CRISTO ROMANO – di Luigi Copertino

CRISTO ROMANO

A ben leggere il senso degli eventi storici è evidente, indagando più a fondo, che ogni posizione anti-romana corrisponde ad una posizione anticristiana. Di questa evidenza hanno perso consapevolezza persino molti cristiani, almeno da quando Lutero ha identificato in Roma la bestia apocalittica rivivificando il filone ereticale dei circoli eterodossi, dei primi secoli, come il montanismo, nel quale finì irretito Tertulliano. L’eterodossia di questi circoli era espressione di un fondamentalismo letteralista ed al tempo stesso spiritualista, ossia intriso di “entusiastiche possessioni” (del resto la possessione medianica caratterizzò anche il tardo paganesimo decadente), le quali rifiutavano ogni dimensione politica e sociale, perfino il matrimonio, in nome di un pacifismo pauperistico che del Vangelo era una distorsione.

Certamente è esistita anche una pseudo-romanità anticristiana. Essa, nell’antichità, corrispose al dominio assolutistico di alcuni imperatori “orientalizzati” ossia che, contro le stesse tradizioni pluralistiche romane, concepivano il proprio potere come totalizzante. Nerone, Domiziano, Diocleziano, non a caso persecutori della Chiesa nascente, erano tra questi. I primi due, inoltre, erano anche affetti da ossessioni di natura psichica che non sfuggirono ai loro contemporanei. Il secondo, invero – nonostante la riforma dell’impero, in apparenza “pluralista” ma in realtà intesa a rafforzare il tendenziale assolutismo dell’istituzione imperiale, nata in età augustea come Principatus ma sviluppatasi poi con caratteri sempre più accentratori rispetto ai tradizionali centri di potere, dal senatorio al popolare –,  era piuttosto conservatore in materia religiosa e sembra che volesse limitarsi solo ad un giro di vite contro i cristiani anziché organizzare una vera e propria persecuzione alla quale fu indotto dal suo collega Galerio accesamente anticristiano.

Che questi imperatori fossero eredi della autentica tradizione romana è cosa quantomeno dubbia. Nel caso di Nerone poi con tutta evidenza siamo del tutto lontani dal realismo romano ed in presenza di un atteggiamento assolutista fortemente pronunciato ed influenzato da una chiara vena di megalomania.

Orbene – nonostante la vexata quaestio del servizio militare, sul quale la Chiesa nascente, pur senza contrapporsi frontalmente, si mostrò ondivaga almeno fino a quando esso comportò sacrifici idolatrici agli déi o all’imperatore, mentre, superato, con Costantino, questo problema, ossia separata la condizione militare da quella idolatrica, Essa si mostrò aperta verso la compatibilità tra Cristianesimo e militia terrena – gli altri imperatori se non addirittura favorevoli, certo per motivi politici, alla nuova fede, come Tiberio (Cfr. Marta Sordi “I cristiani e l’impero romano”, Jaca Book, Milano, 2006), si mostrarono quantomeno tolleranti verso il Cristianesimo.

Il caso di Marco Aurelio fu del tutto particolare, un equivoco, dato che, al contrario, tra stoici e cristiani correva molta reciproca simpatia e comprensione sin dai tempi dell’apostolo Paolo. Il fatto era che, in un’epoca, quella aureliana, preda di disordini, invasioni e carestie, il popolo trovò nei cristiani il capro espiatorio cui addossare la causa dell’ira degli déi, sicché Marco Aurelio, che personalmente non li disprezzava né li riteneva pericolosi – casomai un po’ fanatici confondendoli con i montanisti e gruppi simili i quali, a differenza dei cristiani ortodossi, cercavano, con l’autodenuncia, il martirio in disprezzo e sfida aperta all’Autorità romana – fu in qualche modo coartato dalle circostanze verso una politica repressiva nei confronti della nuova fede.

Anche nella modernità, a partire dal XV secolo, è possibile incontrare una pseudo-romanità, artistico-letteraria e filosofico-politica, che ha segnato di sé il Rinascimento, l’Illuminismo, l’Ottocento giacobino-mazziniano, fino al niccianesimo neopagano. Ma che questa – quella della “terza Roma” di Mazzini, che poi ritroviamo nel fascismo insieme con il fascio littorio mutuato però dalla simbologia politica repubblicana dei giacobini di Robespierre – fosse l’autentica Romanità, e non invece una sua ricostruzione falsificante nonché postuma ed ideologica, potevano crederci solo i militanti e le masse irretite dalla propaganda. Tanto ciò è vero che quando Mussolini ebbe necessità di risolvere la “questione romana” dovette fare i conti con le radici cattoliche degli italiani iniziando un percorso, anche personale (secondo alcuni storici fino alla conversione nel 1943-45), di riavvicinamento alla Roma cristiana nella speranza, che d’altro canto fu coltivata anche da parte ecclesiale, di inserire il fascismo nell’alveo dell’Universalità romano-cristiana, unica possibilità per esso di assurgere ad una altezza universale e di recuperare più salde radici e fondamenta spirituali e storiche. Purtroppo, come sappiamo, il deragliamento, più o meno voluto o forzato nelle concrete circostanze del momento, verso il nazismo neo-paganeggiante infranse la speranza coltivata sia da Pio XI che da Mussolini, pur agli inizi nell’ambiguità politicamente strumentale di quest’ultimo.

