IL DIO NASCOSTO E RIVELATO terza parte – di Luigi Copertino

IL DIO NASCOSTO E RIVELATO

 SULL’IMPOSSIBILE “CANONIZZAZIONE” DI MARTIN LUTERO

RAGIONI STORICHE, SPIRITUALI E TEOLOGICHE

TERZA PARTE

 

Bonaventura da Bagnoregio

San Tommaso d’Aquino, dunque, si è posto sin dall’apertura della Summa – domandandosi «Dio, chi è?» – il problema dell’affermabilità di Dio. La “dicibilità” di Dio, infatti, induce la riflessione sul valore e sui limiti del pensare Dio. L’affermazione di Dio non significa capacità dell’uomo di definire la Sua identità perché, piuttosto, l’ultimo sapere su Dio è la conoscenza critica della Sua inafferrabilità, della Sua “ineffabilità”. Ecco perché proprio l’Aquinate scriveva «al termine della nostra indagine conosciamo Dio come sconosciuto» esaltando, dunque, la conoscenza contro l’agnosticismo ma, al tempo stesso, mistero trascendente della “essenza” divina. Quindi Tommaso non disconosce essere l’apice della stessa conoscenza razionale di Dio la “teologia negativa” ma ciò non impedisce, d’altro canto, di poter aspirare ad una conoscenza vera, sebbene imperfetta, degli “attributi divini”, ossia dei lineamenti dell’“essere sussistente” che Gli competono proprio perché auto-sussistente. Per Tommaso dell’indefinibile divinità non solo si può ma, anzi, si deve parlare in termini di “pienezza di essere”, di “Spirito”, di “Persona”, perché, inoltre, solo in tal modo è possibile parlare di Dio, in rapporto al mondo, quale Creatore. E’ l’assoluta perfezione personale di Dio che rende inevitabile guardare al mondo come a “creazione” ed alla storia come a “provvidenza”.

Nonostante le diversità di impostazione filosofica e di scuola questi stessi temi si svelano appartenenti, nella comune fede, ad un altro grande pensatori medioevale che viene, spesso, erroneamente contrapposto all’Aquinate: Bonaventura da Bagnoregio.

Tra l’XI ed il XII secolo la Cristianità fu travolta da profonde trasformazioni sociali che andavano preludendo alla nascita di una nuova civiltà urbana e quindi fondata sulla rinascita dei traffici commerciali e delle attività produttive che si accompagnava al riaffiorare del credito e del denaro come elementi progressivamente sempre più centrali nella società. Mentre persistevano i monasteri tradizionali, di matrice benedettina, che erano diventati potenti nel mondo feudale e mentre la Chiesa gerarchica era arroccata in un atteggiamento di aperta sfiduci verso il laicato, per reazioni ci fu una esplosione di movimenti popolari a carattere pauperistico (Flagellanti, Umiliati, Valdesi, etc.) che se da un lato sembravano propugnare il ritorno alla povertà evangelica dall’altro, per mediazione catara, erano sovente infetti da una spuria spiritualità gnostico-manichea e si ponevano anche come movimenti di contestazione politica e sociale sia nei confronto dell’assetto cetuale, con le sue ingiustizie, della società sia nei confronti della Chiesa gerarchica che appariva come il puntello “ideologico” di tale società. A dire il vero, le ingiustizie sociale erano diventate più forti e più evidenti proprio con l’apparire della nuova società monetaria e mercantile, laddove prima tra il dominus terriero feudale ed il suo servus, ossia tra l’armato e l’inerme, al di là del diverso status giuridico di egemonia del primo e di subalternità del secondo, le differenze sotto il profilo economico e sociale erano quasi inesistenti: quella feudale era una società certamente gerarchica ma generalmente povera e le distinzioni sociali erano basate non sulla ricchezza monetaria quanto sulla forza militare ed il dominio, che non era solo economico ma principalmente politico, della terra. La Provvidenza, però sa suscitare i suoi santi in ogni contesto storico e sociale. Se tra la fine della civiltà antica e l’inizio del Medioevo fu un Benedetto da Norcia, da un lato, a salvare quanto di “eterno” vi era nell’eredità degli antichi e, dall’altro lato, a fondare un’epoca nuova nella Luce di Cristo e sul principio dell’“Ora et Labora”, ora, in quest’età della rivoluzione urbana medioevale, fu Francesco d’Assisi, che il Signore chiamò a servire “il Padrone e non il servo” ed a “restaurare la Chiesa”, ad indicare la strada giusta per riunire quanto la mondanizzazione ecclesiale e, contemporaneamente, il pauperismo sovente ereticale avevano separato ossia il vivere secondo il Vangelo, il rifiuto del potere, il dipendere solo da Dio, il sostentarsi con il lavoro, la predicazione e l’obbedienza fedele alla Chiesa gerarchica ed al dogma di fede.

Se, tuttavia, Francesco, pur obbedendo alla Chiesa e riconoscendo la sua apostolica sacramentalità, diffidava dell’eccessiva cultura, quindi delle dispute teologiche e filosofiche, nelle quali vedeva infiltrarsi l’orgoglio ed il rischio del potere – perché anche quello della cultura è un potere – fu colui che è stato definito il “secondo fondatore dell’Ordine francescano”, ossia Bonaventura da Bagnoregio, che dell’assisiate redasse anche la biografia nota come “legenda maior” anche al fine di espungere dall’Ordine le tendenze radicali e ereticaleggianti (come quelle gioachimite del “fraticelli”), ad affiancare alle attività caritative dei francescani – dalle quali nel XV secolo sarebbero anti anche i “monti di pietà” per combattere l’usura – la attività propriamente culturali, fino ad inserire la teologia di matrice francescana al vertice dell’Università europea del tempo. Sicché, fino all’età moderna, l’Università fu il luogo della grande cultura filosofica scolastica suddivisa nelle sue due principali correnti, la tomista e la francescana, che facevano capo rispettivamente all’Ordine mendicante di San Domenico ed all’Ordine mendicante di san Francesco.

Allievo di Alessandro di Hales, Bonaventura rappresentò il rinnovamento, nell’epoca dell’aristotelismo, della linea teologica agostiniana che, tuttavia senza arroccarsi in una sterile opposizione alla scolastica di impianto aristotelico, seppe far tesoro delle novità per ridare vigore ad una teologia più platonizzante, ma in sintonia con il Plato christianus dei Padri. Ed è per questo che, a lode del pluralismo teologico sempre fecondo all’interno della Chiesa, è stato detto che Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio sono espressioni delle medesima fede ma teologicamente declinata secondo due filosofie diverse.

