REDDITO DI CITTADINANZA. UNA RIFLESSIONE SENZA PREGIUDIZI.

di ROBERTO PECCHIOLI

Il reddito di cittadinanza è un tema centrale del dibattito politico. Nei prossimi mesi avremo una legge in Italia a compimento della principale promessa elettorale del Movimento 5 Stelle. E’ il momento per una riflessione seria. Il dibattito è aperto in tutto il mondo occidentale; trascuriamo quindi le questioni tecniche, relative ai destinatari, ai costi, ai probabili imbrogli che sporcheranno la concreta applicazione del nuovo istituto giuridico. Proviamo a centrare il dibattito attorno alle questioni di fondo.

Due premesse: la prima è che il reddito di cittadinanza (che altrove chiamano reddito universale di base) non è il balsamo di Fierabràs, l’unguento miracoloso che cura tutti i mali. L’altra è la constatazione che la politica sociale, uscita dalla porta del trionfo neoliberale e individualista, rientra dalla finestra del crescente disagio di massa. E’ un successo averla posta al centro dell’agenda politica, prova ulteriore della fine delle categorie del passato. Gli argomenti a favore e contro attraversano le vecchie appartenenze ideologiche e talvolta non tengono conto della realtà, quella, per utilizzare l’espressione di Jeremy Rifkin, della fine del lavoro.

Prima di addentrarci nell’analisi, abbiamo il dovere di esprimerci. L’opinione di chi scrive è un sofferto sì al reddito di cittadinanza, al di là delle modalità della legge che lo istituirà. Il nostro è – e ancor più sarà- il secolo della diseguaglianza nel reddito e nell’accesso alle tecnologie. Il cambiamento è già troppo grande e profondo per non prenderne atto, specie all’alba della nuova rivoluzione determinata dall’intelligenza artificiale, dall’automazione, con l’irruzione del robot a sostituzione di parti crescenti e sempre più elevate del lavoro umano.

I più ottimisti affermano che è il sogno dell’uomo vivere senza lavorare, lo dimostrano miti come Eldorado o Shangri-Là. Non siamo d’accordo, per l’immenso valore morale del lavoro, la dignità, responsabilità e consapevolezza che determina, il gusto e il piacere di guadagnarsi ciò che si ha, il senso del dovere che produce, la forza delle relazioni comunitarie che si stringono nel corso delle attività professionali, nei mestieri, nelle fabbriche e negli uffici. Nessuna conquista pratica e civile è maturata senza fatica, sforzo fisico e intellettuale. Il lavoro non può finire e non finirà. L’uomo non deve essere pagato per non lavorare, ma aiutato a estendere i propri orizzonti, a investire sul futuro senza paura. Si tratta di restituirgli in parte ciò che gli è stato tolto in termini esistenziali e renderlo partecipe della comunità cui appartiene. In questo senso, il concetto giusto dovrebbe essere il credito di cittadinanza.

Il dibattito in corso ci riporta alla centralità della dimensione pubblica, politica dell’uomo, a partire dall’istituzione Stato che, attaccata da varie parti, riprende un ruolo insostituibile come soggetto in grado di decidere e assegnare un reddito di base. Per distribuire, occorre prima creare la ricchezza e suddividere la torta molto diversamente da quanto accade da almeno trent’anni. Di qui la necessità di un’educazione volta al sapere, al sacrificio in vista di scopi, al lavoro, al risparmio, al rispetto per la legge, il ripristino di un senso di giustizia opposto allo schema della privatizzazione del mondo e della concentrazione dei redditi.

Gli scenari sono chiari: l’automazione distruggerà milioni di posti di lavoro, renderà obsolete centinaia di figure professionali, aumenterà ulteriormente il potere dei detentori delle nuove tecnologie e delle classi sociali in grado di implementarle e padroneggiarle. Studi attendibili parlano del 45 per cento degli impieghi a rischio entro un decennio. Sono cifre enormi, che riguardano non più solo i lavori fisici, ma colpiscono le professioni cognitive.  Software, algoritmi e robot sono destinati a ereditare il lavoro dei contabili, dei notai, dei giornalisti, ma anche degli ingegneri, degli avvocati e persino dei medici. Milioni di persone vivranno, di conseguenza, senza redditi da lavoro, la precarietà sociale e esistenziale si diffonderà a macchia d’olio, la classe media, già in affanno, sarà pressoché azzerata.