Abbiamo definito il nazismo “neopagano” per sottolineare il “neo” che sta ad indicare, anche in tal caso, una operazione di mistificazione ideologica del Sacro precristiano. Il tentativo di riesumare in chiave ideologica il Sacro precristiano è stato un espediente strumentale della politica di massa novecentesca perché, in realtà, esso, svolta la sua funzione preparatoria, era ormai sepolto in ciò che non aveva di imperituro mentre in ciò che lo era aveva trovato, nonostante tutto, accoglimento e continuità nel Cristianesimo.

Il Dante che cantava della “Roma onde Cristo è romano” (Purgatorio XXXII, 102) non inventava nulla ma ribadiva un dato acquisito dalla coscienza cristiana sin dalle origini, alla luce, ad esempio, della profezia di Daniele sui quattro imperi che avrebbero preceduto il Messia. La convinzione che Roma, sotto la cui Legge nacque Cristo, nel disegno divino fosse preordinata alla riunificazione delle genti, per facilitarne, in Cristo, l’ingresso nell’Alleanza Universale di Dio con Abramo, si riscontra sin da subito nella coscienza cristiana. Roma, dunque, aveva in serbo il suo destino cristiano così come la Chiesa nascente recava seco il suo destino romano.

Oggi, invece, anche nell’ambiente cattolico si è fatta strada una equivoca ed ambigua visione se non apertamente anti-romana quantomeno sommessamente tale, e quindi, in quanto tale, apostata verso la Tradizione e rinnegatrice della fede in Cristo. Si tratta certamente del contraccolpo ricevuto dall’infiltrazione protestante nella teologia e nella predicazione ma c’è anche, sotto parvenze “ecumeniche”, un sottile influsso giudaico postbiblico. Un influsso evidente, ad esempio, nella filmografia, anche televisiva, più recente che – a differenza di capolavori come il Gesù di Zeffirelli o La Passione di Mel Gibson – cerca, contro il racconto evangelico nel quale il governatore della Giudea appare piuttosto come uno scettico che prova persino a salvare Gesù, di addossare la responsabilità della Crocifissione tutta su Pilato e sui romani, secondo una falsa neovulgata per la quale Cristo sarebbe stato un pericoloso rivoluzionario sospetto al potere romano, per escludere da ogni responsabilità coloro che, per la testimonianza ictu oculi degli apostoli riportata nei Vangeli, ne hanno invece contratto tutto il peso e che – si badi! – non sono gli ebrei in generale, i quali al contrario accolsero entusiasti Cristo a Gerusalemme, per quanto poi essi siano rimasti irretiti nella trappola preparata dai loro maggiorenti, ma i sinedriti, i componenti della chiusa casta sacerdotale del Sinedrio. Non tutti, d’altro canto, perché anche Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che amavano il Signore, erano sinedriti.

Ai piedi della Croce fu un romano a riconoscere, per primo, che davvero Lui era Figlio di Dio. Dopo la Resurrezione, come narrano gli Atti degli Apostoli, Pietro vince le sue remore, tutte intrinsecamente ebraiche, ad accogliere nella Chiesa i gentili. Pietro si lasciò vincere sia dall’ammonizione di Paolo, durante il primo Concilio di Gerusalemme, sia soprattutto dallo Spirito Santo nell’episodio del centurione Cornelio nella casa del quale egli viene letteralmente spinto. Grazie all’apertura mistica, sperimentata in quell’occasione, Pietro si convinse definitivamente che la rigida distinzione antico-testamentaria tra purità ed impurità, per la quale i pagani al cospetto degli ebrei erano impuri, fosse ormai superata in Colui nel Quale non c’è più giudeo né greco. Storicamente, già nel primo secolo avanti Cristo lo stesso ebraismo, mentre incontrava l’ellenismo, si era aperto al mondo pagano assorbendone i grandi valori sapienziali che, poi, i Padri della Chiesa avrebbero innestato sul tronco di Cristo.

