NON PUO’ ESSERE PIU’ BUIO CHE A MEZZANOTTE.

di Roberto PECCHIOLI

Psicologi e psicoterapeuti lanciano l’allarme sul degrado dell’umore di milioni di persone e sulla difficoltà di intervenire con terapie e contromisure efficaci. E’ colpa del maledetto virus, pare, del tracollo delle certezze di ieri, la difficoltà dell’essere umano di vivere in maniera innaturale, da eremita sospettoso, rintanato nella celletta dell’alveare, egoista, in attesa di notizie dall’unico fronte che sembra interessare, quello del contagio, preda di paure, spettatore passivo del terrorismo sanitario, psicologico e politico calato dall’alto. Allontanate dalla vita, qui e adesso, per sfuggire al possibile rischio di morte, le menti cedono, costrette in un’interminabile condizione sospesa. Domani sarà peggio, la decisione è presa, in alto loco. Tutto deve cambiare affinché nulla cambi nel dominio dell’iperclasse.

Siamo non testimoni, ma protagonisti diretti di quel disagio, di quel degrado civile ed esistenziale, con una significativa differenza. Il nostro malessere non è figlio del Coronavirus. L’epidemia è piuttosto un moltiplicatore, il detonatore di una tempesta perfetta. Non abbiamo avuto bisogno del pipistrello cinese per renderci conto della realtà, vedere le macerie, comprendere che il re è nudo, che la modernità, il progresso, la scienza e tutte le altre menzogne diffuse a piene mani da mezzo secolo sono finzioni, imbrogli di un tempo bastardo.

Dal pessimismo della ragione – qualcuno disse che il pessimista non è che un ottimista bene informato  – si rischia di cadere nella depressione più cupa, porta infernale del nichilismo oppure precipitare in una indifferenza ostile, rancorosa, chiusa in un nero solipsismo. E invece no: non può essere più buio di mezzanotte.

Non vogliamo fare uno stucchevole elenco di tutto quanto abbiamo perduto negli ultimi decenni; sarebbe solo uno sfogo vano, lamentoso, l’ammissione di una sconfitta esistenziale. Inutile rinvangare la normalità schernita, l’odio per la verità, il capovolgimento del bene e del male, il declino morale, civile, spirituale, persino estetico, tanto esteso da non essere più percepito dalla maggioranza. Vano anche rammentare la crisi di fede, la difficoltà di rintracciare un senso all’epoca in cui ci è toccato di vivere. Sterile esercizio tentare di comprendere sino in fondo che cosa sia successo a noi stessi e alla nostra gente per essere trascinati tanto in basso.

Conta soltanto restare in piedi tra le rovine. Esercizio impervio, difficilissimo, giacché è necessario innanzitutto riconoscere che il panorama che vediamo, nonostante luci e lustrini, è fatto di detriti, a misura del moderno uomo senza qualità. Non si può cedere allo sconforto, ma stringere i denti e continuare a guardare in alto. Le forze del male avanzano, travolgono le residue linee di difesa, ma non prevarranno. Esiste una certezza infrangibile: il nichilismo che ci avvolge non può vincere per l’evidenza che dal nulla non può nascere nulla. Una civiltà muore nell’indifferenza dei suoi figli. E’ segno che ha esaurito le sue ragioni e non merita di sopravvivere. Altre ne sorgeranno. Sarà allora che diventerà indispensabile, per chi resterà, aver serbato la fede, la tradizione, i principi.

No, non può essere più buio che a mezzanotte, anche nella prova dell’esilio interiore in cui siamo stranieri a Babilonia. Sapeva tutto la sentinella idumea dell’oracolo di Isaia: “una voce chiama da Seir in Edom. Sentinella! Quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: verrà il mattino, ma è ancora notte. Se volete domandare, tornate un’altra volta.” Torneremo; se non saremo noi, sarà qualcuno che porta nel cuore la verità e la bellezza trasmessa dai padri che vogliamo consegnare a chi verrà.

