LA POLITICA DEL FISCHIO AL CANE

                                                              di Roberto PECCHIOLI

 

Dog whistle politics, la politica del fischio al cane, è un concetto divenuto abituale  nei paesi anglosassoni. Definisce un codice di messaggi ed argomenti, politici ma anche commerciali, funzionanti come quei fischietti speciali che emettono suoni tanto acuti da essere identificati solo dai cani. Tutti ascoltano le stesse parole, ma solo una parte dell’opinione pubblica, quella a cui viene indirizzato uno specifico messaggio – politico, etico, commerciale- ne coglie il significato implicito sottostante. Il target desiderato è così raggiunto. In questo modo, viene attivata una risposta concreta, allontanando l’attenzione dal resto. Il meccanismo viene posto in essere utilizzando significanti (ovvero termini o frasi) il cui significato viene diversamente accolto e percepito dai vari settori del pubblico. Un paragone efficace è quello delle parole utilizzate in molte professioni o mestieri, a cui il resto della popolazione attribuisce un senso diverso o non ne attribuisce alcuno, ma che destano l’attenzione di alcuni, coloro cui è rivolto il messaggio crittografato.

Il fischio al cane è particolarmente utile quando l’oggetto da comunicare è polemico o polarizzatore. Secondo gli studiosi americani, il primo uomo politico ad utilizzare questo tipo di messaggio politico fu Richard Nixon alla fine degli anni 60 del secolo trascorso, allorché fu chiaro che il futuro del partito repubblicano era legato alla capacità di mobilitare l’elettorato bianco degli stati del sud. Nixon iniziò a pronunciare discorsi in cui si riferiva costantemente ai “problemi delle zone centrali delle città”, alle droghe e “alla necessità di legge e ordine”. Tutti ascoltavano il medesimo messaggio, ma solo alcuni ne coglievano il di più, il senso di qualcosa rivolto a loro, personalmente e come membri di gruppi e sottogruppi della società.

Nell’ambito dei sondaggi di opinione, vige una variante della stessa tecnica. Bastano sottili cambiamenti nella formulazione delle domande per ottenere risultati notevolmente diversi. Gli intervistati, o una parte di essi, quella di cui si vuole modificare l’orientamento o precostituire la risposta voluta, vengono portati a cogliere nella domanda qualcosa che fa scattare i meccanismi di reazione e risposta voluti dall’intervistatore a favore del committente, commerciale o politico. Più di un teorico politico ha messo in guardia contro il fenomeno, riconoscendo che mina la democrazia e condiziona la libera formazione dell’opinione e delle scelte.

L’Italia non fa eccezione, e negli ultimi anni abbiamo verificato l’ampiezza dei cambiamenti indotti nel pubblico dall’utilizzo di tale tecnica. Pensiamo all’uso sapiente di parole o sintagmi edulcorati, formule contorte per definire qualcosa il cui impatto su settori importanti di popolazione si ritiene negativo. Così abbiamo avuto le unioni civili al posto delle nozze omosessuali, le DAT, disposizioni anticipate di trattamento, per non utilizzare un vocabolo, eutanasia, dalla connotazione negativa, addirittura nazistoide. Lo stesso aborto, parola ampiamente neutralizzata dall’uso e dal mutamento culturale, nella legge italiana che lo legalizza è chiamato eufemisticamente interruzione volontaria di gravidanza, con largo utilizzo della sigla IVG, asettica e burocratica.

Ma i più interessanti “fischi al cane” sono quelli relativi all’immaginario progressista. Pensiamo a parole come civiltà, accoglienza, profughi, rifugiati, a quel capolavoro di nuova semantica che è “migrante”, oltreché a tutti i significati positivi e moderni (altra parola-fischio!) connessi al prefisso multi. Siamo dalla parte giusta della storia (altra ipostasi, dove la storia cammina con direzione in avanti) se condividiamo una società multietnica, multiculturale, multitutto. E poi pluralismo, tolleranza, la categoria di progresso utilizzata come metafora del bene e del meglio. Nella battaglia politico culturale sulla cittadinanza per nascita, il concetto di ius soli, ossia l’atto giuridico di acquisizione della qualità di cittadino per il mero fatto di essere nati in un certo territorio è stato sostituito, specie in ambito cattolico, dal più anonimo e meno divisivo “ius culturae”, un diritto di cittadinanza conseguito per inculturazione, o meglio per aver seguito le scuole dell’obbligo in Italia.

