandestinità e la malvivenza. Ce ne saranno grati per primi i tanti stranieri per bene che non vogliono essere confusi con i farabutti e meritano il nostro rispetto. L’operazione giudiziaria conto Salvini sembra un ballon d’essai, un tentativo proveniente dagli stessi ambienti interessati alla riscrittura giudiziaria della storia nazionale. In questi giorni tocca rivalutare persino Silvio Berlusconi, che poco ha fatto per cambiare le cose, finendo per diventare un elemento di stabilizzazione del sistema, ma che ha subito un attacco giudiziario ben al di là dei demeriti suoi – molti- e di chiunque altro.

Come ha fatto questa nostra Patria a ridursi così? La storia corre, ma dovrebbe andare alla velocità della luce per recuperare trenta, quarant’anni devastanti. Da oggi, però, dopo il crollo del ponte e la paradossale vicenda della nave Diciotti, gli italiani sanno molto più di prima, alcuni hanno capito. Tocca a loro, tocca a noi, se vogliamo tornare protagonisti. Nella corsa, chi si ferma ha perduto.

ROBERTO PE