Se dovessimo descrivere per i posteri i nostri anni, diremmo che è l’era della grande bruttezza. Il brutto è la cifra, il centro di tutto. Ci salva la bellezza, che è verità, sguardo verso l’alto, lampo di trascendenza.

Il domani apparterrà a chi saprà intravvedere nel fango la prima pietra di una nuova cattedrale, come scrisse Antoine de Saint Exupéry osservando dal suo aereo di pilota di guerra le rovine dei bombardamenti. Aveva ragione il Principe Myshkin di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo, ma solo se la sapremo ancora riconoscere nel buio.

Nell’incipit del Macbeth di Shakespeare, la tragedia del potere e dell’ambizione, il senso drammatico degli eventi è già incombente nella landa desolata da cui sbucano le tre streghe, tra tuoni, pioggia e lampi. Evocano immediatamente il paradosso, il capovolgimento, gridando all’unisono “brutto è il bello e bello il brutto” e presto spariscono “su, per la nebbia e l’aria unta “. Nebbia e aria unta, sporca, irrespirabile. Sono i miasmi della nostra quotidianità, ma alcuni conservano un doloroso privilegio: sanno ancora riconoscere la nebbia, il male. Si sta “come d’autunno sugli alberi le foglie”, ma abbiamo la fortuna – o la grazia – di non aver creduto alla suprema astuzia del Diavolo, farci credere che non esiste (Baudelaire).

La bruttezza generale ha rovesciato i valori. L’arte è brutta – una contraddizione in termini- vieta la raffigurazione umana, eccetto nella forma del grottesco, del mostruoso, del bizzarro. L’architettura non ha più un’idea di polis, divorata dal culto della grandezza: il regno della quantità. La letteratura non racconta più storie, la filosofia è un gioco di parole senza metafisica. Il diritto ha rinunciato alla legge naturale. La musica dimentica l’armonia che produce elevazione e si concentra sul ritmo, la rincorsa, il rumore fine a se stesso che impedisce la riflessione.

La religione si è trasformata in panteismo animista, equivoca “energia”, dimenticando la trascendenza. La materia sembra l’unica realtà possibile; ogni sguardo è concentrato verso il basso, verso le pulsioni elementari, gli istinti. La scimmia nuda e sapiente fa come Crono: divora i suoi figli. Simbolo della postmodernità è un quadro profetico di un secolo fa, l’Urlo di Edvard Munch. Milioni di volti senza lineamenti si torcono in un grido che unisce terrore, incredulità e impotenza.

Al tempo del virus, tutto si è acutizzato, i fenomeni storici subiscono un’accelerazione improvvisa, il cui fine è un terrificante dominio sull’uomo in nome dell’interesse e dell’odio per la natura. Le streghe di Macbeth hanno rovesciato i valori: davvero, bello è il brutto e viceversa. La stessa inversione agisce sui valori: squalificato il coraggio a favore della viltà, la libertà a favore del ridicolo conformismo “trasgressivo”. Al tempo di Omero, fondatore della civiltà europea, bellezza, valore e grandezza d’animo si fondevano. Il personaggio negativo per eccellenza era il vile, rappresentato dall’Iliade da Tersite, brutto e codardo. Oggi trionfa il tipo umano calcolatore, cinico, egoista e, poiché ogni cosa (e persona) ha il cartellino del prezzo, nulla ha valore. Si fa l’apologia di un uguaglianza da gregge e si recidono le basi della cultura, cioè della bellezza.

