UNA BOLLA CHE VIENE DA LONTANO (parte terza)

UNA BOLLA CHE VIENE DA LONTANO (parte terza) – di Luigi Copertino
on set 12, 2015

Dalla bolla finanziaria alla bolla delle esportazioni asiatiche

Dunque, il ruolo svolto dall’Asia emergente, in particolare dalla Cina, e dai nuovi ceti medi extra-occidentali come finanziatori a credito del parvente benessere dei vecchi ceti medi occidentali, a rischio di depauperamento, è stato decisivo nel processo di finanziarizzazione dell’economia globale. L’antefatto di questo scenario ha la sua radice nelle politiche neoliberiste, inaugurate dalla Thatcher e da Reagan negli anni ’80, con lo smantellamento dello Stato sociale, costruito quest’ultimo a partire – attenzione! – non dagli anni ’50, come comunemente si pensa, ma ancora prima ossia dagli anni ’30, sia nell’Europa continentale dei nazionalismi sociali sia nel mondo anglosassone ed americano del New Deal.

Tuttavia il ruolo della Cina, e dell’Asia emergente, è stato fondamentale anche nella globalizzazione del mercato dei beni. Infatti, la seconda questione che dobbiamo esanimare è proprio quella degli effetti della globalizzazione nel mercato reale dei beni, strettamente intrecciato, nel panorama sopra descritto, con le dinamiche della finanziarizzazione e dei suoi squilibri.

Il ri-orientamento delle economie nazionali esclusivamente verso i mercati esteri a discapito di quelli interni è stato perseguito in un’ottica smithiana, quella della “mano invisibile” estesa a livello globale. In altri termini, la convinzione che il mercato sia un meccanismo essenzialmente armonico, e sempre capace di autoregolazione, ha indotto gli “strateghi-stregoni” del WTO a pianificare la globalizzazione dei mercati, il mercato unico mondiale, come luogo senza governo ossia senza alcun organismo, inter-statuale, di redistribuzione perequativa e senza alcuna via istituzionale e dunque politica di riequilibrio delle bilance commerciali e finanziare degli Stati e di graduale avvicinamento dei parametri economici delle singole economie nazionali, in modo da renderle assimilabili ed evitare la formazione, naturale per il mercato, sia interno che internazionale, se lasciato libero, di dipendenze di tipo neo-coloniale tra l’una e l’altra. Sulla base di una rappresentazione, tanto astratta quanto irreale, delle diverse economie nazionali come caratterizzate tutte dagli stessi parametri o, il che è la stessa cosa, sulla base dell’idea che i processi di scambio transnazionali di per sé sarebbero stati, da soli, capaci di colmare differenze e squilibri tra le diverse singole economie, il WTO ha previsto una impalcatura normativa che impone agli Stati politiche di assoluta dipendenza dalle sole, reciproche, esportazioni.

In questo senso la tendenza alla creazione di “aree valutarie ottimali”, senza però la presenza di una Autorità Politica, Stato o Confederazione di Stati, che con un largo bilancio pubblico e una banca centrale prestatrice di ultima istanza e “garante” del debito pubblico, che possa funzionare come “stanza di compensazione” tra le diverse economie e come riequilibratore degli squilibri, ha posto le condizioni per la crescita irrazionale e tumultuosa di alcuni Paesi e la contemporanea decrescita, altrettanto irrazionale e tumultuosa, di altri Paesi, nella errata convinzione che, alla fine, per una sorta di legge dei vasi comunicanti, la ricchezza, come l’acqua, si sarebbe redistribuita automaticamente e spontaneamente, per sola intrinseca virtù dello scambio transnazionale, fino a raggiungere un equilibrio globale parificatore e livellatore. Sulla base di questa convinzione va interpretata la formazione di aree monetarie a cambio fisso o a moneta unica, perché in tal modo, eliminando il rischio del cambio, diventava più facile costruire relazioni di scambio commerciale basate sulle esportazioni. Sì, anche il libero mercato è una costruzione e non esiste per natura, solo che, come tutte le costruzioni umane sono soggette spesso all’eterogenesi dei fini!