La sinistra è stata assai abile nella guerra delle parole, cioè dei significati condivisi, ottenendo dai suoi avversari risposte deboli, difensive, goffe giustificazioni, veri e propri autogol. La proscrizione della parola razza, ormai ammessa solo se si parla di animali, ha condotto all’interdetto massimo, quello che tronca il fiato, chiude ogni discussione: l’epiteto di razzista per chiunque non condivida le politiche favorevoli all’immigrazione. E’ ormai del tutto inutile replicare ricordando che il razzismo – teoria popolare in età moderna soprattutto in ambito anglosassone – prefigura un giudizio di superiorità, biologica, spirituale o civile e non si riferisce affatto alle opinioni negative sulla presenza degli stranieri. E’ diventato stucchevole registrare la cautela di chi, entrando in argomento, inizia inevitabilmente il discorso con l’excusatio non petita “non sono razzista, ma…”. Come sapevano i latini, la scusa non richiesta è un’accusa manifesta. In questo caso il fischio del cane ha funzionato in negativo, circondando di proibizione del pensiero e autocensura ogni valutazione critica sugli stranieri.

Al contrario, civiltà è parola omnibus, positiva e rassicurante, l’ideale fischio al cane progressista. Non vi è cambio di paradigma antropologico o costume della società che non venga circondato da un’aura di bene collettivo, di conquista attesa e desiderata, di sollievo per il conseguimento di un traguardo di cui si avvertiva l’urgenza. Il matrimonio omosessuale, da ossimoro ed assurdo logica si trasforma allora in legge di civiltà, addirittura diritto fondamentale. L’eutanasia ribattezzata disposizione per il fine vita (anche la morte cambia, con il fischio ad ultrasuoni) è un’altra misura di civiltà, come lo ius soli ed ogni altro cambio antropologico voluto dai padroni del mondo.

L’altra parola chiave è diritti. E’ sufficiente ascoltare il termine in qualunque discorso politico per situare politicamente chi parla. L’uomo è titolare di diritti, ogni cosa può diventare un diritto, anche gli spropositi o le pulsioni più basse. Quando poi un esponente progressista, dunque nemico di valori come patria, nazione e simili è costretto a parlare dell’Italia, inevitabilmente pronuncerà il fatidico sintagma “questo paese”. Il pubblico di sinistra assocerà subito – più o meno consapevolmente- i codici di messaggio a lui diretti ed il gioco è fatto. Una parte importante della gente è stata conquistata così, apparentemente senza colpo ferire, semplicemente per consuetudine e ripetizione, attribuendo a determinati comportamenti, parole, attitudini un senso apriori positivo. Un esempio è l’aggettivo “aperto”, in sé avalutativo: designa soltanto una condizione, ma diventa un fischietto rivolto al cane in opposizione al suo bieco opposto, chiuso, cui è stato conferito un retrogusto negativo.

Talvolta, il fischio è più complesso, necessita di una vera e propria frase: costruire ponti, abbattere muri.  Il primo gesto evocato va nella direzione del progresso, avanti, verso la civiltà, i diritti, l’apertura, porta a tutto ciò che è “multi”, dunque buono e giusto. Il secondo è ancora più esplicito, per chi riceve il messaggio in forma di fischio; il comportamento migliore, proattivo, è quello di abbattere i muri per farla finita con le divisioni, le differenze, le lontananze, tutte pessime cose che il mondo nuovo non sopporta.  Pensiamo all’effetto indignazione nei confronti di chi pronunciasse la frase al contrario: abbattere ponti, costruire muri. Eppure, spesso si rende necessario, anzi la realtà vera è quella di divisioni sempre più profonde, fratture sociali e personali insanabili.

Un ultimo fischio al cane su cui riflettere è l’aggettivo laico. In origine, designa chiunque non abbia ricevuto l’ordinazione religiosa; successivamente, a partire dalla Francia postrivoluzionaria, è passato a indicare la separazione totale tra la sfera statale e quella religiosa. Oggi, laico, di fatto, significa ateo o antireligioso. Chi ha almeno cinquant’anni rammenta un altro celeberrimo fischietto per cani degli anni 70: laico, democratico e antifascista. La triade, che definiva l’opinione “giusta” del tempo, si rivolgeva ai militanti della sinistra diffusa, ma era in realtà una “conventio ad excludendum”, giacché la stigmatizzazione non colpiva unicamente i soliti fascisti, ma anche i cattolici e i democristiani – i non laici – nonché moderati e conservatori, espulsi dal fronte democratico.

Per essere ammessi nelle file del bene e delle magnifiche sorti e progressive, occorre, oggi come allora, saper ascoltare in modo giusto gli ultrasuoni predisposti dai padroni del vapore e sorvegliati dalla polizia del pensiero. Il cane di Pavlov emetteva saliva all’ascolto del campanello a cui associava l’idea del cibo; lo zoo umano scatta al fischio delle parole magiche del Progresso. Di colpo e a buon mercato, si viene accolti nel grande recinto del Bene del Giusto e della Civiltà.  C’è posto per quasi tutti, dalla parte della ragione. Al segnale convenuto, il fischio del padrone, venghino, signori, venghino: più gente entra, più bestie si vedono…

ROBERTO PECCHIOLI