«Le tesi fondamentali di San Bonaventura – scrivono Antiseri e Reale citando Mathieu e Gilson – derivano da sant’Agostino, considerato come il più illuminato interprete di quella Scrittura in cui risiede la norma della verità. Bonaventura infatti (come già Agostino, e a differenza di Tommaso) non ammette una autonomia della natura dalla sua radice divina, e quindi neppure della ragione naturale: la quale giunge a conoscere solo grazie alla presenza illuminante di Dio … Bonaventura, in breve, prende sul serio la Rivelazione. Ed è a partire da Cristo che Bonaventura guarda e legge la storia dell’uomo e dell’universo intero (…). Egli … è sopraffatto dall’angoscia nel vedere che l’opera creata da Dio, riparata dal sangue di un Dio, viene ogni giorno ignorata e disprezzata. Il pensiero (per san Bonaventura …) deve dunque essere uno strumento di salvezza … che … metta il Cristo al centro della nostra storia come Egli è al centro della storia universale, non dimenticherà mai che un cristiano non può pensare niente come lo penserebbe se egli non fosse cristiano. Ed è così che comprendiamo il concetto di “filosofia cristiana” di san Bonaventura. La filosofia non comincerà senza il Cristo, perché è Lui che ne è l’oggetto; e non andrà a compimento senza il Cristo, perché è Lui che ne è fine. Essa si trova dunque davanti alla scelta o di condannarsi sistematicamente all’errore o di tener conto di fatti di cui essa è ormai informata. La filosofia di Bonaventura e, dunque, una “filosofia cristiana”. Bonaventura è un Cristiano che filosofa, e non un filosofo che è anche Cristiano. Bonaventura è un mistico. Egli guarda il mondo con gli occhi della fede. La ragione è un instrumentum fidei: la ragione legge ciò che la fede illumina; la ragione è una grammatica scritta con l’alfabeto della fede. Per tutto questo si comprende come la filosofia di San Bonaventura e quella di San Tommaso siano, in qualche modo, … incommensurabili. Certo ci sono dei punti in comune; sono due filosofi cristiani e ogni minaccia contro la fede li trova uniti. Si tratti del panteismo? L’uno e l’altro insegnano la creazione ex nihilo e affermano una distanza infinita tra l’essere per sé e l’essere partecipato. Si tratta dell’ontologismo? L’uno e l’altro negano formalmente che Dio possa essere visto dal pensiero umano in questo mondo (…). Si tratta del fideismo? L’uno e l’altro oppongono ad esso lo sforzo più completo dell’intelligenza per provare Dio e per interpretare i dati della fede. Si tratta del razionalismo? L’uno e l’altro coordinano lo sforzo dell’intelligenza all’atto di fede e sostengono l’influenza benefica dell’atto di fede sulle operazioni dell’intelligenza. Accordo profondo, indistruttibile, proclamato dalla tradizione … e mai contestato (…). I dati sono gli stessi, ma si vedono in una luce differente. Nel 1879 Leone XIII parlò di Tommaso e di Bonaventura come di “duae olivae et duo candelabra in domo Dei lucentia”. Ma … la luce die due candelabri illumina diversamente le cose (perché) … Si tratta di due filosofie complementari: la fede in Dio è unica e i tentativi umani di situarci nella e per la fede sono molteplici. La fede insomma – possiamo dire noi – è liberante; ci consente e ci impone di essere spregiudicati; tutti i tentativi umani sono relativi (al tempo, allo spazio, alla cultura dell’epoca, agli strumenti disponibili, e così via)» (5). Purché, però, aggiungiamo noi, non si cade nel pluralismo relativistico ed anarchico che è esattamente quanto di contrario c’è sia alle intenzione di Tommaso che a quelle di Bonaventura.

Orbene, Bonaventura, seguace del Serafico di Assisi, segue, dunque, la strada platonica di Agostino, non, però, in polemica con l’Aquinate ma per giungere allo stesso Dio per un’altra strada, legittima quanto quella tomistica. Una strada che mentre esalta l’ineffabilità di Dio non nega la bontà delle sue creature, delle sue opere. Come del resto avrebbe potuto un mistico, teologo e filosofo francescano negare la bontà dell’Opus Dei? Per Bonaventura, scrivono ancora reale ed Antiseri, «E’ l’universo intero che di Dio “porta significatione”. E questo vuol dire che Bonaventura guarda all’universo con gli occhi della fede. L’universo per Bonaventura porta insomma, come per San Francesco, “significatione” dell’Altissimo. E’ un universo visto dalla prospettiva della fede. E la ragione scrive ciò che la fede detta. In realtà, i fatti da soli sono muti; essi parlano solo se c’è qualcuno che ne sa raccontare la storia. E’ la storia di san Bonaventura è una storia religiosa» (6).

La cosmologia scientifica odierna ci dice che l’universo è costruito sulla base del cosiddetto “principio antropico” (nella sua versione cosiddetta debole, che non presume alcun determinismo o “necessarismo”). Per il principio antropico, tutte le coordinate cosmiche sono state date in modo che ad un certo punto dello sviluppo dell’universo potesse comparire la vita intelligente, l’unica capace di comprendere, dunque anche di raccontare, il senso ed il significato dell’universo stesso.

Se Tommaso inizia la Summa con una domanda – “An Deus sit?” –Bonaventura invece apre l’“Itinerarium mentis in Deum” pregando

«Incomincio – egli scrive – rivolgendo la preghiera al primo Principio, cioè l’eterno Padre, dal quale come Padre della luce e origine di ogni bene e di ogni perfezione vengono tutte le illuminazioni; e lo prego nel nome di Gesù Cristo, suo Figlio e nostro Signore, affinché per l’intercessione della Santissima Madre di Dio Maria Vergine e di san Francesco, nostro Padre e guida, illumini la nostra intelligenza e diriga i nostri passi nella via di quella pace che sorpassa ogni umana comprensione».

Bonaventura è convinto che a Dio non si arriva rettamente se non tramite il Crocifisso e che questo vale anche per il filosofo. Per questo egli invita innanzitutto costui «prima di tutto alla preghiera fatta mediante Gesù Cristo, il cui sangue toglie le macchie dei nostri peccati, affinché non si illuda che possa bastare la lettura senza la pietà, la speculazione senza la devozione, la ricerca senza l’ammirazione, l’attenzione senza la gioia, l’attività senza la pietà, la scienza senza l’amore, l’intelligenza senza l’umiltà, lo studio senza la Grazia, l’intuizione e la ricerca umana senza la Sapienza ispirata da Dio».

Quella di chi cerca Dio è una ascesa spirituale dell’intelligenza verso ed in Dio. Solo la preghiera, pertanto, può rendere capaci dell’obiettivo la nostre disposizioni verso di Lui, le quali senza l’aiuto della Grazia a nulla servono. La preghiera ci illumina nella conoscenza dei gradi dell’ascesa al Cielo. Un’ascesa che però parte dal riconoscimento della Sua Somma Bontà nella bontà ontologica del creato, non dunque nella sua negazione al modo di un apofatismo unilaterale e radicale.

