Nel suo entusiastico discorso alla Knesset, durato più di un’ora, Trump ha parlato da sionista cristiano, ossia come le decine di milioni di protestanti USA convinti di dover stare con Israele e i suoi delitti per affrettare il ritorno del Messia. Una forza politica decisiva.
Qui una illustrazione del tema.
Con il pretesto di un piano di pace, Donald Trump sta tessendo una strategia di influenza che combina interessi elettorali, alleanze evangeliche e calcoli geopolitici. Dietro la tregua di Gaza, forse è in gioco molto più di un cessate il fuoco: una riorganizzazione del Medio Oriente sotto controllo ideologico.
Il “piano Trump” del 9 ottobre 2025 stabilisce una tregua precaria a Gaza, prevedendo il rilascio degli ostaggi, la consegna di aiuti umanitari e un ritiro parziale dell’esercito israeliano. Ma questo “castello di sabbia” resisterà alle tempeste?
Minato dall’influenza dei donatori sionisti, dalle manovre di Trump per salvare Netanyahu e dalle provocazioni di Sharm el-Sheikh, questo piano – ossessionato dai fallimenti di Oslo e del 2014 – rischia di diventare solo un altro miraggio geopolitico.
Al di là di queste debolezze, è necessaria un’analisi approfondita. Per valutarne le possibilità di successo o fallimento, questa iniziativa deve essere esaminata alla luce delle dinamiche regionali, delle prospettive di ciascun attore e dei principi inviolabili del diritto internazionale.
Il contesto: una tregua ambiziosa ma precaria
Dopo due anni di guerra devastante – oltre 67.000 morti palestinesi, decine di migliaia di feriti e una Gaza in rovina – il piano in 20 punti di Trump, annunciato a fine settembre, promette la creazione di una “zona deradicalizzata e libera dal terrorismo”.
La fase 1, in vigore dal 10 ottobre, include:
- il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani vivi (inclusi 20 il 13 ottobre, insieme alle loro spoglie);
- lo scambio di 2.000 prigionieri palestinesi, di cui 250 condannati all’ergastolo, nonché di tutti i bambini e le donne;
- un ritiro parziale dell’esercito israeliano (il 53% di Gaza rimane occupato);
- aiuti umanitari senza restrizioni e la riapertura del valico di frontiera di Rafah;
- l’istituzione di un “Peace Board”, presieduto da Trump, per supervisionare il processo con un comitato di transizione di tecnocrati palestinesi per l’amministrazione provvisoria di Gaza;
Il previsto dispiegamento di una forza di sicurezza araba internazionale, sotto l’egida delle Nazioni Unite, accompagnato da un’amnistia per i membri di Hamas che optano per la pace o l’esilio, e da un programma di ricostruzione senza sfratti forzati. Un vertice arabo tenutosi il 13 ottobre ha accelerato l’avvio della Fase 2, che prevede un ritiro israeliano completo, il dispiegamento di forze arabe e negoziati sulla governance.
A Trump, che sognava il Premio Nobel, è stata offerta una consolazione egiziana: l'”Ordine del Nilo”, per una tregua tanto precaria quanto simbolica. Un’enorme ricompensa per una pace che deve ancora materializzarsi.
Nonostante questi progressi, i difetti del piano rimangono evidenti: il disarmo di Hamas rimane poco chiaro, Israele sta bloccando parzialmente il valico di Rafah e le tensioni interne ne minacciano la sostenibilità. Il rifiuto di Hamas del disarmo e le critiche dell’Autorità Nazionale Palestinese alla mancanza di garanzie per la piena sovranità sottolineano l’entità delle sfide.
Un’alleanza nascosta: evangelici, sionisti e l’ombra di Miriam Adelson
Per comprendere appieno questa strategia, è importante esaminare una potente ma poco pubblicizzata leva di influenza: l’alleanza tra evangelici americani e sionisti. Con 62 milioni di membri (Pew Research Center), gli evangelici costituiscono una base elettorale chiave per Donald Trump. Il loro sostegno a Israele, basato su un’interpretazione letterale della Bibbia, vede lo Stato ebraico come il compimento di profezie apocalittiche, in cui il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa avrebbe annunciato la Fine dei Giorni. Personaggi come John Hagee (CUFI) e Mike Pompeo propugnano quindi un “Grande Israele”, che includa la Cisgiordania, che chiamano “Terra Santa”.