Questo tronco è l’Olivo Santo di Israele di cui parla Paolo, nella Lettera ai Romani, invitando i cristiani di provenienza pagana a riflettere sul Mistero della Salvezza offerta loro finalmente innestati su quell’Albero – l’Albero Edenico della Vita e della Conoscenza, che è la Croce – mentre ne sono stati momentaneamente recisi gli ebrei, in attesa dei tempi escatologici quando l’epoca dei gentili avrà termine e, reinnestati anche gli israeliti secondo la carne, tutto Israele, quello dei gentili e quello degli ebrei, sarà salvo. La prospettiva escatologica paolina oggi deve essere ampliata aggiungendo alla totalità dell’Israele dell’Ottavo Giorno anche gli altri figli carnali di Abramo ossia gli arabi depositari di una promessa, a latere, fatta nel Genesi ad Ismaele, il loro capostipite biblico, che ai tempi di Paolo non ancora si era adempiuta. Si tratta degli islamici, attualmente ignari dell’annuncio della Divino-Umanità di Cristo contenuto nel Corano, che santa Caterina da Siena in una visione mistica vide entrare, durante il Giudizio Universale, per una fila separata da quella dei cristiani nel Ferita Aperta del Costato di Cristo.

Nel primo secolo avanti Cristo si era manifestato il fenomeno dei cosiddetti “proseliti” ossia pagani che si accostavano alla fede israelitica ma che, per via del provvisorio legame anticotestamentario tra Rivelazione ed eredità etnica per il quale si era nell’Alleanza soltanto se di discendenza ebraica, non potevano essere ammessi in senso pieno al culto ebraico del Tempio ed ai suoi riti. Per costoro esisteva persino, nelle adiacenze del Tempio, uno spazio ad essi riservato, la “corte dei gentili”, dal quale assistevano, ma come esterni, ai riti. Una posizione ancora più lontana dal cuore del Tempio di quella delle donne ebree che erano ammesse ma in un’area separata da quella degli uomini. Probabilmente il centurione Cornelio, degli Atti degli Apostoli, come anche il centurione che Cristo elogia di persona, nei racconti evangelici, salvo che addirittura non fossero lo stesso soggetto, appartenevano a questa cerchia dei “proseliti” i quali in Gesù videro finalmente Colui che li ammetteva pienamente nella Rivelazione.

I Vangeli testimoniano della grande simpatia che Cristo aveva per i gentili ed in particolare per i romani – cosa che gli alienò il consenso dei gruppi fondamentalisti ed antiromani come gli zeloti – al punto da elogiare la fede di questi non ebrei perché più grande di quella degli israeliti. Di seguito riportiamo il passo del Vangelo di Luca sull’incontro tra Cristo ed il centurione romano il cui servo era prossimo alla morte. Va notato, nel racconto, come tale centurione fosse ben voluto dagli ebrei di Cafarnao perché li amava ed aveva, addirittura, costruito per essi la sinagoga pur sapendo che egli non poteva entrarci. Era sicuramente un “proselito”. Ma il punto focale del racconto sta nella grande fede di questo pagano che manda a dire a Cristo di non disturbarsi per un non ebreo, come lui, indegno di riceverlo sotto il suo tetto. Sarebbe bastato un suo ordine ed il servo sarebbe guarito. Da buon soldato e da buon romano, il centurione aveva forte il senso della gerarchia e dell’obbedienza e, per spiegarsi, ricorre all’esempio della disciplina militare fatta di comandi e di adempimenti dei comandi senza alcuna necessità per i superiori – egli riconosceva la superiorità di Gesù – di controllare che i subalterni eseguano quanto loro comandato. Una logica mirabilmente ed essenzialmente romana che Nostro Signore Gesù Cristo pubblicamente approva e, per lo scandalo di molti ebrei, elogia come espressione di una fede molto più grande di quella tra i più pii in Israele.

Basta questo passo evangelico per dissolvere l’intero complesso della moderna mitologia neopagana sulla presunta antiromanità di Cristo e del cristianesimo e per demolire la mole di chiacchiere e di fole polemiche in materia, benché condite con l’eleganza intellettuale, ossia la prosopopea, dei cosiddetti “sapienti secondo il mondo”.

Luigi Copertino

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 7,1-10.

In quel tempo, Gesù quando ebbe terminato di rivolgere tutte queste parole al popolo che stava in ascolto, entrò in Cafarnao. Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. Costoro giunti da Gesù lo pregavano con insistenza: «Egli merita che tu gli faccia questa grazia, dicevano, perché ama il nostro popolo, ed è stato lui a costruirci la sinagoga».

Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non stare a disturbarti, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Và ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fà questo, ed egli lo fa».

All’udire questo Gesù restò ammirato e rivolgendosi alla folla che lo seguiva disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.

da FB