Non c’entrano né l’amore né i diritti. La Chiesa dica cosa pensa della catena di smontaggio dell’umano

Luigi Amicone

Anche cardinali e monsignori si fanno trascinare sul terreno sdrucciolevole dell’amore e dell’accoglienza. Non è questo di cui si discute, ma della vita umana ai tempi della riproducibilità tecnica

Mercoledì 27 maggio 2015, sui due principali quotidiani nazionali, una coppia di eminenti principi della Chiesa cattolica hanno risposto pensosi alla “sfida” posta dal referendum irlandese che ha approvato a larghissima maggioranza il “same-sex” in Costituzione, cioè il diritto al matrimonio di persone con lo stesso sesso e, di conseguenza, l’archiviazione del matrimonio come istituzione riservata all’unione di un uomo e una donna.

Più in generale, Americhe ed Europa stanno completando il processo legislativo che ha portato il mondo occidentale a introdurre l’indifferenza sessuale in materia di istituto matrimoniale e, di conseguenza, dato che all’origine di ogni nuova vita c’è sempre l’incontro di un maschile con un femminile, a introdurre e a legittimare, per tramite l’innovazione e potenza della tecnica, le più immaginifiche e fantasiose esperienze di filiazione, maternità e paternità surrogate.

Questi sono i problemi connessi al riconoscimento delle unioni e dei matrimoni fra persone dello stesso sesso. Non l’amore (che non si nega a nessuno). Non i diritti (che avrebbero mille vie di diritto privato per essere tutelati). Non che qualcuno è “tradizionale” e “per fortuna il mondo cambia velocemente” (che a tutti piace cambiare e tutti ci sentiamo molto gay friendly). I problemi connessi al riconoscimento politico, legislativo e civile dell’indifferenza sessuale in materia di unioni e matrimoni sono:

  1. La “produzione” di nuova vita umana attraverso il ricorso a tecniche extracorporee (fornitura di sperma e ovociti fecondati in laboratorio e quindi impiantati in utero) e tecniche corporee (fornitura di cosiddetto “utero in affitto” – cioè esterno alla coppia gay – dopo l’avvenuta fecondazione in vitro; oppure ricorso a un partner di sesso diverso dalla coppia omosessuale acquisito come fornitore di prestazioni sessuali al fine di dare un figlio a uno o più componenti un determinato nucleo affettivo).
  2. La “produzione” di “nuove famiglie” dove la vita (il bambino) si trova accolta e amata, accudita e educata nel suo processo di maturazione psichica e fisica, nel suo “entrare nel mondo”, non necessariamente da un padre e da una madre, ma possibilmente (e psicologi tedeschi ora sostengono “migliorativamente”) da persone dello stesso sesso invece che da una madre e da un padre.
  3. La “produzione” di vita umana in cui le linee di parentela e di filiazione si oscurano e si confondono (ai donatori del materiale biologico atto alla produzione di un essere umano viene infatti garantito per legge l’anonimato e, generalmente, essi hanno l’obbligo di sottoscrivere un contratto in cui si impegnano a non rivendicare in futuro la paternità o la maternità del figlio nato dalla donazione del loro seme o ovocita).
  4. Le esperienze di “maternità” e “paternità” subiscono un processo di decostruzione radicale.

Ritornando ora ai due eminenti uomini di Chiesa sopracitati – il cardinale Angelo Bagnasco e il cardinale Walter Kasper, rispettivamente il numero uno della Conferenza episcopale italiana e l’estensore del documento base che aprirà in ottobre il secondo e conclusivo Sinodo sulla famiglia – a noi pare che le problematiche sopra descritte non riguardino la questione culturale, sentimentale, morale, religiosa, dogmatica eccetera dell’omosessualità. Non c’entrano con la tesi degli «opposti pasdaran» (come disse qualche giorno orsono Sua Eminenza monsignor Galantino) o con l’alternativa tra “fare le barricate” o «trovare un linguaggio nuovo che sia comprensibile soprattutto ai giovani» (Kasper). Non riguardano neppure il tema del “dialogo con i gay”, come riduttivamente è stata interpretata l’ampia disamina offerta da Bagnasco al Corriere della Sera. Per carità, abbasso i pasdaran e viva il dialogo. Però, le problematiche succitate dicono di fatti e realtà che si impongono e che impongono una scelta: remissione o lotta? Adattamento o resistenza? Insomma il problema è: che giudizio ha la Chiesa sull’uso e sullo sviluppo capitalistico della “questione sessuale”?