Questa alleanza, lungi dall’essere unanime, provoca una feroce resistenza. La sua visione è contestata dalle voci israeliane, in particolare all’interno dell’opposizione alla Knesset, così come dagli analisti palestinesi. Questi critici denunciano questa come un’interferenza dannosa nel processo di pace e chiedono un approccio rispettoso del diritto internazionale.
Questa opposizione si basa su un paradosso giuridico ignorato dal piano Trump. La Palestina, riconosciuta dalla maggioranza degli Stati e dotata dello status di osservatore alle Nazioni Unite, ha il diritto intrinseco all’autodifesa. La “pace attraverso la forza” promossa da Washington entra quindi in diretto conflitto con il diritto internazionale, contrapponendo la logica unilaterale della forza a quella del diritto.
Le risoluzioni delle Nazioni Unite, in particolare la 242 (1967) che chiede il ritiro israeliano dai territori occupati e la 2334 (2016) che condanna la colonizzazione, illustrano questa tensione e richiamano la necessità di una soluzione negoziata.
L’influenza evangelica affonda le sue radici nel XIX secolo. In “Occidente e Islam”, Youssef Hindi1 ricorda che questo sionismo cristiano, incarnato da William Blackstone, precede il sionismo ebraico di Herzl. Questo movimento trova un’eco contemporanea in Miriam Adelson, una delle principali donatrici di Trump (100 milioni di dollari nel 2024), presente alla Knesset il 13 ottobre. La donna che Trump descrive come amante di “Israele, forse anche più dell’America”, avrebbe avuto un ruolo chiave nella liberazione degli ostaggi.
Un’influenza così diretta non può che suscitare polemiche. Sui social media, gli utenti denunciano una diplomazia di parte, mentre l’opposizione israeliana chiede che le aspirazioni palestinesi siano prese in considerazione.
Al di là delle polemiche, questa situazione rivela una preoccupante privatizzazione della diplomazia. Le Adelson, pilastri del lobbying filo-israeliano, hanno influenzato decisioni importanti: il trasferimento dell’ambasciata a Gerusalemme (2018) e il riconoscimento delle alture del Golan israeliane (2019). Sui social media, molte voci denunciano un “governo guidato dai donatori”, accusando Trump di sacrificare l’equità a vantaggio di interessi privati.
Le tensioni tra Trump e Netanyahu rivelano un doppio gioco. Sotto la pressione della sua coalizione ultranazionalista, il Primo Ministro israeliano mantiene una presenza militare a Gaza e limita l’accesso a Rafah, contraddicendo lo spirito dell’accordo. Pur insistendo sulla necessità di “schiacciare Hamas”, il piano promuove invece la deradicalizzazione. Da parte sua, Trump presenta una “vittoria” alla sua base evangelica, ma le sue scadenze rigorose sembrano dettate più da imperativi elettorali che da una vera e propria strategia.
Questa ambiguità si riflette nelle posizioni divergenti degli altri attori. Mentre Hamas e le sue fazioni affiliate respingono categoricamente qualsiasi prospettiva di disarmo, l’Autorità Nazionale Palestinese, autoproclamata custode della legittimità nazionale ma screditata per aver presieduto al fallimento degli Accordi di Oslo, denuncia coraggiosamente l’assenza di garanzie per la piena sovranità. Fu una mossa audace: la stessa organizzazione che aveva appoggiato i processi che portarono all’espansione coloniale ora si erge a garante dell’integrità territoriale.
Questa duplicità culminò in un intervento tanto spettacolare quanto senza precedenti: durante il suo discorso alla Knesset, Trump si trasformò in un avvocato improvvisato, esortando con sorprendente sfacciataggine il presidente Herzog a graziare Netanyahu, nonostante fosse sotto processo per corruzione. La sua affermazione – “Sigari e champagne… chi se ne frega?” – “È vero?” – provocò un curioso mix di fragorosi applausi e prevedibile indignazione. L’ex primo ministro Ehud Olmert, forse troppo familiare con i meccanismi del potere per sorridere, non usò mezzi termini, descrivendo la scena come uno “scandalo” – un termine che, proveniente da un ex capo di governo, assume una risonanza particolarmente saporita.
Questo intervento esacerbò le divisioni israeliane. L’opposizione denunciò una palese ingerenza, mentre i sostenitori di Netanyahu la considerarono un sostegno strategico.
Questa manovra, volta a preservare