L’universo intero, infatti, costituisce la scala per l’ascesa a Dio. La stessa scala che nel sogno di Giacobbe era percorsa dagli angeli perché simbolo di Cristo stesso che del cosmo è il Verbo creatore. Sicché tra le cose alcune sono corporee, altre spirituali, alcune temporali, altre eterne, alcune fuori di noi, altre dentro di noi. Ma per giungere al Primo Principio, eterno, trascendente, spirituale, è necessario partire dalla considerazione degli enti corporei, temporali e esterni a noi perché in essi vi è l’impronta, l’orma, di Dio. Solo in un momento successivo vengono in considerazione gli enti incorporei della nostra intelligenza che è immagine spirituale, eterna ed interiore di Dio. In questa fase penetriamo più a fondo la Verità di Dio. Ma l’ascesa conosce una fase ulteriore che ci porta al di sopra anche di noi stessi, della nostra intelligenza limitata. Questa è la fase nella quale si incontra l’Eterno Primo Principio, spiritualissimo e trascendente, nell’esperienza mistica rendendo omaggio alla Sua Umile Maestosità.

Per Bonaventura «Dio è la ragione di tutte le cose, la regola infallibile e la luce della verità, in cui tutto risplende in un modo infallibile, indelebile, indubitabile, irrefragabile, immutabile, incoartabile, interminabile, indivisibile e intellettuale» e tutte le cose create «sono ombre, echi ed immagini di quel Primo Principio potentissimo, (…) causa esemplare e finale di ogni cosa».

Il platonismo cristiano di Bonaventura, tuttavia, come quello appunto di Agostino, non è apofatismo disincarnato perché, ben evidenziando l’apporto kenotico della Rivelazione e dell’Incarnazione, l’ascesa, per il nostro teologo francescano – che, qui, riecheggia il mito platonico della caverna ma nella Luce del Dio abramitico la quale manca del tutto a Platone portato, pertanto, a leggere l’essere come “gettità” del Primo Principio nell’oscura materia, può essere paragonata alla situazione di chi caduto «… in un precipizio vi rimane se un altro non lo aiuta a sollevarsi, (sicché) … l’anima nostra non avrebbe potuto risollevarsi dalle cose sensibili fino alla contemplazione di se stessa e dell’eterna Verità riflessa in essa, se la Verità stessa, assumendo la forma umana in Cristo, non si fosse fatta scala di riparazione per la caduta della prima scala di Adamo. Perciò nessuno, per quanto possa essere illuminato dai doni di natura e dalla scienza acquisita, può rientrare in se stesso per godervi Dio, se non per la mediazione di Cristo, che ha detto: “Io sono la porta; chi passerà attraverso di me si salverà, entrerà e troverà i pascoli eterni”».

Solo con i sensi riabilitati dalla fede e dalla Grazia l’uomo diventa capace di accostarsi in senso autentico al reale. Qui Bonaventura mentre invita all’ascesi interiore esalta la bontà anche della sensibilità psico-corporea della natura umana per giungere alla stessa conclusione del Tommaso che afferma “Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit”.

«Cristo è la vita e la porta, la scala e la guida, il Propiziatorio collocato sopra l’altare di Dio e il “mistero nascosto nei secoli”» e «data la natura di questa ascesa, nulla può la natura e poco l’operosità umana. Occorre allora dare poca importanza all’indagine e molta all’unzione, poca alla lingua e molta alla gioia interiore, poca alla parola e ai libri e tutta al Dono di Dio cioè allo Spirito Santo, poca o nulla alla creatura e tutta al Creatore (…) abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, le cose sensibili e quelle invisibili, l’essere ed il non essere, e, per quanto ti è possibile, abbandonati fiduciosamente ed unisciti fiduciosamente con Colui che è sopra ogni essenza ed ogni scienza».

Ma – attenzione! – questo abbandono fiducioso non nulla del quietismo e della “fede fiduciale” luterana, perché Bonaventura, pur platonico, non è un nichilista spirituale. Secondo la prospettiva dell’“esemplarismo”, ereditato dal suo maestro Alessandro di Hales, Bonaventura riprende la dottrina platonica delle Idee Iperuraniche ma in una chiave squisitamente cristiana. In Dio ci sono le Idee, i Modelli, delle cose, di tutte le cose, le alte e le basse. Ma, a differenza di quanto asserivano i filosofi pagani, le cose, per Bonaventura, non procedono da Dio per un necessario emanazionismo e quindi Dio non è l’Uno impersonale di Plotino né il Motore Immobile ma freddo di Aristotile. Dio crea liberamente, ossia vuole, le cose modellandole secondo le Idee eterne che sono in Lui. Dio è un Artista che crea ciò che ha prima, ab aeterno, idealmente concepito. Pertanto, il mondo è un libro nel quale traspare la Trinità che lo ha creato. Il mondo è un complesso di “segni analogici” di Dio che l’uomo deve decifrare per nutrirsene spiritualmente.

«Chi non è illuminato dagli splendori così grandi delle cose create, è cieco; chi non è svegliato da tanti clamori, è sordo; chi da tutte queste cose non è mosso a lodare Dio, è muto; chi da indizi così evidenti non rivolge l’intelligenza al primo Principio, è stolto».

Se gli antichi divinizzavano il mondo mentre l’uomo moderno lo demitizza, Bonaventura, il sapiente cristiano, distingue Dio dal mondo ma non li separa affinché la creazione non sia profanata e disumanizzata. C’è un vincolo tra il rispetto per la sacralità derivata del mondo e l’ascensione dell’uomo al Cielo che è il vero fondamento del mondo stesso.

Ma l’ascesa non disimpegna l’uomo dal mondo, non lo disincarna: «Sciogli le tue labbra e applica il tuo cuore a esaltare e a onorare Dio in tutte le creature, e non ti avvenga che tutto il mondo insorga contro di te. Infatti, proprio per questo il mondo lotterà contro gli insensati». Un ammonimento profetico! L’uomo moderno, ateo, che considera la creazione una cosa profana, non ha rispettato la creazione, anzi l’ha sfruttata oltre ciò che Dio consente per una vita dignitosa dell’uomo. E la creazione, come già accadde dopo il peccato adamitico secondo il racconto del Genesi, si è ribellata all’uomo.

La grande lezione di Francesco d’Assisi – la creazione come dono e “significatione” dell’Altissimo ma non come olismo panteista giacché l’Assisiate non ha mai concepito così il creato e chi lo afferma propone un Francesco storicamente oltre che spiritualmente falso e new age – risplende nella filosofia cristiana di Bonaventura.