Non potrà permanere, pena una intollerabile spirale di violenza e un regresso morale spaventoso, l’individualismo atomista e competitivo del presente. Forme di integrazione o sostituzione del reddito sono dunque inevitabili. Non si possono chiudere gli occhi e assistere al dissolvimento della società e alla polarizzazione della convivenza umana tra una minoranza di iperpadroni, assistita da un ceto tecnocratico, e tutti gli altri. Troppo facile la conclusione di chi considera il reddito universale di Stato l’opportunità per destinare il tempo alle attività che più aggradano, sportive, ricreative, creative o all’ozio.

Sull’altro lato della barricata sta l’oligarchia liberista, preoccupata che la società di mercato e consumo crolli, interessata a un reddito di base teso a mantenere in piedi il baraccone, evitando esplosioni di rabbia, violenza e messa in discussione del sistema. I più impegnati sono i giganti di Silicon Valley. L’ influentissima Y Combinator, la maggiore incubatrice mondiale di imprese innovative (le mitizzate start-up) distribuirà per un periodo di circa un anno una somma di almeno mille dollari al mese a cento famiglie, per poi analizzare i risultati. Il suo presidente, Sam Altman, è stato invitato all’ultima riunione del Club Bilderberg.

Un tentativo più complesso è stato finanziato dal governo finlandese (che peraltro non intende proseguire l’esperimento). Lo Stato ha versato con criteri casuali per un anno 560 euro mensili a duemila disoccupati di varie età, attivando un gruppo di controllo con uguali caratteristiche, senza benefici economici. L’esito è stato contraddittorio, nonostante l’appoggio diretto di personaggi come Elon Musk di Tesla (auto elettriche) e Mark Zuckerberg. I beneficiari non si sono comportati diversamente dagli altri nella ricerca del lavoro (ma il senso civico delle popolazioni nordiche è certo superiore a quello italiano), il reddito e le giornate lavorate non si sono granché discostati da quelli osservati nel gruppo di controllo. E’ risaltata però forte la diminuzione dello stress, dell’insicurezza sociale, della difficoltà a concentrarsi, minori problemi di salute, oltre a una maggiore fiducia nel futuro tra i percettori del reddito di base. La conclusione dei sociologi è che il programma non ha offerto prospettive di lavoro migliori, ma ha innalzato la qualità della vita degli interessati. Non è poco.

Il ruolo dei grandi attori tecnologici mondiali è decisivo: essi condividono una visione liberista e libertaria e ritengono il reddito universale lo strumento più adatto per diffondere tale stile di vita. Il trucco, perché di questo si tratta, è doppio. Da un lato, si pretende che i servizi essenziali, sanità, previdenza, istruzione siano in mani private (le loro…) e il reddito accordato ai cittadini per il mero fatto di esistere venga speso in quei settori, ovvero rientri nei loro bilanci. Dall’altro, vogliono che sia lo Stato, considerato un inciampo e un problema, a farsi carico di organizzazione e distribuzione.

E’ un mondo a misura di Uber. La piattaforma di trasporti privati a chiamata ha come collaboratori dei lavoratori autonomi che devono sostenere i costi, l’acquisto e mantenimento dell’automobile, le assicurazioni sociali e la responsabilità civile, disponibili nell’istante preciso in cui un servizio è richiesto: il modello just in time. I suoi banditori teorizzano che il sistema offra più libertà, poiché i collaboratori lavorerebbero quando vogliono, ma si tratta di menzogne. I redditi sono così scarsi che funzionano solo per procurarsi un reddito extra, un secondo lavoro. Per le piattaforme, finti datori di lavoro, veri caporali sanguisughe, il reddito di cittadinanza permette l’aumento di personale “flessibile”, cioè precario e malpagato. L’entusiasmo dei giganti è un investimento sui loro affari.