La ri-definizione dell’istituto matrimoniale come ambito dell’indifferenza sessuale si traduce nei fatti, al di là dei sentimenti e delle buone intenzioni dei singoli, nell’asservimento del maschile e del femminile (così come essi si trovano in natura) alla potenza della tecnica (che fa incontrare maschile e femminile nelle più immaginifiche e fantasiose vie della tecnologia corporea ed extracorporea). Si traduce in tutto il diritto al soggetto desiderante e fabbricante. Nessun diritto all’ “oggetto” del desiderio (l’essere umano) che viene al mondo fabbricato e variamente manipolato (perché poi lo si desidera con certe caratteristiche e, per il suo “bene”, con un certo database cromosomico e di dna).

Ora, giustamente gli uomini di Chiesa appaiono preoccupati del “contesto” di consenso che circonda il matrimonio gay e che non considera le questioni necessariamente implicate in questo genere di unione che non ha in sé il potere di dare la vita e quindi deve per forza esternalizzare il concepimento e la riproduzione umana.

Ma poi sembra si facciano trascinare e depistare sul tema (molto sdrucciolevole) dell’amore e su quello (molto scontato) dell’accoglienza. Ma gli uomini di Chiesa non ci devono ripetere se e come le persone omosessuali ci testimoniano “amore” e perciò devono accolte, ascoltate, rispettate. Sono problemi che non si pongono. Tutte le persone sono persone. Tutte ci testimoniano “amore”. Tutte vanno accolte, ascoltate, rispettate. Gli uomini di Chiesa però, questo sì, lo devono fare: devono decidere se e come intendono definire una resistenza all’uso dell’omosessualità come Cavallo di Troia per introdurre nella polis, nella città, nel mondo comune, la catena di montaggio della vita umana e di smontaggio della famiglia come “comunità naturale”. Gli uomini di Chiesa devono decidere se fare resistenza e sostenere la ragione e la contestazione pacifica, umana, laica, non confessionale, al capitalismo “colonizzattore” (papa Francesco) e produttore di nuova umanità.

O se appoggiare, sia pur con moderazione e qualche riserva morale, il potere del “Creatore” capitalista.

P.S. Per comprendere cosa si intenda per “omosessualità” come Cavallo di Troia del commercio dell’umano, leggete qui *** la corrispondenza che Silvia Kramar scrisse per Tempi da New York nel lontano agosto 1998. Si era alle origini dell’accumulazione capitalistica…
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*** leggete qui

Ricchi e orgogliosi

agosto 5, 1998 Silvia Kramar

New York. Da qualche settimana 15 organizzazioni religiose americane cristiane pubblicano sui maggiori quotidiani [New York Times,Washington Post, Usa Today] un annuncio a tutta pagina, secondo il quale “speranza e guarigione” possono convertire gli omosessuali americani alla retta via. La preghiera, dicono, li libererebbe dai loro peccati, Ii aiuterebbe a vedere la luce, poiché la fede è la loro unica via di salvezza. Ma sulla Christopher Street, nel cuore godereccio del Greenwich Village di New York, gli omosessuali vestiti coi pantaloni di pelle neri, gli orecchini a forma di teschio e i cappelli da poliziotto, si ubriacano di birra e non chiedono a nessuno di cambiare.