L’“esemplarismo” di Bonaventura trova migliore definizione mediante la dottrina delle “rationes seminales”, per la quale Dio ha immesso nella materia, nel cosmo, i “germi” di quanto, ad un certo punto del suo sviluppo, sorgerà secondo il piano creativo prestabilito dall’Infinita Intelligenza Divina. Sicché la “cause secundae”, di cui parla anche Tommaso quali cause naturali dei fenomeni, agiscono, sotto la constante guida divina, per portare a compimento ciò che Dio ha seminato. Questa dottrina bonaventuriana è conforme alla Sapienza tradizionale che, oggi, il paradigma olista della scienza post-moderna, se ben inteso, conferma a pieno. La materia informe evolve a partire dal caos originario perché in essa sono state immesse la leggi spazio-temporali che le danno forma attraverso graduali differenziazioni. Per Bonaventura non è possibile né affermare l’auto-potenzialità della materia, al modo di Aristotele, né attribuire tutto direttamente a Dio negando l’evidenza di cause secondarie da Lui dipendenti. La “ratio seminales” dirige lo sviluppo delle forme naturali quale forza intrinseca da Dio posta nella materia stessa sin dall’atto primordiale della sua creazione. In tal modo, Bonaventura spiega l’agire sapiente di Dio senza diminuire, senza eliminare, l’azione della natura, quindi senza negare realtà al mondo pur nella sua dipendenza ultima da Dio.

Uomo medioevale, Bonaventura guarda al cosmo nel suo stato creaturale di dipendenza da Dio e se c’è una differenza con l’approccio più aristotelico di Tommaso è nel grado di autonomia concesso al mondo, che per l’Aquinate è più ampio orizzontalmente mentre per il mistico di Bagnoregio è più verticalizzato. In ogni caso, il mondo resta, sia in Tommaso che in Bonaventura, uno scenario di simboli e segni della Presenza di Dio, quasi un Sacro Tempio dal quale traspare il mistero di Dio e ne fa intuire la Sua Potenza d’Amore. Dio è l’essere al quale rinviano tutte le cose e questa è la verità che ogni creatura, con il suo esistere, grida all’uomo. Lo spirito umano è in grado di cogliere la Presenza di Dio contemporaneamente fuori di sé, dentro di sé e sopra di sé, ascendendo fino alla visione beatifica in Cielo. Bonaventura riprende alcuni argomenti di sant’Anselmo d’Aosta, esposti nel “Proslogium”, per affermare l’immediata presenza di Dio in noi, oltre che fuori di noi, e per spiegare che l’idea di Dio, come essere assoluto, presente nel nostro spirito fonda la nostra stessa capacità gnoseologica sicché più che dimostrare l’esistenza di Dio si tratta di chiarirne la Sua Presenza in noi, onde effonderci, poi, in una lode estatica. Senza che questo porti all’ontologismo giacché se l’idea di Dio è in noi lo è perché Dio è realtà oggettiva a noi esterna benché agente in noi, nella nostra stessa facoltà di conoscere che è, in sostanza, una “co-intuizione” implicante il contatto diretto con l’oggetto e riflesso con l’esemplare, fino all’Esemplare ultimo che è Dio. Per questo la conoscenza implica la compresenza in noi di Dio e delle cose, che tuttavia ci sono anche esterni. Solo la Luce Divina consente l’aggancio del finito con gli esemplari divini, solo l’idea del Perfetto ci rende capaci di conoscere l’imperfetto delle cose e solo l’idea dell’Infinito ci rende capaci di concepire, in rapporto all’Infinito, il finito delle cose. Il primato in noi dell’Essere purissimo ed attualissimo è il fondamento della nostra conoscenza intellettiva perché l’idea di essere è per la nostra limitata intelligenza l’irradiazione dell’Essere assoluto in noi, nel quale sono le eterne Idee divine degli enti. L’irradiazione di Dio in noi è il segno della Sua Presenza in noi e nel cosmo creato per l’uomo ed in vista dell’Incarnazione del Verbo.

«Non vi è perfetta lode – scrive Bonaventura nel “Commento alle Sentenze” con linguaggio che, come detto, oggi ritroviamo nel “principio antropico debole” della fisica post-determinista – se non c’è chi approva, né vi è perfetta manifestazione se non c’è chi intende, né perfetta comunicazione di beni se non vi è chi ne goda. E poiché approvare, conoscere la verità, godere dei doni non può se non una creatura razionale, le altre creature, le irrazionali, non sono immediatamente ordinate a Dio, ma solo mediante la creatura razionale. Questa invece che per sé è capace di lodare, conoscere e assumere altre cose per goderne, è fatta per essere immediatamente finalizzata a Dio».

Questa immediata finalizzazione fa dell’uomo l’Icona Dei, il microcosmo assommante in sé tutte le perfezioni diffuse nell’universo. Ne possiamo derivare la struttura razionale della creazione e l’analogia tra Creatore e creatura.

Alcuni affermano che mentre Tommaso d’Aquino avrebbe riconosciuto l’autonomia della ragione, aprendo così anche la via alla successiva secolarizzazione razionalista, Bonaventura invece avrebbe negato tale autonomia, disconoscendo in tal modo l’umanità a tutto vantaggio della sola Divinità. Ma davvero è sostenibile una tesi del genere? Essa non solo è insostenibile nei confronti dell’Aquinate per il quale se la ragione ha certo un suo statuto di legittima autonomia non è più tale, ossia ragione, quando pretende di assolutizzarsi ed auto-divinizzarsi, ma è impossibile a dirsi anche del nostro Bonaventura. Ed in questa convergenza risuona quell’“unica fede secondo due filosofie diverse” alla quale abbiamo già accennato.