Ma proprio la mancanza di meccanismi di riequilibrio, che il mercato libero non è in grado di assicurare, come ad esempio meccanismi “automatici” di punizione dei surplus prolungati delle bilance dei pagamenti, simili a quelli a suo tempo ipotizzati per il “bancor” da Keynes alla conferenza di Bretton Woods, o meccanismi di riequilibrio, come ad esempio la previsione di standard salariali omogenei, ha posto le premesse per la serie di default che finora la globalizzazione dei mercati, passata la prima euforia, ci ha consegnato e di cui lo stop della Cina è l’ultimo in ordine di tempo e, forse, il primo segnale di una non trascurabile consistenza.

E’ successo, in altri termini, che le imprese occidentali delocalizzavano in Cina, spinte dal low cost del lavoro locale, e questa, a sua volta, con l’abbattimento delle frontiere nel WTO, esportava in Occidente quanto produceva, a basso costo (mettendo in crisi i lavoratori occidentali), sicché, poi, con quanto guadagnava, da tali esportazioni, finanziava, a debito, il mantenimento dei livelli di vita delle classi medie occidentali. In una economia così impostata alla domanda aggregata interna non è data nessuna o pochissima considerazione.

D’altro canto il meccanismo funzionava anche per le produzioni ad alta qualità tecnologica dell’Occidente: Usa, Giappone e Germania esportavano queste produzioni in Cina che le comprava con i guadagni delle sue esportazioni, in un’ottica di divisione internazionale del lavoro (produzioni ad alta qualità tecnologica in Occidente, produzioni ad alta intensità di manodopera in Asia). Almeno fino a quando anche la Cina, e l’Asia in genere, hanno iniziato a produrre prodotti ad alta intensità tecnologica e bassa intensità di manodopera, disponendo ormai di tecnici formatisi in Occidente, disposti a lavorare per salari molto inferiori a quelli dei colleghi americani ed europei, e ponendo le basi per la fuoriuscita dal mercato del lavoro anche dei tecnici occidentali.

Tuttavia, proprio per questa strada, la contrazione della domanda occidentale dei prodotti cinesi, ed asiatici in genere, è ad un certo punto, inevitabilmente, sopraggiunta a causa della contrazione dei redditi occidentali acuita dalla crisi finanziaria globale. Con la conseguenza del crollo delle esportazioni cinesi. L’arresto “improvviso” della crescita, in apparenza inarrestabile, della produzione e delle esportazioni cinesi, ed asiatiche, ha prodotto uno stop all’innalzamento del Pil orientale che era cresciuto dell’8-9% all’anno, con ritmi tali da formare una vera e propria “bolla” la cui esplosione può ora destabilizzare la già precaria situazione globale dell’economia mondiale.

I minimizzatori liberisti imputano la responsabilità di quanto sta succedendo al fatto che quella cinese è una economia dirigista e quindi invocano riforme in Cina di tipo liberista che difficilmente il Partito Comunista Cinese concederà, senza contare che in realtà il dirigismo dei vertici politici cinesi è stato essenziale proprio per creare un mercato libero dove esso inizialmente non esisteva. Sicché se dirigismo è stato esso ha operato in senso liberista, salvo la conservazione del potere della nomenklatura del Partito. Al contempo, tali minimizzatori liberisti, pur di non ammettere che quanto sta accadendo è l’esito dell’utopia della globalizzazione, si consolano affermando che, vista l’enormità della tumultuosa crescita dell’economia cinese, un suo riassestamento verso una più moderata crescita, dell’ordine del 4-5% annui, non deve ritenersi un dramma. In realtà, non si considerano affatto le ripercussioni che ciò può avere in termini sociali ed occupazionali, sia in Oriente che in Occidente.

Quali rimedi?