Una nuova élite

Oggi soltanto il Colorado si vanta di essere l’unico stato americano “veramente anti gay”. Gay, che poi significa felice, in una comunità che registra un altissimo tasso di suicidi. E poi il “gay pride”, la fierezza gay in nome della quale, ogni anno, nella terza settimana di giugno, marciano e festeggiano nelle città americane; nonostante che dagli inizi degli anni Ottanta, sia arrivato il mostro dell’Aids e la loro Broadway sia diventata un cimitero di croci e rimpianti. Adesso le stime dei ricercatori sociali dicono che il dieci per cento della società americana sia omosessuale, ma le statistiche variano, poiché rimane aperto il dibattito sulla definizione di gay: è gay chi lo dice, chi lo fa o chi sa di esserlo? Di certo quello che è cambiato nel mondo gay, negli ultimi vent’anni, non ha molto a che fare col loro numero, ma piuttosto con la loro visibilità. «Out of the closet», dicono gli americani: siamo usciti dall’armadio, ci mostriamo al mondo. E chi non aveva il coraggio di farlo lo sbattevano loro stessi sui giornali gay, raccontandone nome, cognome e fatti personali, come una folle caccia alle streghe, compiuta dalle stesse fattucchiere di un villaggio dove tutti si conoscono. Hollywood comincia a toccarne, con una carezza gentile, le storie da cinema e Eilen, personaggio televisivo che si è annunciata lesbica, ha permesso a migliaia di donne di tenersi per mano nelle strade e nei ristoranti, di sposarsi con la benedizione di pastori protestanti e di chiedere anche al sindaco di New York, Rudolph Giuliani, di offrire alle coppie gay gli stessi diritti delle coppie sposate. Nelle librerie abbondano oggi i titoli di romanzi sui gay; “The beach affair” e “Fighting for air” sono tra i best seller per lesbiche, corteggiate anche da un nuovo settimanale per sportivi, “Girljock”, pieno di pubblicità e di nuovi eroi: se fino a qualche anno fa Martina Navratilova era l’unica donna apertamente omosessuale, oggi si sono fatti avanti Missy Giover, ciclista e Gina Guidi, una pugile peso Welter. E quando Clinton è stato eletto, portando una nuova generazione alla Casa Bianca, il dilemma dei soldati gay ha portato alla ribalta i segreti della vita di caserma di molti omosessuali.

Rampanti e motori del capitalismo

Così è inevitabile che il mercato li accarezzi con le lusinghe dell’advertising. Prendiamo la Bibbia della pubblicità di Madison Avenue, la rivista “Advertising Age”: quattro anni fa erano stati loro i primi a pubblicare una sezione intitolata: “Rapporto speciale: il marketing dei gay e delle lesbiche”, spiegando come fosse meglio rivolgersi alla popolazione omosessuale americana seguendo poi la sua silenziosa scalata al successo. Oggi che gli omosessuali sono arrivati ai piani alti delle corporation sono le aziende ad andarli a cercare e a gareggiare per conquistarsi un consumatore che ha mediamente un reddito e un’attitudine alle spese per consumi che non ha eguali nelle altre fasce della popolazione. Come ci ricorda la storia di Alian Gilmour, secondo in comando della Ford. Figlio di un allevatore di mucche del Vermont, aveva studiato ad Harvard ed era arrivato alla Ford nel 1960. Non si era mai sposato, non aveva donne, e presto i colleghi ne avevano dedotto che era gay, anche se lui non ne parlava: per ben due volte, al momento della promozione al posto di comando della ditta automobilistica, gli avevano preferito un altro. «Il mondo del business non era pronto ad accettare un gay», racconta. «Quando mi chiedevano perché non mi ero sposato, rispondevo che «ero sposato alla Ford».

Oggi le cose sono cambiate: la Ford ha persino creato la “Globe” un’organizzazione per i dipendenti gay. E nessuna multinazionale americana corteggia i gay più della Walt Disney: li protegge nei propri ranghi, offre loro facilitazioni “familiari” e a Orlando, in Florida, a Disneyworld offre loro un giorno all’anno per festeggiare il mondo gay: quest’anno sono arrivati in più di 10 mila.

Da quando i gay hanno organizzato le loro olimpiadi, il mondo dello sport ha trovato un enorme potenziale di acquirenti: si offrono viaggi per gay sportivi, come quelli per lesbiche della Olivia Cruises, della Outside sports, della Womantour. Above e Beyond offre vacanze per sciatori gay in Nuova Zelanda, Spirit Journey ti porta a nuotare coi delfini nelle Bahamas, Toto tours ti porta a cavallo sulle Montagne Rocciose.