«“Abbia pure l’uomo – scrivono ancora Antiseri e Reale, citando lo stesso Bonaventura – la conoscenza della natura e la metafisica, che si eleva fino alle sostanze più alte, e poniamo che l’uomo, arrivato qui, si fermi: è impossibile che non cada in errore, se non è aiutato dalla luce della fede e non crede che Dio è uno e trino, potentissimo e ottimo fino all’estremo della bontà (…). Perciò questa scienza precipitò e oscurò i filosofi (pagani) poiché non avevano la luce della fede (…). La scienza filosofica è via ad altre scienze, ma chi vuol fermarsi ad essa, cade nelle tenebre”. Questo brano – che leggiamo nelle “Collationes de donis Spiritus Sancti” – esprime mirabilmente la funzione del sapaere filosofico. Per quanto alto e sublime, il sapere filosofico, se trattiene lo sguardo in sé e non lo rinvia a un sapere più alto, teologico e mistico, è fonte di errori. Bonaventura non è dunque contro la filosofia in genere, bensì contro quella filosofia incapace di cogliere la tensione del finito all’infinito, dell’uomo a Dio (…). Il problema di Bonaventura, pertanto, non è quello di avversare l’uso della ragione e ogni filosofia, bensì di distinguere tra una ragione e una filosofia o teologia cristiana e una filosofia non cristiana, tra una ragione che è mezzo dalla fede alla visione beatifica (…) e una ragione che, chiudendosi in una propria autosufficienza, nega il soprannaturale. (…). Egli è contro una filosofia non cristiana, contro una ragione autosufficiente che non è capace di cogliere nel mondo il signum, l’orma di Dio; è contrario ad una ragione che ritiene il mondo una realtà totalmente profana e con leggi autonoma e autosufficienti. Bonaventura, insomma, compie una scelta consapevole di quella tradizione di pensiero che da Platone, attraverso Agostino e Anselmo, aveva sorretto la riflessione cristiana nel considerare il mondo come un sistema di ordinate rispondenze, come un tessuto di significati e di rapporti allusivi a Dio uno e trino, e l’uomo come l’inquieto pellegrino dell’Assoluto tripersonale. A che serve una filosofia che non renda più evidente la presenza di Dio nel mondo e non porti a compimento l’aspirazione dell’uomo alla conoscenza e al possesso di Dio? L’esercizio della ragione è salutare se ci consente di scoprire nel mondo e in noi stessi quei germi divini che poi la teologia e la mistica portano a completa maturazione. Il programma di Bonaventura … è costituito dal “quaerere Deum” che “relucet” e “latet” nelle cose, che si manifesta e si nasconde, e intorno al quale deve compiersi lo sforzo della “meditatio”, secondo la tradizione monastica, come prologo alla “consummatio”, costituita dalla visione beatifica. (…). Verso quale filosofia S. Bonaventura è diffidente? Verso la filosofia aristotelica che, nella versione averroista, aveva mostrato tutta la sua forza corrosiva nei riguardi del pensiero cristiano. (…). Bonaventura aveva … studiato Aristotele e … lo conosceva soprattutto nella versione averroista. Egli però, pur apprezzando i suoi molti contributi allo studio della natura, ne respinse lo spirito e gli orientamenti generali, perché estranei alla vicenda e al destino dle cristiano. Aristotele è una autorità nel campo della fisica, non però in quello del sapere filosofico nel quale l’autorità spetta a Platone e, superiore ad entrambi, ad Agostino. (…). Bonaventura, dunque, sceglie la tradizione platonico-agostiniana contro quella aristotelica, perché per la prima la filosofia è la teorizzazione dell’anelito della cose e dell’uomo a Dio e, nel ripensamento agostiniano, chiarimento delle implicazioni esistenziali della fede; per la seconda, invece, la filosofia è riflessione autonoma e per molti versi chiusa in se stessa e pertanto deviante. La filosofia di aspirazione aristotelica non poteva sorregge lo sforzo di Bonaventura di connettere strettamente le componenti filosofiche con quelle teologiche, l’elemento rivelato con quello razionale. Egli andava alla ricerca di una filosofia che alimentasse la sua religiosità, il suo abbraccio costante con la teologia, il suo misticismo, quel calore affettivo, per cui ogni passo è insieme un atto di intelligenza e un atto di amore. Nel quadro della tradizione monastica e dello spirito religioso portato da Francesco d’Assisi, Bonaventura, di fronte alle tradizioni filosofiche più autorevoli, opta per quella platonica e respinge dunque quella aristotelica» » (7).

Guglielmo di Saint-Thierry, Luis de León

La convinzione della contestuale apofacitità e catafaticità del Dio di Abramo percorre l’intero pensiero teologico e filosofico medioevale fino agli albori della modernità per trovare continuità in quello dei mistici, teologi e filosofi cristiani moderni.

«Per pensarLo – ha scritto Guglielmo di Saint-Thierry nella “Lettera ai fratelli del Monte di Dio” o “Lettera d’oro” – siamo assolutamente inadeguati, ma ci perdona Colui che amiamo e che ammettiamo di non saper degnamente esprimere né pensare. E tuttavia proprio dal suo amore, o dall’amore del suo amore, siamo provocati e trascinati a parlare di Lui e a pensarLo».

Luis de León, ebreo autenticamente converso a cui non furono risparmiati accuse di eresia che poi l’Inquisizione si incaricò di confutare, è stato l’autore di un trattato sui “Nomi di Cristo”. Per questo teologo e mistico della Spagna cinquecentesca il Nome principale di Cristo, con forte ed evidente assonanza paolina, è “Volto di Dio”, quindi potremmo dire Rivelazione di Dio, Icona di Dio, Verbo di Dio.

Jean-Jacques Olier

Jean-Jacques Olier visse nel XVII secolo e fu un figlio spirituale di san Vincenzo de’ Paoli. Si prodigò per dare attuazione al decreto tridentino sulla formazione seminariale dei sacerdoti ed è ricordato, per questo, come il fondatore della Compagnia di Saint-Sulpice, dedita appunto alla preparazione dei candidati al sacerdozio. Ma fu anche teologo mistico che ci ha lasciato la “Méthode pour faire l’oraison sur Dieu et sur les Attributs Divins”, del 1656. Il “metodo” di orazione proposto nell’opera segue lo schema canonico classico del secolo XVII ossia svuotamento di sé, abbandono, introduzione nel mistero dell’Unità, della Verità, della Perfezione, dell’Infinità, della Semplicità, della Santità, dell’Immensità, dell’Eternità, dell’Amore, della Bontà, della Giustizia, di Dio. Ma, a differenza di altri cammini contemplativi contemporanei, Olier invita alla contemplazione degli attributi divini – in particolare della Forza di Dio – perché è tramite essi che Dio, l’inaccessibile, si è rivelato a noi: «Dio facendosi presente in noi è la forza stessa. Egli è l’onnipotente; Egli è l’irremovibile, l’invariabile e l’inflessibile. Di modo che, come l’Inferno nulla può contro di Lui, così nulla può contro una creatura che dimori in Dio. Egli è la sua forza e
la sua virtù. Dio mia forza (Ps. 17, 2)
». La Forza di Dio sperimentata misticamente rende l’uomo consapevole della sua miseria, della sua assoluta dipendenza da Lui, e lungi dall’insuperbirlo gli fa capire il suo nulla a cospetto di Dio o meglio che egli, l’uomo, nulla sarebbe senza Dio e che tutto quel che di buono egli è ed ha è da Dio: «Il secondo modo per avere questa forza di Dio in noi è quello di temer molto: è vivere al cospetto della nostra impotenza e del nostro nulla, rimettendoci a Dio e credendo in Lui che tutto può in noi». “Initio Sapientiae timor Domini”, è scritto nel salmo.

