PERCHÉ LE STELLE DEI GEMELLI RISPLENDONO IN CIELO COME LE PAROLE DI CRISTO SULLA TERRA

di Alfonso Piscitelli

Nelle notti tra Natale e l’Epifania (o se si preferisce tra il Natale degli Occidentali e quello dei Cristiani d’Oriente) può capitare di alzare gli occhi al cielo a Nord-Est di Sirio e riconoscere senza troppa difficoltà i Gemelli. Due stelle brillanti, “Castore” e “Polluce”, sembrano quietamente fissarsi, mentre due filamenti di stelle – come rette parallele – ne delineano i corpi nell’immaginazione dell’astrologo.

Anche chi ha solo fuggevolmente sfogliato un manuale di mitologia greco-romana riconoscerà appunto nei Gemelli dello Zodiaco i “Dioscuri”, aitanti ragazzoni che personificavano la giovinezza delle antiche stirpi del Mediterraneo. Quel che appare evidente solo dopo un’indagine più attenta è il sapore pre-cristiano o quasi-cristiano del mito.

Di amore fraterno qui si tratta. Castore e Polluce condividevano la stessa madre, Leda, ma avevano diverso padre. Castore era figlio di Tindaro, re di Sparta, Polluce era invece figlio di Zeus, re degli Dei. Essere “Figlio di Dio” dava a Polluce un privilegio enorme: a differenza di Castore, egli era immortale.

 

Nel bel mezzo di una classica rissa tra giovani (c’erano di mezzo belle ragazze), Castore viene ucciso, ma Polluce è pronto a sacrificare la sua immortalità e chiede a Zeus di mandargli la morte affinché il fratello viva.

Commosso dal carattere sacrificale di questo affetto, il Padre del Cielo (tale il significato etimologico di Zeus, come dello Jupiter romano) fa in modo che i fratelli si dividano l’immortalità.

 

A questo punto del mythos si viene colti dal brivido di una coincidenza, la storia ricorda altre storie.

Polluce – e solo Polluce – è figlio della divinità; ma essendo egli nato sulla Terra da una madre che è semplicemente una donna, per quanto bella, diventa fratello di Castore e non solo non si indispettisce per questa “fratellanza bastarda”, ma ama il fratello mortale con un sentimento di agape così assoluto e disinteressato da esser pronto a dare la propria vita per lui. Il Figlio di Dio accetta di affrontare quella morte che non gli compete, affinché il mortale possa essere liberato dagli Inferi.

Su come Zeus divise tra i due l’immortalità olimpica, la narrazione diverge. Secondo alcuni mitografi Castore e Polluce si alternarono un giorno sull’Olimpo e un giorno nell’Ade; in tal modo il Figlio di Dio, scendendo agli Inferi, sempre donava al fratello mortale l’immortalità.

La versione tramandata da Euripide e altri autori più tardi narra che Zeus li innalzò entrambi nel cielo notturno, a formare la costellazione dei Gemelli.

 

E tuttavia si sbaglierebbe a pensare che quello dei Dioscuri fosse solo un mito “mortuario”. In realtà i Dioscuri onoravano la vita come agili cavalieri, come maestri di danze, come dominatori dell’elemento aereo che sospinge le navi sui mari. Avevano poteri di guarigione (poi ereditati dalla loro trasposizione cristiana: i Santi Cosma e Damiano).  Raffigurati in scintillante nudità eroica essi univano forza e bellezza: le virtù della III funzione delle società indo-europee, quella della prosperità.

Interessante l’osservazione che fa  l’orientalista Pio Filippani-Ronconi sui gemelli Asvin, che sono il corrispettivo indù dei Dioscuri: il loro essere “due” e “gemelli” (“Twins” direbbero gli inglesi in una parola che sintetizza i due concetti) li pone in collegamento con quegli organi doppi (emisferi cerebrali, polmoni, reni, fino a scendere alle gonadi) che sovrintendono alla vitalità dell’organismo (Pio Filippani-Ronconi, Miti e Religioni dell’India).

In essi dunque era la Vita e la pienezza della gloria del Corpo Fisico.

Come è noto, il tipo umano dei greci amava e apprezzava al massimo grado la forma esteriore del corpo fisico e provava tutta la tristezza che è possibile provare quanto questo viene distrutto dalla morte, così che l’ellenismo dava il massimo valore alla forma esteriore del corpo fisico in quanto forma esteriore dell’Io….  L’eroe greco per eccellenza attestava: “Meglio essere un mendicante in questo mondo che un re nel regno delle ombre”.

 

Si comprende alla luce di quanto detto l’immensità sovrannaturale del sacrificio a cui era disposto Polluce. Greci per eccellenza nel loro amore per la vita essi sono a un passo dalle parole pronunciate dal Cristo Gesù: “Questo è il mio comandamento; amatevi gli uni con gli altri, come io ho amato voi. Non c’è un amore più grande di questo, di uno che dia la vita per i suoi amici” (Giovanni, XV,12-14).

Come già avevano intuito gli autori della Patristica, anche la Grecità fu “Antico Testamento” e profezia del Verbo incarnato.

 

Amore fraterno sul piano storico terreno significa impulso sociale, solidarietà, coesione comunitaria per questo i Dioscuri furono onorati in Grecia, in particolare a Sparta, come difensori della Polis; tale è anche il senso del loro culto a Roma.

I gemelli furono venerati dai Romani da quando balenarono nel bel mezzo della battaglia del Lago Regillo. Narra Dionigi d’Alicarnasso: “Nel corso del combattimento apparvero due cavalieri di età giovanile, assai superiori a chiunque altro per bellezza e per statura. Essi si posero alla testa della cavalleria romana e, respinto l’attacco dei Latini, li misero in fuga. È fama che quella sera stessa furono visti nel Foro romano due giovani di straordinaria bellezza, in abito militare, che sembravano reduci da un combattimento e portavano cavalli madidi di sudore. Essi abbeverarono gli animali e si lavarono alla sorgente che scaturisce presso il tempio di Vesta… e a quanti domandavano notizie, riferirono dell’andamento e dell’esito della battaglia e della piena vittoria dei Romani; quindi, allontanatisi dal Foro, non furono visti mai più”. Una immagine di bellezza e forza nella fresca giovinezza della repubblica romana.

 

Vogliamo credere che dalla luce dei Gemelli si irradi una forza che crea armonia sociale, quella armonia che è faticoso e cosciente rispecchiamento dell’amor che move il sole e le altre stelle.

 

Alfonso Piscitelli