Il potere impone un sapere operativo, strumentale, dal quale sono espulse le materie che allenano a pensare, stimolano il giudizio, la critica, l’invenzione. I giovani ricevono un semplice addestramento alle mansioni pratiche alle quali il sistema li destina; su tutto regna l’assenza di verità, il cui esito è il relativismo morale, anticamera del nichilismo. La società dei nostri padri avrebbe affrontato la prova dell’epidemia con ben altro piglio e dignità di noi figli della post modernità estenuati, fragili e piagnucolosi. Osserviamo qualche immagine delle folle di ieri: tutta un’altra dignità, la determinazione negli sguardi e nella postura, diversa la compostezza e il tratto rispetto alla plebe contemporanea. Sono i frutti avvelenati della diseducazione, del principio di piacere, del consumo di sé, della riduzione di tutto a oggetto, della perdita di significato, del disprezzo dei simboli.

I più non riescono nemmeno ad immaginare il potente valore simbolico della mascherina, il pezzo di stoffa che, nelle intenzioni, si interpone tra noi e il virus. Attraverso la maschera, ci hanno spersonalizzato, resi automi senza volto a tempo indeterminato. In verità, più che mascherato, ci hanno bendato. Sono gli occhi le vere vittime: guardano e vedono ciò che il potere vuole e lo identificano con le parole da esso imposte, a partire dal confinamento ribattezzato lockdown e dal distanziamento “asociale”. La divisione dell’uomo dall’altro uomo si chiama didattica a distanza (DAD) quando rompe il rapporto tra maestro e allievo, telelavoro quando ci rinchiude in casa davanti a uno schermo perché i padroni universali non hanno più interesse a tenerci disciplinati all’interno di fabbriche o uffici. Si chiama fare tutto online, a partire dagli acquisti, se lorsignori devono diminuire le spese per esercitare con profitto l’industria, il commercio, dispensare servizi. E’ tutto così bovinamente “comodo”, se, in attesa di incorporare il chip multiuso, possiedi una card, un terminale e dieci dita per pigiare sui tasti degli apparati elettronici, di cui siamo noi, esseri umani, a essere diventati il prolungamento, non più il contrario.

Nonostante tutto, riusciamo ancora a rendercene conto e probabilmente, pur dispersi, non siamo pochi. E se pure lo fossimo, siamo i più fortunati, perché abbiamo conservato l’amore per la bellezza e il desiderio della verità. Se ci immergiamo nel tesoro immenso della nostra civiltà, ultima àncora di salvezza e miniera inesauribile di sapienza, scopriamo che il male di oggi non è nuovo. I grandi spiriti avevano già scorto i germi del nichilismo della modernità: pensiamo ai demoni di Dostoevskij, posseduti da una febbrile ansia autodistruttiva. Uno di loro, Kirillov, si suicida con l’idea che così dimostrerà l’inesistenza di Dio e compiendo il gesto estremo libererà l’uomo. Sparandosi, diventerà l’uomo-Dio. Kirillov prende la decisione di uccidersi perché pensa di poter affermare così il suo libero arbitrio e liberarsi da Dio, del quale – se esistesse – non sarebbe che una marionetta.

Stavrogin, l’anima più nera di tutte, è il simbolo dell’ansia malata di libertà illimitata, l’assenza di impedimento teorizzata da Hobbes. Ma la libertà assoluta finisce per annullare i concetti di bene e male con la conseguenza di non poterli più distinguere.  “Formulai per la prima volta in vita mia questo severo pensiero dentro di me: che non conosco e non sento né il male né il bene, e che non solo ne ho perduto il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno.” Così parla la figura che esprime il superamento di ogni limite e senso morale. Ertosi al di sopra del bene e del male, non li distingue più; ai suoi occhi si confondono, sono la medesima cosa. Il cuore diventa sterile, arido come il deserto e la libertà si tramuta in forza distruttrice, scatenando il demone sopito. Stavrogin finisce per dissacrare ogni cosa, anche l’innocenza di una bambina, poiché “l’innocenza esercita sui perversi un’ attrazione speciale; essi che non sono puri provano un indicibile piacere a profanarla”. E’ la sconvolgente fotografia della “decostruzione “di cui sperimentiamo i risultati.