Blaise Pascal

Lo stesso tema della contemporanea “grandezza e miseria” dell’uomo davanti a Dio era trattato nei medesimi anni da Blaise Pascal: « … Noi navighiamo in un vasto mare, sempre incerti e instabili, sballottati da un capo all’altro. Qualunque scoglio, a cui pensiamo di attaccarci e restar saldi, vien meno e ci abbandona e, se l’inseguiamo, sguscia alla nostra presa, ci scivola di mano e fugge in una fuga eterna. Per noi nulla si ferma. (…) che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in confronto all’infinito, un tutto in confronto al nulla, un qualcosa di mezzo fra nulla e tutto» (“Pensieri”, 72). Tuttavia per Pascal, grande scienziato e matematico a cui dobbiamo scoperte senza delle quali oggi non avremmo l’informatica, il Dio rivelatosi non è solo quello che si pronuncia nella creazione ma quello che lo fa anche nella salvezza offerta all’uomo « Il Dio dei Cristiani non è un Dio semplicemente autore delle verità geometriche e dell’ordine degli elementi, come la pensavano i pagani e gli Epicurei. (…) il Dio dei Cristiani è un Dio di amore e di consolazione, è un Dio che riempie l’anima e il cuore di cui Egli s’è impossessato, è un Dio che fa internamente sentire a ognuno la propria miseria e la Sua misericordia infinita, che si unisce con l’intimo della loro anima, che la inonda di umiltà, di gioia, di confidenza, di amore, che li rende incapaci d’avere altro fine che Lui stesso» (“Pensieri, 556). Pascal ebbe il dono dell’esperienza mistica, come è testimoniato da un suo autografo ritrovato cucito nella federa interna della sua giacca dopo la sua morte. Rapito nell’estasi mistica ha lasciato scritto, con un linguaggio che tradisce il ritmo dell’irruzione della infuocata gioia assoluta, quel che ha provato durante quell’esperienza «FUOCO. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto fuorché di Dio …» (“Memoriale”).

Alcuni, ancora oggi, diffidano del grande matematico francese a causa del suo iniziale, e poi ripudiato, giansenismo. Costoro però non colgono affatto che la critica pascaliana – critica proveniente non da uno “spiritualista” ma da uno scienziato – all’orgoglio reificante della ragione, nella sua pretesa di catturare il mistero dell’essere e costringerlo nei suoi angusti schemi, non è per niente un’avversione, come quella di Lutero, verso la ragione – come avrebbe mai potuto un grande matematico negare alla ragione quanto è della ragione – ma soltanto un umile riconoscimento dei suoi limiti. Infatti la ragione, intesa come razionalità, non può accedere al Sovrarazionale se non le è consentito e questo vale anche per la ragione filosofica e teologica. Ma affinché la ragione, senza rinnegarsi, possa accedere al Mistero di Dio essa deve lasciare spazio al “cuore”, che non è riduttivamente la sentimentalità o l’emotività ma è il luogo psico-fisico nel quale Dio parla all’uomo, nel quale Dio è presente nell’uomo. Questo è il senso autentico dell’affermazione pascaliana per la quale: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce (…). Io dico che il cuore ama l’Essere universale …» (“Pensieri” 277). Il cuore non agisce irrazionalmente ma segue un’altra strada rispetto alla ragione, anzi esso ha una sua “ragione”.

La più recente ricerca scientifica ha provato che il cuore umano è dotato di una vasta rete neuronica la quale forma in lui un vero e proprio sistema “cerebrale” di memoria, identità e volontà. In altri termini il cuore, inteso come organo fisico e non solo in senso psichico e spirituale, pensa e lo fa in modo più alto e raffinato del cervello. Il cuore, dunque, è centro della coscienza spirituale, ci assicura la scienza odierna. Possiamo allora comprendere ancor di più perché Pascal affermava che: «E’ il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ed ecco cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione (…). Quanta distanza c’è tra la nostra conoscenza di Dio e l’amarlo! (…). Conosciamo la verità non solo con la ragione, ma anche col cuore; ed è in questo secondo modo che conosciamo i principi primi, e inutilmente il ragionamento, che non vi ha parte, s’industria di combatterli. (…). Sappiamo di non sognare; per questo siamo impotenti a darne le prove con la ragione, questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza della nostra ragione, ma non per l’incertezza di tutte le nostre conoscenze (…). Infatti la conoscenza dei principi (…) è più salda di qualunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore … la ragione deve appoggiarsi, e su di esse fondare tutto il suo ragionamento. (…). Questa impotenza non deve dunque servire ad altro che a rendere umile la ragione – la quale vorrebbe giudicare di tutto – ma non già a combattere la nostra certezza (…)» (“Pensieri” 278, 280, 282).

APOFATICO E CATAFATICO

Tra i Padri latini della Chiesa, Agostino, Ireneo e gli altri non furono, però, i primi ad aver camminato sulla strada teologico-mistica alla ricerca del Dio contemporaneamente nascosto e rivelato, apofatico e catafatico. Quella strada era già stata tracciata apostolicamente quantomeno da Giovanni e Paolo. Secondo Atti 17,28, Paolo, richiamandosi proprio alla dottrina platonica e per la precisione citando i “Fenomeni”, 5, di Aratro di Soli, spiegò agli ateniesi dell’areopago, benché essi da buoni platonici non lo credettero per quanto concerne la resurrezione dei corpi, che il Deus absconditus si era rivelato e quindi si era reso accessibile all’uomo e lo aveva chiamato nel Suo amore all’integrale salvezza in spirito, anima e corpo: «Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: “Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è il Signore del cielo e della terra (…). Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini … perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto …».

Gaio Mario Vittorino Afro, che fu retore romano e maestro di san Gerolamo, è annoverato tra i Padri latini. Con la sua, benché tardiva, conversione influenzò anche Agostino come egli stesso ricorda nelle “Confessioni” Libro 8, V. Platonico dal punto di vista filosofico al momento della conversione elaborò un sistema nel quale l’assoluta trascendenza di Dio, secondo un accentuato carattere apofatico, non si oppone affatto alla creazione che è opera Sua. Sicché in Vittorino il platonismo, con forti accenti porfiriani, viene trasformato nella rivalutazione biblica della bontà di ciò che esiste perché ciò che esiste viene da Lui. Per Vittorino, Dio si trova al di là dell’esistenza e di tutti gli enti. Egli trascende anche la sfera del pensiero e quindi non è possibile concettualizzarLo o catturarLo per rinchiuderLo in schemi logici. Dio è assolutamente inconoscibile ed ineffabile ma è anche rivelato perché causa delle cose.