Non sorprende l’identità di visione tra i vertici neoliberisti, i tecnopadroni e il progressismo politico. Il reddito di cittadinanza è materia troppo delicata per opporvi idee del passato o addirittura negare il problema. Piuttosto occorre “cavalcare la tigre”, accettare la sfida per cambiare il mondo, a partire da una domanda: che cosa succede nella percezione di massa, nel cervello di ciascuno di noi, se ci forniscono denaro senza chiederci nulla in cambio, soprattutto, è vero che non ci chiedono nulla in cambio, e ancora, quale potere, pubblico o privato, se ne farà carico, chi pagherà il conto, quale società e senso della vita emergerà?

Non possiamo dimenticare il massacro sociale, antropologico, esistenziale prodotto dall’alleanza tra progressisti in assenza di progresso e il piano alto del liberismo globale. Il reddito di cittadinanza può diventare il primo gradino di un’inversione di tendenza, a patto che non sia una graziosa concessione da parte dei padroni del mondo per tenere buona la massa e non si trasformi in meccanismo politico burocratico dei governi per ricattare una massa manovrabile di nullafacenti. Il principio irrinunciabile è che il lavoro rende liberi, nonostante la frase sia squalificata dall’uso che ne fece il nazismo. Liberi e titolari di dignità, pienamente membri della comunità non solo per il reddito che ne consegue, ma per la rete di relazioni che crea, significati, status sociale e personale, amicizie, solidarietà.

In più, il lavoro ci rende orgogliosi di saper fare qualcosa di utile, essere buoni operai, tecnici, medici, commercianti. La civiltà europea di matrice cristiana ha sempre attribuito un profondo significato morale e finanche spirituale al lavoro: pensiamo a San Josémarìa Escrivà de Balaguer, a Don Bosco, allo stesso San Giuseppe. Non possiamo trasformarci in generazioni di nullafacenti dedite al consumo, ergo ai vizi. Il rischio è grande. Possiamo però aiutare milioni di persone a trovare la loro strada con maggiore facilità, sottraendole a una vita da precari con la valigia in mano, in perenne competizione al ribasso, oppure all’arrivismo sfrenato. Il filosofo Slavoj Zizek, pur da una prospettiva neomarxista, avverte del pericolo del “sogno impossibile che il capitalismo faccia funzionare se stesso come un sistema socialista”, risolvendo a suo modo i problemi di disoccupazione e di consumo.

Ogni sistema liberale è intrinsecamente avverso a comunità e solidarietà. In particolare, i giganti di Silicon Valley non hanno altro scopo che contenere le minacce di una disoccupazione massiccia, mettere una sorta di cerotto – a spese altrui – sul modello di lavoro che stanno costruendo attraverso l’avanzamento dei progetti di automazione, intelligenza artificiale e robotica. Siamo alle soglie di un universo inedito, cui non si può guardare con le mentalità del passato, tanto meno con l’unico metro di giudizio della ragioneria dei costi. La transizione sarà delicata e complessa, e dovrà essere soprattutto antropologica.

In un futuro prossimo in cui la forza lavoro, sarà automatizzata o “uberizzata”, che ne sarà dell’uomo, quale posto avrà nella scala dei valori? Di sicuro, non esiste una risposta di destra e una di sinistra. Occorre ragionare con categorie più ampie. Proviamo a elencare qualche problema, partendo dalla sostenibilità economica. L’ OCSE, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo in Europa, è un pilastro di un sistema fatiscente, ma non ha torto affermando che non ha senso finanziarla con la parte dei bilanci già destinata alla spesa sociale. Aumenterebbe la povertà e obbligherebbe a nuovi aggravi del carico fiscale, che potrebbe schizzare del 30 per cento. La soluzione è quella di tassare i robot, poiché generano ricchezza al posto dei lavoratori umani.