Shakespeare fa dire a un suo personaggio che sono maledetti i tempi in cui i pazzi conducono i ciechi. Sembra la profezia del tempo nostro, ma l’Ecclesiaste avverte: nulla vi è di nuovo sotto il sole. Il tempo è circolare, nessun progresso lineare, nessun transito dal buio alla luce. Quanto alla perdita di fede, fu chiarissimo Gesù stesso: quando tornerà, il figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra? Anche il crollo drammatico del senso comune, la follia del vizio trasformato in diritto non è prerogativa dei questi anni orribili. Semiramide, regina babilonese, “libito fè licito in sua legge”, scrive il padre Dante nella Commedia. Non è la descrizione perfetta del potere, della sua capacità di rendere giusto l’ingiusto e imporre la sua volontà? Juan Ramòn Jiménez, il massimo poeta spagnolo del Novecento, scrisse qualcosa che dovremmo scolpire nella memoria, a proposito delle falsità che diventano oro colato. “E’ verità, adesso. / Ma è stata talmente menzogna, / che continua ad essere impossibile, sempre.” L’ignoranza eterodiretta, avvolta nei suoi stracci, disprezza quanto ignora.

Non resta che resistere, tenersi in piedi tra le rovine e tenere fermo il coraggio delle idee giuste, la cui mancanza dimostra, secondo Ezra Pound, che non valiamo niente noi o non valgono nulla le nostre idee. La muraglia più invalicabile è la forza interiore, alimentata dalla conoscenza. Talvolta, basta a placare l’ansia e dissipare le paure l’armonia straordinaria di un brano musicale: pensiamo al quartetto vocale del Rigoletto di Verdi, alla profondità arcana e alla commozione che prende all’ascolto di una sinfonia di Beethoven, lo stupore dinanzi alla genialità assoluta di Bach.

Altro che la monotonia irritante del rap o il baccano rock. Manca all’uomo contemporaneo “quel cibo che solum è mio, e ch’io nacqui per lui, “come dice Nicolò Machiavelli nella lettera all’amico Francesco Vettori. Machiavelli, agli arresti domiciliari per il suo presunto coinvolgimento in una congiura anti medicea, descrive le serate in cui si chiude nel suo studio, studia, assorbe le opere dei grandi del passato, con i quali intrattiene un serrato dialogo spirituale su temi elevati.

Immaginiamo la differenza nel foro interiore tra la contemplazione della Scuola di Atene di Raffaello, le vette spirituali del Beato Angelico o gli stessi paesaggi impressionisti e l’astrazione di un Kandinskij, o peggio, di un Pollock. Il dialogo diseguale con i giganti di noi nani commossi dalla grandezza sulle tracce della bellezza sparge verità: il bello che si fa grandezza e bontà può salvare il mondo, se in molti lo vorremo.

Nel mondo arrivato a svilire la suprema, misteriosa bellezza della maternità attraverso pratiche come l’utero in affitto e diffondere l’idea folle del privilegio di dare la vita come imposizione sociale “eteropatriarcale”, che chiama bene, desiderio, diritto tutto ciò che è male, regnano gli oscuri signori di Mordor. John R.R. Tolkien, grande romanziere credente, ci trasporta nella Terra di Mezzo, la Contea della bellezza, dell’armonia e della saggezza abitata dagli Hobbit, i piccoli uomini dai grandi piedi alla ricerca dell’Anello. L’anello di Tolkien è il simbolo più schietto non del potere, ma del Bene e del Giusto, da ricercare con l’aiuto dei saggi e dei sapienti, di Gandalf e Merlino. No, finché un uomo saprà commuoversi davanti alla bellezza e levare lo sguardo verso l’alto, non sarà più buio della mezzanotte e potrà riposare la sentinella idumea.

Perché “non tutto quel ch’è oro brilla, né gli erranti sono perduti; il vecchio ch’ è forte non s’aggrinza, le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco, l’ombra sprigionerà una scintilla; nuova sarà la lama rotta, e Re quei ch’è senza corona “(John R.R. Tolkien).