Nella sua opera “De generatione Divini Verbi ad Candidum Arianum” (13,1) Vittorino scrive: «Cos’è allora Dio, se non è nessuno di questi: né i veramente enti … né i semplicemente non-enti? Dio infatti li produce in quanto è causa di tutti questi. D’altra parte è sacrilego pensare che Dio faccia parte dei veramente non-enti. Allora è necessario pensare che per superiorità ed eminenza su tutti gli enti, Dio è al di sopra di ogni esistenza, di ogni vita, di ogni conoscenza, al di sopra di ogni ente, dato che è inintelligibile, infinito, invisibile, inconcepibile, non-sostanziale, inconoscibile, e poiché è al di sopra di ogni cosa, non è nessuno degli enti, e poiché è al di sopra degli enti non riceve nulla dagli enti. Dio è quindi non-ente. Che cos’è dunque questo non-ente al di sopra dell’ente? Esso è tale che non è conosciuto né come ente né come non-ente, ma come conoscibile nella non-conoscenza, giacché è allo stesso tempo ente e non-ente, poiché per sua stessa potenza ha portato l’ente a manifestarsi e l’ha generato. Del resto è secondo ragione (logos) che sia così».

Un linguaggio, quello di Vittorino, che può sembrare apofatico oltre ogni misura, ed infatti è strettamente debitore della tradizione neoplatonica, ma – a ben osservare – visibilmente preoccupato ed attento ad accordare questa teologia negativa, esaltante l’infinita differenza ontologica di Dio rispetto al creato e che in Vittorino ha trovato una delle massime espressioni antiche, con la Rivelazione abramitica sulla bontà dell’opera di Dio nella quale Egli, l’apofatico “Io sono”, si rivela e si rende conoscibile, accessibile, senza degradarsi. Vittorino, pertanto, afferma la trascendenza di Dio rispetto a tutti gli enti ma non rispetto all’essere, pone una distinzione netta tra l’essere e gli enti ed  identifica Dio con l’essere. La distinzione ontologica tra essere ed ente esprime la Potenza Divina da cui provengono tutti i singoli enti. L’essere si identifica con Dio perché Principio generante l’esistenza degli enti, da essi partecipato ma in sé stesso impartecipato. L’essere che per Vittorino ontologicamente è il Primo corrisponde all’“esse ipsum subsistens” di san Tommaso d’Aquino, che nella sua autosussistenza rivelata dice al tempo stesso dell’apofaticità e della catafaticità di Dio.

A Mario Vittorino Afro va ascritto il merito di aver saputo dare una prima traduzione in termini di metafisica della Trascendenza Uni-Trinitaria del Dio Persona che è il portato della Rivelazione ebraico-cristiana. Dopo di lui, altri, da Agostino fino a Tommaso d’Aquino, hanno percorso fruttuosamente la stessa strada. Ecco perché per Vittorino, alla fine, Dio si rivela nella luminosissima luce da cui procede ogni essere, ogni ente. Questa luce luminosissima corrisponde in pieno alla “luce che acceca” di cui parla, usando altre volte la definizione negativa di “tenebra inaccessibile”, san Giovanni della Croce.

Nell’opera, sopra già citata, sulla Generazione del Verbo Divino, Mario Vittorino Afro delinea una spiegazione della Trinità Divina che mette in rilievo all’interno delle stesse relazioni intra-trinitarie le radici della contemporanea apofaticità e catafaticità di Dio. Il Figlio è l’essere nella sua pienezza, l’essere infinito ed eterno, mentre il Padre è il “non essere” da cui l’essere, il Figlio, è eternamente generato per l’Amore dello Spirito Santo. Qui, spiega Vittorino, per “non essere” non si deve intendere l’assenza di essere, il “nulla”, ma il Principio quale Pre-Essere dal quale il Figlio, l’Essere, procede eternamente (e non temporalmente!) essendo la Tre Persone coeterne e coeguali. Nella spiegazione di Vittorino, Dio-Padre rimane al di là, oltre, lo stesso Dio-Figlio, oltre il Verbo, che è l’Essere auto-sussistente per mezzo del quale tutte le cose sono state create per partecipazione ontologica. Quindi tanto ciascuna creatura presa singolarmente quanto tutte le creature prese insieme sono in Dio ma hanno Dio come altro da sé. Il Verbo è la Luce Increata che procede dal Padre inteso come Luce inaccessibile mentre è accessibile la Luce del Verbo che si rivela agli uomini. Dio è nascosto nel Padre e rivelato nel Figlio per opera dello Spirito Santo che è l’Amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre. Questo consente anche di comprendere cosa intende san Giovanni della Croce quando, a sua volta, parla di “tenebra inaccessibile”. In Dio non vi è oscurità (in Lui, infatti, “non vi è tenebra alcuna …” come ricorda san Giovanni evangelista nella sua Prima Lettera, I, 5) sicché la Luce Inaccessibile del Padre è sperimentata dal mistico come “tenebra superiore” proprio perché trattasi non di oscurità ma di Luce tuttavia non accessibile come quella del Figlio. L’Essenza di Dio, inaccessibile nel Padre, è accessibile nel Figlio.

L’approccio diretto alle fonti attesta che per la Rivelazione abramitica Dio è insieme absconditus et revelatus. Mai solo nascosto o solo rivelato. Nel Dio biblico non c’è mai opposizione tra apofaticità e catafaticità. Tanto la teologia negativa – via negationis – quanto la teologia affermativa – via affirmationis – hanno diritto di cittadinanza. La rottura della relazione ad un tempo di alterità e di analogia tra Dio e mondo porta all’eterodossia, ossia al “soprannaturalismo nichilista” o al “naturalismo razionalista”. Il rischio dell’apofatismo assoluto è quello di perdere di vista la bontà dell’essere, la partecipazione ontologica delle creature a Dio; il rischio del catafatismo assoluto sta nel non considerare l’in-attingibilità, senza la Sua rivelazione, dell’Essenza di Dio e quindi l’impossibilità di “catturarla” in senso assoluto mediante l’essere delle creature o il pensiero discorsivo. La Teologia negativa rischia di perdersi in un “soprannaturalismo” assoluto laddove la Teologia affermativa ha il suo rischio nella tentazione di “cosificare” Dio, di “reificare” il Mistero di Dio, in angusti schemi razionali o sillogistici.

Nella storia della spiritualità cristiana le due vie, per negationis e per affirmationis, non si sono mai date in opposizione ma sempre in stretta correlazione. Lo Pseudo-Dionigi Areopagita, considerato padre della teologia negativa, ha ampiamente usato anche della via affirmationis. D’altro canto Tommaso d’Aquino, il teologo dell’Essere, non può essere riduttivamente considerato sic et simpliciter, come spesso fanno anche i tomisti “scolastici”, un mero aristotelico. L’Aquinate, quello vero, quello aperto alla mistica, è stato un attento lettore e commentatore di Agostino e dello Pseudo-Dionigi ed un attento indagatore anche della via negationis. San Tommaso D’Aquino alla fine della sua vita ebbe la grazia di sperimentare misticamente l’Amore di Dio. Tale esperienza è sempre gratis data, ossia donata da Dio, mai “auto-costruita” dall’uomo. Si racconta che l’Aquinate, dopo quella esperienza, volesse bruciare tutti i suoi scritti perché, come confessò al suo allievo e segretario Reginaldo, nulla può descrivere l’Essenza di Dio. Ma, passato quel sublime momento, acconsentì a che le sue opere non fossero distrutte perché si rese conto, forse molto meglio di prima proprio grazie a quell’esperienza, che la ragione, teologica, filosofica o scientifica che sia, non è da rifiutare perché essa pur limitata nelle sue possibilità di cogliere il Mistero, che la supera infinitamente, svolge un necessario e prezioso ruolo di preparazione: «Gratia naturam supponit, non tollit sed perficit».