Il robot ha solo bisogno di energia per sopravvivere, non si ammala, non sciopera, non conosce feste comandate; la sostituzione delle persone umane con “persone elettroniche” (la definizione già percorre i corridoi dei palazzi del potere) produce profitto. Una parte va redistribuito alla cittadinanza.  Sembrerebbe senso comune, ma è difficilissimo accordarsi per tassare i giganti tecnologici, non sarà semplice mettere in piedi un sistema tributario basato sulla produzione, il possesso e l’utilizzo di robot e altri apparati elettronici sostitutivi della persona umana.

Inoltre, come si concilia il disprezzo per la sfera pubblica, la perdita di potere, funzione, prestigio dello Stato con la necessità di restituirgli una funzione centrale? E se la pretendessero per sé i produttori, gli investitori nell’intelligenza artificiale, i soliti noti della tecnica padrona? Per loro, unici a possedere immensi apparati di controllo, sarebbe facile organizzare un sistema di distribuzione di somme virtuali, magari ad uso elettronico obbligato. I soldi in uscita rientrerebbero immediatamente, anzi non li vedremmo neppure, poiché si tratterebbe di conti virtuali attraverso carte o microchip. Il consumo continuerebbe, privato dei pochi spazi di libertà reale che ancora permangono.

Perciò il dibattito sul reddito di cittadinanza deve porre al centro due soggetti attivi, le persone in carne e ossa, noi, e le istituzioni pubbliche, ovvero lo Stato, attraverso le strutture indipendenti e soggette a rendicontazione e controllo politico dedicate alla corresponsione del reddito. Manca tuttavia un convitato di pietra, l’unico di cui si tace: è la sovranità monetaria perduta. Un sistema internazionale fondato sulla menzogna del debito e sull’ emissione del denaro, cartaceo e scritturale, da parte del sistema finanziario, non può accettare l’esistenza di redditi universali, a meno di non farne oggetto di ulteriori ricatti.

La speranza, il cammello che passa per la cruna dell’ago, è il graduale recupero della sovranità monetaria da parte degli Stati, iniziando dall’istituzione di banche pubbliche in grado di finanziarsi alle condizioni di quelle commerciali, dunque anche di creare moneta bancaria (in Italia si tratta di circa mille miliardi l’anno!). Il dato ufficiale della nazione capitale dell’Impero, gli Usa, è impressionante. Al 28.07.2018, la Federal Reserve dichiarava 3.600 miliardi di dollari di moneta legale (banconote e monete, aggregato M0) e 15.500 di liquidità totale (MZM, money zero maturity), con l’80 per cento del circolante creato dalle banche ordinarie, come ammesso anche in Italia dalle stesse “autorità monetarie” (fonte: Marco Della Luna, Tecnoschiavi, Arianna Editrice 2019).

L’obiettivo finale è recuperare il potere sovrano di creare moneta, per attribuirne una parte ai cittadini come credito, in base alle intuizioni di Giacinto Auriti. Resta vero il paradosso di Ezra Pound, secondo cui dire che uno Stato non può perseguire i suoi scopi per mancanza di denaro è come affermare che un ingegnere non può costruire strade per mancanza di chilometri.

Purtroppo, le nostre sono verità travestite da sogni. La fase storica che viviamo, tuttavia, impone di tenere fermo il ruolo dello Stato come garante e agente fondamentale della sovranità, nonché della tutela dei suoi cittadini, quindi di attribuirgli il potere di restituire le enormi somme trasferite al sistema economico e finanziario. L’avanzata dell’automazione rende tale processo ineludibile, per non rendere antiquato, addirittura superfluo, l’uomo stesso.

Per questo, nonostante tutto, nonostante il pericolo di svalutare il lavoro e l’onesto guadagno, siamo favorevoli a forme di reddito universale. Non è che una modesta riappropriazione di ciò che è nostro. Non lasciamo il futuro della specie ai robot, ai padroni della tecnica e ai creatori del denaro.

ROBERTO PECCHIOLI