Le autorità politiche e monetarie cinesi, pur di non ammettere che è giunta la fine del sogno, hanno dato una risposta contraria alla politica di mantenimento della “rigidità flessibile” dei cambi, con dollaro, euro e yen giapponese, fino ad oggi perseguita. La decisione delle autorità politiche e monetarie cinesi di svalutare il renminbi (o yuan), per sostenere le esportazioni, ha però messo in crisi la “paradisiaca armonia” del mercato globale, perché tale decisione apre una fase di guerre valutarie e commerciali. La svalutazione della valuta cinese è, infatti, un grande problema sia per gli Stati Uniti, del tutto dipendenti dal credito cinese, sia per l’Europa, o meglio per la Germania, che, dopo il relativo collasso delle sue esportazioni verso i Paesi euromeditterranei a causa della crisi che ha colpito questi ultimi nella prigione eurocratica, aveva puntato sull’ampio mercato cinese. Ora, però, la svalutazione del renminbi significa maggiorazione dei prezzi dei prodotti tedeschi sul mercato di Pechino. Con l’ulteriore conseguenza che la contrazione delle esportazioni tedesche, ed europee, in Cina, ed in Asia, si ripercuoterà all’interno dell’Eurozona già di per sé pesantemente destabilizzata dalla politica di austerità imposta dalla cecità ordoliberale germanica.

Il vero rimedio cui si dovrebbe tendere è quello della riorganizzazione delle economie nazionali o continentali, laddove esistono mercati di tale tipo, verso una maggiore considerazione dei diritti della domanda aggregata interna, ponendo un limite alle esportazioni ossia introducendo cospicui elementi di autocentricità ma – attenzione! – senza cadere nell’opposto errore dell’“autarchia” assoluta, che è il vero grande pericolo in situazioni come quelle attuali. Insomma bisogna rimodulare il progetto senza radici della globalizzazione, elaborato da ed in funzione del capitale ed in particolare di quello finanziario, e tornare a spazi economici auto-centrici ma avendo cura di evitare ogni tipo di protezionismo del tutto “chiuso” ed asfittico.

Una delle conseguenze del Grande Crollo del 1929 fu l’immediata chiusura protezionista delle economie per difendersi dalle ripercussioni deflattive estere. All’epoca l’interdipendenza tra le economie non era così stretta come oggi e quindi fu più facile tornare al protezionismo. Ma, come accade ad ogni reazione eccessiva ad una eccessiva ed errata azione, anche la risposta, per contraccolpo, si spinse fino all’estremo dell’“autarchia” con la quasi completa scomparsa del commercio internazionale (non si dimentichi che all’epoca le materie prime erano assicurate, per ciascuno Stato, dalle rispettive colonie africane ed asiatiche). Questo rafforzò le tensioni tra le nazioni, come ad esempio nel caso della contesa tra Italia e Francia-Inghilterra a proposito della conquista italiana dell’Etiopia, fino a preparare il terreno per l’esplodere del conflitto più ideologico conosciuto dall’umanità ossia la seconda guerra mondiale.

Che al fallimento del liberoscambismo non si potesse rispondere con l’autarchia assoluta se ne resero ben presto conto tanto gli Alleati quanto l’Asse e l’Urss. La Germania nazional-socialista aveva, infatti, progettato per il dopoguerra, secondo la concezione schmittiana del “Grande Spazio”, un Nuovo Ordine Europeo, nel quale naturalmente il ruolo dominante lo avrebbe giocato essa. Il Giappone cullava analoghi progetti di grande spazio ad egemonia nipponica ed in funzione anti-occidentale in estremo oriente. L’Urss aveva iniziato a pensare ad una zona di influenza sovietica come anticipazione dell’espansione mondiale del comunismo sotto la direzione dello Stato-guida russo-sovietico. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra, dal canto loro, annunciarono, per il dopoguerra, quel Nuovo Ordine che poi fu codificato e realizzato a Bretton Woods, nel 1944, anche se non nei termini neutralizzatori e potenzialmente egualitari, tra Stati, proposto da Keynes con l’idea di una unità contabile internazionale e di una stanza di compensazione inter-statuale dei surplus e dei deficit commerciali e finanziari in un sistema di cambi fissi però flessibili, ma nei termini dell’egemonia del dollaro americano imposto come moneta per gli scambi internazionali almeno in Occidente.