La ragione è anch’essa un dono di Dio e ci può portare fino alle soglie del Mistero, come Virgilio accompagnò Dante fino alle soglie del Paradiso, senza tuttavia poterlo penetrare perché a quel punto è necessario un “salto ulteriore”. Ma anche questo salto è sempre dono gratuito di Dio e non “conquista” o “autocostruzione” dell’uomo. L’uomo è chiamato a fare la sua parte, perché egli non è nulla ma creatura amata dal suo Creatore che lo ha voluto consistente in Lui e per Lui. Ma giunti ad un certo punto, quello nel quale l’uomo non può più nulla da sé, l’iniziativa passa completamente a Dio il Quale comunque, fino a quel punto, ha egualmente e segretamente guidato ed attratto l’agire umano verso di Sé.

L’errore sta nella contrapposizione delle due vie perché opponendole si pretende che Dio sia solo absconditus o solo revelatus. Già san Bonaventura era affascinato dal carattere apofatico del Nome di Dio, che dicendo “Io sono”, si è sottratto ad ogni determinazione. E tuttavia, da buon francescano, egli non poteva non scorgere in quell’“Io sono Colui che Sono” anche la Rivelazione del Dio nascosto e dunque l’affermazione dell’Essere di Dio che, come aveva cantato Francesco, si riflette significativamente (“di Te, Altissimo, porta significatione”) nella bontà del creato.

«Nel cristianesimo c’è vera gnosi solo in base a una previa rivelazione di Dio – ha scritto Battista Mondin trattando dell’incontro tra ellenismo e fede cristiana nei Padri della Chiesa ed in particolare in Clemente Alessandrino ed Origene –. Per quanto attiene la metafisica, a Clemente spetta il merito di aver gettato le basi della metafisica cristiana. Di quest’ultima egli ha legittimato l’esistenza, rivendicando al cristiano il diritto ed il dovere di capire il significato della propria fede e di renderla comprensibile anche ai pagani. Quella di Clemente è una metafisica largamente debitrice a Platone e Filone. Nella struttura piramidale, nel metodo dialettico, nella costruzione “dall’alto” è una metafisica platonica e filoniana; nell’utilizzazione del metodo allegorico è filoniana. Ma la metafisica di Clemente è innovatrice rispetto a Platone e a Filone su tre punti di capitale importanza: la rigorosa applicazione del teorema della creazione con l’eliminazione di qualsiasi intermediario e con l’estensione della “creatio ex nihilo” anche alla materia; l’affermazione categorica dell’unicità della causa prima; la caratterizzazione in senso personalistico e agapico del primo principio, Dio: è un Dio con cui l’uomo può intrattenere rapporti personali, ed è soprattutto un Dio che è essenzialmente amore, i rapporti del quale con le sue creature, con l’uomo in particolare, sono tutti dettati dall’amore. Queste importanti innovazioni trasformano la metafisica ellenica in metafisica cristiana. (…). Assolutamente trascendente il mondo della materia, Dio (per Origene) supera infinitamente anche la capacità di comprensione della nostra intelligenza: “La sua realtà è incomprensibile e imperscrutabile. Qualunque cosa infatti potremo pensare e comprendere di Dio, dobbiamo credere che Egli sia di gran lunga superiore a ciò che di Lui pensiamo (…). Perciò la sua natura  non può essere compresa dalla capacità dell’intelligenza umana, anche se è la più pura e limpida” (I, 1, 5). Incomprensibile nella sua natura e indefinibile nella sua essenza, Dio, …, non rimane tuttavia inaccessibile all’intelligenza umana, perché, pur non potendo con le sue forze concepire Dio quale è in sé stesso, tuttavia “dalla bellezza delle sue opere e dalla magnificenza delle sue creature, essa lo riconosce Padre dell’universo” (I, 1, 6). (…) come … Clemente, così pure Origene si muove lungo la linea platonica, ossia lungo la linea dell’apofatismo. Anche per Origine Dio, qual è in se stesso, nella sua vera natura, è essenzialmente inconoscibile. Ma come i(l) suo …predecessor(e) anch’egli cerca di salvaguardare l’elemento biblico della conoscibilità e effabilità di Dio. Questo però lo riferisce alle potenze, alle facoltà, agli attributi dinamici di Dio. Così egli viene a sostenere un catafatismo limitato alle proprietà dinamiche di Dio e ai suoi rapporti col mondo e con l’uomo, che è il catafatismo già ammesso … da Clemente. Con questa distinzione capitale fra apofatismo circa la natura divina e catafatismo circa gli attributi dinamici di Dio i … grandi pensatori religiosi di Alessandria hanno offerto una soluzione al problema del linguaggio teologico che troverà largo seguito durante tutto il periodo patristico e oltre » (8).

“Durante il periodo patristico ed oltre” dice il Mondin. Ad esempio nell’esplorazione mistica di Ildegarda di Bingen circa la Santissima Trinità. Laddove questa grande mistica medioevale, nelle pagine di “Scivias”, la sua opera più nota, spiega il significato di una visione simbolica di cui fu beneficiata nell’estasi: «La luce senza origine, cui nulla manca, è il Padre. La forma d’uomo di color zaffiro, senza macchia d’imperfezione, invidia e iniquità, indica il Figlio … Tutta questa luce, ardente di un fuoco dolcissimo, privo di ogni forma di arida e tenebrosa mortalità, rappresenta lo Spirito Santo, grazie al quale l’Unigenito di Dio fu concepito secondo la carne … Lo Spirito infonde nel mondo la luce del vero splendore».

Luigi Copertino

Continua

NOTE

5) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri “Il pensiero occidentale …”, op. cit., pp. 445-446. Le citazioni dei testi di Bonaventura sono tratta da quest’opera.

6) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri “Il pensiero occidentale …”, op. cit., pp. 447.

7) Cfr. Giovanni Reale e Dario Antiseri “Il pensiero occidentale …”, op. cit., pp. 440-441.

8) Cfr. Battista Mondin “Storia della metafisica”, Vol. II, Edizioni Studio Domenicano, p. 42, 53-54, 66.