Oggi i gay americani dispongono di un reddito medio molto alto: uno studio prodotto dal Simmons market research bureau ha svelato che se la media nazionale si aggira attorno ai 32 mila dollari di reddito annuo, il gay dispone in media di 47 mila dollari: in più non ha figli, spesso non ha più legami tradizionali con la famiglia d’origine e, se convive, spesso lo fa con un compagno che si aggira sullo stesso reddito. «I gay esprimono un potere d’acquisto sempre maggiore. una fedeltà al prodotto tre volte superiore alla media e la capacità di decretare le fortune e le sfortune di una ditta», dicono i guru del marketing aziendale. Quando, ad esempio, la birra Miller era stata boicottata dai gay nel 1990, le sue vendite erano scese del 54%. Oggi la Miller sponsorizza le olimpiadi gay e si dice fiera di aiutare gli atleti omosessuali.

Un grande sponsor: il New York Times

New York rimane comunque il più grande emisfero del successo omosessuale: mentre il prezzo del mercato immobiliare sale alle stelle, le coppie gay comprano le più belle case del Village e giocano in Borsa. E il quotidiano che più li sostiene è proprio il New York Times, dove i giornalisti gay coprono le news del loro gruppo: un enorme passo avanti per un quotidiano dove fino al 1970 gli omosessuali venivano definiti “pervertiti”.

I critici, i conservatori e gli “omofobi”, come i gay definiscono i loro nemici, cercano da anni di placare i favoritismi del più famoso quotidiano americano; ma già nel ’93 il Nyt aveva decretato la sua simpatia per i gay pubblicando una recensione di un film che aveva causato un grave scandalo: era una pellicola olandese basata su una storia d’amore tra un bambino e un uomo maturo, che il critico aveva definito un «film artistico e ad altissimo livello culturale». Per settimane la stampa conservatrice gli si era scagliata contro. «Il numero degli articoli del New York Times pro gay è impressionante, calcolando che sono una piccola percentuale della cittadinanza», si lamenta Robert Knight, direttore del family research council di Washington. Ed ecco che sulle riviste gay appaiono le pubblicità delle maggiori ditte: la compagnia di assicurazioni Aetna, l’American Express, la lBM, la Saab, Prada, Dolce e Gabbana, le maggiori linee aeree che hanno capito che ai gay piace viaggiare: basta frequentare Saint Barts, lbiza, Bali, Sidney o le isole greche per rendersene conto. E l’ultima statistica dice che gli omosessuali americani spendono annualmente 524 miliardi di dollari. Il budget per l’advertising gay delle ditte americane ha raggiunto la cifra complessiva di 100 milioni di dollari all’anno, con un aumento del 36 per cento rispetto al 1996. Il saggio “Untold millions: positioning your business for the gay and lesbian consumer revolution”, scritto da Grant Lukenbill quattro anni fa è oggi più attuale che mai; vi si legge che le grandi corporation dovrebbero creare un mercato per i gay. Scrive Lukenbill: «Arriverà il giorno in cui una lesbica diventerà madre, farà pubblicità in televisione ad un certo detersivo per pannolini, mentre un tennista gay, sponsorizzato da una marca di scarpe da tennis farà il portavoce della nuova campagna anti violenza». Lukenbill aveva capito tutto: la lkea ha uno spot televisivo nel quale due uomini comprano, insieme, i mobili per la loro casa, mentre la compagnia dei telefoni At&T ne ha una dove un uomo ammette: «Quando David è via per lavoro ci piace sentirci vicini». E la marca di liquore Tuaca mostra tre lesbiche che amoreggiano in un bar: «Belle ragazze cercano dei tipi silenziosi e aperti per condividere la Dolce Vita», dice lo slogan. Nelle librerie vende a ruba “Gay American history”, un’enciclopedia dei nomi famosi del mondo omosessuale.

Dove andranno nel futuro i dollari gay, nessuno lo sa con esattezza. Quello che è certo è che per l’industria planetaria – il mercato – non c’è miglior consumatore che come loro sia disposto a bruciare fino all’ultimo cent e poi rapidamente a ricapitalizzare per soddisfare i desideri di benessere. Per cercare di vivere all’altezza della parola che si sono scelti, gay, cioè “felice”.
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