Comunque sia, pur con il vistosissimo difetto di funzionare come strumento dell’egemonia statunitense, l’ordine fuoriuscito da Bretton Woods garantì per oltre mezzo secolo l’equilibrio internazionale tra le economie occidentali ed il controllo sociale dei movimenti di capitale, senza comprimere del tutto le autonomie nazionali e quelle delle stesse valute che potevano oscillare in uno spettro di flessibilità tale da evitare di irrigidire oltre misura il tasso di cambio e quindi di sollecitare insostenibili tensioni tra valute e Stati. Si trattava di un sistema pensato per evitare i due dannosi estremi dell’assoluto libero-scambismo, che poi trionfò con la globalizzazione de-statualizzante dei mercati, e dell’assoluto, autarchico, protezionismo.

Il pericolo a cui può, oggi, esporci l’esplosione della “bolla cinese”, ultima conseguenza della catastrofica utopia mercatista globalizzatrice, è esattamente quello di un caotico disordine mondiale con l’acuirsi dei conflitti tra i popoli e dei quali il dramma della migrazione dal Vicino Oriente e dall’Africa di intere popolazioni verso l’Europa è soltanto la manifestazione più evidente.

La globalizzazione mercatista, come ogni utopistica menzogna, si sta dimostrando incapace di mantenere le sue, millenaristiche, promesse di pace e di benessere universali ed, anzi, sta degenerando nell’esatto contrario di quelle promesse, in ossequio alla legge dell’eterogenesi dei fini.

Il fatto, dall’umanità non ancora compreso, è che essa non è capace di salvarsi da sola. La globalizzazione assomiglia sempre più alla riedizione della biblica Torre di Babele, il sogno prometeico dell’uomo di rendersi immortale e conquistare il Cielo con la sue sole povere forze. Un sogno miseramente fallito nella confusione, appunto “babelica, universale alla quale solo la Pentecoste dello Spirito Santo ha potuto porre rimedio consegnando l’uomo alla vera Pace che però non è di questo mondo benché in questo mondo gli uomini di buona volontà possono perlomeno operare prendendola a modello nella costante ricerca etica del Bene Comune e chiedendola nell’umiltà della giusta disposizione del cuore che è solo quella dell’apertura alla Eterna Trascendenza, all’Amore trascendente, che tutto dona. Anche la possibilità, nella storia e nell’immanenza sempre relativa ma non per questo in tali limiti impossibile, di Pace e Salvezza.

Luigi Copertino

NOTE

1) Cfr. Raghuram G. Rajan “Terremoti finanziari”, Einaudi, 2012.

2) Cfr. G. Tremonti “La paura e la speranza”, Mondadori, 2008, pp. 32-33.

3) Cfr. G. Tremonti op. cit., pp. 40-41.

4) Cfr. V. Giacché “Il capitalismo e la crisi”, 2009.

5) Cfr. S. Fassina “Il lavoro prima di tutto – L’economia, la sinistra, i diritti”, Donzelli, 2012, pp.11-29. Va osservato che Fassina, nel suo libro, indica come l’unica attuale forza di resistenza e di critica al neoliberismo, ed all’egemonia della finanza apolide, la Chiesa di Benedetto XVI. Egli scriveva nel 2012 regnante ancora Papa Ratzinger. Ma oggi non potrebbe non indicare, con ancora più convinzione, nella Chiesa di Papa Francesco quell’unico baluardo, quell’unico Katéchon, al potere globale finanziario di Mammona che intende marchiare “sulla mano destra e sulla fronte” tutti gli uomini affinché essi possano “vendere e comprare” soltanto all’interno dell’Ordine Mondiale che riuscirà, temporaneamente, ad imporre a tutti, “liberi e servi”, “ricchi e poveri”, “grandi e piccoli”, insomma a tutti i popoli ed a tutte le classi sociali. Scrive Fassina, nell’introduzione (p. 6) della sua opera in collegamento con quanto poi osserverà nell’ultimo capitolo della stessa: «Nello smarrimento post-Lehman Brothers, la Chiesa di Benedetto XVI, sulla scia di un pensiero secolare, è stata un punto di riferimento. Ha messo a nudo le radici etiche, culturali e politiche dell’equilibrio saltato: l’individualismo utilitaristico e il primato dell’economia sulla politica».

da www.domus-europa.eu